venerdì 30 dicembre 2016

Schiera di parte.

            

Mio padre sul cantiere è sempre inflessibile. Io al contrario non faccio mai il duro con nessuno: sul lavoro ci vado quando posso, ed in genere mi faccio vedere giusto per controllare che tutto proceda secondo il progetto generale, e che le norme di massima siano rispettate dagli operai e dai vari subappaltatori. Lui no; lui si fa vedere spuntando fuori all’improvviso, ed è come se buttasse tonnellate d'acqua su tutto quanto, fino a riempire la grande vasca, per cui chi sa nuotare, oppure si arrangia in qualche modo, riesce alla fine a mantenersi a galla, ma tutti gli altri inevitabilmente precipitano sul fondo, con la pancia gonfia e gli occhi sgranati dal terrore.
Ho sempre paura quando sto con lui; paura che se la prenda anche con me in quelle occasioni, magari per come ho trattato alcune cose, o come ho gestito certe lavorazioni, o per come mi riferisco direttamente ai lavoranti; così quando c’è mio padre da queste parti, se posso io resto in ufficio, oppure me ne vado in giro per conto mio con qualche scusa generalmente più che plausibile. Perciò, quando gli operai mi vedono arrivare sono sempre un po’ rilassati: sanno che non sto arrivando insieme con mio padre, e quindi mi salutano, alzano la mano come per un gesto di pace, sorridono, mi trattano con confidenza. Non mi piace, potrei anche innervosirmi per questo, anche se poi non lo faccio, perché vorrei essere preso maggiormente in considerazione, anche se alla fine penso non si può avere proprio tutto, ed è così che poco per volta lascio correre, e se nessuno ha timore dei miei modi, alla fine vorrà dire che non ha poi molta importanza.
Poi un caposquadra mi ferma: ingegnere, mi dice, i ferraioli nelle armature di questi pilastri hanno tirato un po' via, ma tanto nel pomeriggio si faranno le gettate e così non si vedrà più un bel niente e tutto sarà a posto. Sorride, io sorrido a mia volta, mi viene subito la voglia prepotente che tutto sia finito, prima che arrivi mio padre, e che io possa andarmene da lì senza vederlo, perciò annuisco, mi fido di questo caposquadra, andrà tutto bene, sono sicuro non ci saranno dei problemi. Oggi mio padre penso non venga, gli dico, ma subito mi pento di avere detto cosi: si può fare quasi come si vuole, riprendo con ironia, ma oramai mi rendo conto di aver detto qualcosa di profondamente sbagliato. Difatti quello mi guarda con serietà, ma poi prende le mie parole proprio sul serio, perciò ride come senza motivo, e mi tocca anche il braccio, a dimostrazione che basta un gesto e una consapevolezza per sentirsi esattamente dalla stessa parte.
Vorrei non essermi fatto vedere sul cantiere, vorrei adesso avere l'autorità per controllare minuziosamente tutte le armature, vorrei che tutto scorresse come sull'olio, senza dare alcun problema, e forse alla fine mi piacerebbe anche che mio padre fosse qui, a preoccuparsi lui di tutte queste cose. Mi volto, mi pare di non aver compreso qualcosa, ma gli operai invece hanno capito perfettamente che oggi lui non verrà sul cantiere, e battono la fiacca, si muovono lentamente, fanno il minimo di ciò che dovrebbero combinare. Mi assento un minuto, giro sul retro, e poi alla fine telefono a mio padre. Quando arriva io me ne sto andando, gli operai mi guardano da lontano. Forse mi reputano un traditore, uno che fa il doppio gioco, e questo sinceramente mi dispiace. Però non potrei essere quello che sono, se non fossi parte di una squadra schierata.


Bruno Magnolfi

sabato 24 dicembre 2016

Aspirazioni.



Non so, forse non è niente. Però c’è questa mano, dico proprio mentre me la sto guardando, stendendola nell’aria. Mi fa male, tutto qua, non la posso muovere come vorrei, e perciò la tengo il più possibile in tasca; ma siccome provo una certa uggia dal polso fino alla punta delle dita, mentre cammino con il mio passo lento, non posso fare a meno di pensarci continuamente, di identificarmi nella mia mano destra, fino ad immaginare di calarmi tutto quanto per intero dentro alla tasca, proprio insieme alla mia mano, e stare lì fermo, raccolto, chiuso nel caldo, ad aspettare forse qualche buona novità, magari che all’improvviso riesca a passare semplicemente questo antipatico dolore.
Il punto è che non riesco a dimenticarmi mai di lei, della mia mano dico, e così convivo col dolore e con la sofferenza. Potresti andartene da un dottore, mi dice un tipo che conosco appena. Potresti fartela visitare da qualcuno che davvero se ne intende, mi fa. Io guardo dall'altra parte della strada, proprio per non dargli alcuna importanza, anzi per sminuire quelle sue parole che quasi non vorrei sentire. C'è la possibilità che qualcuno faccia la diagnosi di un male irreversibile, penso, o comunque qualcosa di grave che mi imponga scelte e cambiamenti, così è meglio lasciare tutto come sta, piuttosto che affrontare un crollo psicologico o qualcosa di quel genere.
La tengo ferma, dico a questo tizio, mi occupo di tutto con quest'altra, e le cose vanno bene nella stessa medesima maniera. Questo caldo della mia tasca poi, a qualcosa riuscirà ad essere utile, ed io penso proprio che poco per volta le cose si rimetteranno a posto, come se niente fosse stato, e tutto sarà di nuovo nella stessa esatta maniera di poco tempo fa. Come vuoi tu, fa questo tipo che inizia a starmi sulle scatole, però sentirsi sminuiti nei propri movimenti, secondo me non è una bella cosa. Lo lascio dire, pesco dalla tasca, quella della mano sinistra, una cicca che avevo messo da parte proprio per questo pomeriggio, e senza mai estrarre la mano malata dal suo nido, riesco ad accenderla ed a tirare qualche boccata di fumo. L’altro mi guarda, io continuo a camminare, la mia espressione è di tranquillità, se non fosse per questo maledetto sottile dolore che ancora avverto.
Quello però insiste, dice che le mani sono la parte principale di una persona, e che non è una bella cosa lasciare che un semplice dolore renda inservibile una parte del proprio corpo. Lo lascio dire, mi disinteresso delle sue parole, e intanto vedo qualcuno che conosco dalla parte opposta della strada, così decido di attraversare di colpo, senza preavviso, lasciando questo tizio alle sue farneticazioni. Quello mi segue per un attimo, dice che non va bene comportarsi in questo modo, ed anche altre cose di quel genere, ma io oramai non lo ascolto più, e mi rivolgo a quest’altro sopra al marciapiede salutandolo, mentre l’altro finalmente se ne va. Lui mi dà la mano ed io gli porgo la sinistra, scusandomi che ho l’arto impedito da un dolore forte e inusuale.
Si va avanti a camminare parlando per qualche attimo del più e del meno, ma quello subito mi dice che gli dispiace che io sia menomato, e che spera trovino presto una cura adeguata per rimettermi a posto. Sorvolo su queste parole, e gli dico subito che a me piace passeggiare lungo quella strada sempre affollata di gente. Lui fa cenno di si, ma poi riprende il discorso della mia mano, ed allora penso che sia diventata un’abitudine quella di parlare delle cose che non vanno. Invento subito una scusa, gli dico che ho da fare, e in questo modo me ne vo per conto mio. Giro ancora un po’ lungo la strada, ma ormai ho il terrore di incontrare altre persone che conosco, così mi copro la faccia con la mano sinistra, e appena posso volto per una via meno frequentata. Non si riesce mai a starsene tranquilli, penso; non ho bisogno di consigli o suggerimenti: convivo col mio male, vorrei che gli altri non gli dessero alcun peso, insomma che si disinteressassero del tutto delle mie pene.


Bruno Magnolfi

giovedì 15 dicembre 2016

Genesi del muro.

           
            Ho visto scritto sopra al muro il mio destino. Per questo ho subito voltato lo sguardo verso gli alberi, lungo i giardinetti desolati, al margine di questa piazza, dove le persone spesso si ritrovano, e spesso parlano tra loro, come se soltanto questo fosse il compito fondamentale di tutti i cittadini. Quegli alberi sembrano patiti, i rami rinsecchiti, le foglie parzialmente smunte, e le persone che stanno sempre da queste parti, anche se fingono di non accorgersene mai, sono virtualmente colpevoli di quanto è già accaduto, come se adesso tutto l’attuale panorama che è possibile osservare, fosse oramai un elemento sostanzialmente invariabile, quello e basta. Sorrido: forse va bene, non c’è problema, anche se alla fine questa è soltanto la piazza del mio paese, un agglomerato di case a cui non sono neppure troppo attaccato sentimentalmente.
            Le pietre stanno ferme, la loro superficie è fredda e immobile, cammino rasentandole, e intanto penso che non ci sia altra possibilità se non ignorare il messaggio di chi ha voluto porre proprio qui la sua firma quasi indelebile. Mi avvicina un ragazzo, dice che le giornate sono corte, fa freddo, che si sta bene soltanto in posti riscaldati, a scambiarsi le opinioni davanti ad un bicchiere, se si toglie queste due o tre ore di sole, magari accanto al muro che chiude al vento e alla temperatura rigida di questo periodo. C’è una scritta, dico: qualcosa che  indica forse cosa ci sia da fare in questi giorni, dove ogni contrapposizione blocca la volontà, lasciando campo soltanto alle mediazioni. Poi seguo il ragazzo, entriamo insieme nel caffè che si apre sulla piazza, e tutto improvvisamente sembra allegro, le persone si salutano, pare si snodi come una ritrovata civiltà.
Mi trattengo poco, in fondo credo di non avere quasi niente da spartire con tutti questi personaggi, se non la voglia di nuovo, di cambiamento, commisurata con il bisogno profondo che tutto resti esattamente tale e quale. Torno al muro, da solo, ma quello non si abbassa a dire nient’altro, lascia che tutti gli argomenti trattati riescano ad equipararsi, in modo da lasciarli ad una propria soluzione, e tutti coloro che abbiano la voglia di passare proprio da queste parti, restino sostanzialmente indifferenti a quanto questi sassi paiono suggerire. 
Torno indietro, costeggio il muro quanto più possibile, proprio alla ricerca di sentire ancora la sua voce, poi attraverso la strada, e vado incontro alle mie cose di sempre, quasi senza pensieri. Incontro il ragazzo di prima, dice adesso che neanche lui si trova bene in questo pozzo di luoghi comuni, circondato spesso da mancanze, più che da proposte e affermazioni. Percorriamo assieme uno stesso pezzo di strada, poi ognuno volta per la propria direzione, e nel saluto frettoloso che adesso ci scambiamo c'è la tristezza di non riuscire ad incidere affatto sulla realtà che ci circonda, quella piccola, appena esterna alla nostra privata quotidianità. Rientro in casa pensando ancora al muro: in fondo lo odio, rifletto; e per questo credo che per nessun motivo tornerò a considerarlo come certe volte ho fatto: un simbolo silenzioso delle mie giornate.


Bruno Magnolfi

giovedì 8 dicembre 2016

Valore intrinseco.



Sono qua, urlo contro la facciata posteriore del condominio, impiegando tutta la voce che riesco a trovare in fondo al mio respiro. Qualcuno subito si affaccia alla finestra, altri ancora ai terrazzini, ed in certi casi parecchi mi osservano scansando lentamente con la mano quei panni vistosi sistemati sui fili e sopra gli stendini ad asciugare. Li guardo a mia volta, immobile per alcuni lunghi momenti; quasi tutti sanno benissimo chi sono, e forse qualcuno di loro mi teme, penso, per questo è portato ad evitarmi per la maggior parte delle volte, specialmente quando passeggio per i fatti miei, lungo la strada del quartiere, scegliendo quasi sempre di tenermi inevitabilmente un po’ a distanza. Non ne sono addolorato, è evidente: per me questa gente può persino maledirmi, se proprio lo desidera, che tanto io non mi allontano facilmente da questo cortile dove tutti stanno alla finestra e possono spiarmi. Non mi conoscono, ecco il punto. Perché dovrebbero sapere che se voglio riesco a tenerli sotto scacco, nonostante tutto. Urlo in faccia a loro la verità, ecco, proprio quello che penso e anche quando ne ho voglia, e tutti in questo modo sono nel mio pugno, ed io posso fare di loro praticamente ciò che voglio.
Siete soltanto delle pecore, dico ancora ma con voce un po’ più bassa. Ormai in diversi sono già rientrati, anche se hanno ormai compreso perfettamente cosa intendo dire questa sera; e gli altri, proprio per questo, non mi concedono più molta importanza. Nel cortile sono solo, a quest’ora stanno tutti nei loro appartamenti, potrei far scoppiare una bomba, rifletto, mostrare di che pasta sono fatto, ma è già sufficiente che sappiano che sono qui, pronto, senza alcuna soggezione. Torno ad infilare le mani dentro le tasche, mi volto, c'è una ragazza che viene verso di me. Si ferma a due metri, dice: se vuoi possiamo parlare. Parlare, penso, e di che cosa? Non sono abituato, se devo dire qualcosa riesco solo a dirla urlando. Facciamo due passi insieme, mi fa: puoi spiegarmi perché c'è l'hai sempre con tutti.
Non saprei proprio cosa risponderle, penso, e tutta questa importanza mi mette soltanto un po’ a disagio. Alzo le spalle, mi volto, ma lei mi tocca un braccio, dice che è sicura che non farei mai del male ad anima viva. La lascio dire, cosa mi importa di quello che crede, sto da solo in questo cortile, anche se fosse pieno di gente. Sono qui, urlo di nuovo improvvisamente al condominio, ma adesso non si affaccia più quasi nessuno, ognuno di loro continua a mandare avanti le proprie solite sciocchezze, e alla fine si disinteressa di tutto quanto il resto. C'è un muretto lì accanto, la ragazza si siede e mi invita con un gesto a mettermi proprio li, accanto a lei. Dice subito che anche a lei non piace questo condominio, così ordinario, scontato, fatto di gente noiosa e anche un po' triste. Hai ragione, penso, ma io soprattutto li odio, perché sono tutti soltanto dei vigliacchi.
Lei dice che potremmo fissare un appuntamento, vedersi tutti i giorni proprio in quel punto, alla stessa ora, e così imparare poco per volta a conoscersi un po’ meglio. Va bene, penso, in fondo non mi costa niente, posso stare qui con lei, pensare quello che voglio, urlare se mi va, non c’è nessun problema. Allora mi saluta, dice che si chiama Silvia, abita in un appartamento al terzo piano: posso guardarti dalla mia finestra, qualche volta. Non penso sia una buona idea, rifletto, in ogni caso la lascio andare e resto fermo, sul muretto, senza idee. Poi mi alzo, le mani nelle tasche, mi volto verso il condominio: scoppierà una bomba, urlo forte scandendo bene le parole; e voi dovrete per forza fare i conti con tutto ciò che adesso fingete di ignorare. Tutto a quel punto sarà diverso, e voi dovrete accogliermi, non potrete farne a meno; ed io e Silvia saremo le persone migliori di tutto questo posto, e voi vi affaccerete alle finestre, e ci saluterete, riconoscendo il nostro valore e i nostri meriti.


Bruno Magnolfi 

sabato 3 dicembre 2016

Senza illusioni.

            
            La vedo passare praticamente ogni mezz’ora, dice lui. Così la guardo, ma non per struggimento, o per vedere una volta di più come sia fatta, oppure indagando come riesca a muoversi con i suoi abiti sempre impeccabili. L’osservo, naturalmente senza farmene accorgere, e lo faccio soltanto per cercare di comprendere, tramite quei suoi passi cadenzati lungo il nostro corridoio, che cosa mai possa pensare una come lei in quel preciso attimo in cui mi passa proprio davanti. Il mio ufficio ha grandi vetrate dalla parte del corridoio, molti impiegati vanno e vengono, hanno in mano delle carte, certe volte dei faldoni, si scambiano un saluto, una battuta, poi vanno nella stanza delle fotocopie, per poi tornare indietro. Anche lei generalmente si comporta nello stesso modo, ma il suo stile mi pare estremamente differente. E’ come se non fosse immersa veramente nel nostro luogo di lavoro, ed i suoi gesti comunque si mantenessero leggeri, quasi impalpabili, praticamente di gran lunga al di sopra di quelle pratiche polverose e noiosissime delle quali è costretta ad occuparsi.
            Subito dopo naturalmente me ne disinteresso, dice ancora lui agli amici della birreria dove si ritrovano la sera. Qualche volta la saluto, magari quando ci incontriamo lungo il corridoio, ma non sono mai stato capace di chiederle qualcosa o di intavolare un discorso in sua presenza. Mi limito a sorridere, quasi come un ebete, per poi distogliere lo sguardo e lasciarla scivolare verso i suoi impegni. Credo che i suoi pensieri siano sempre orientati un po' più avanti di quelli degli altri impiegati, come se già avesse elaborato completamente le sciocchezze quotidiane che a noi tengono impegnati, e la sua mente navigasse altrove, quasi in una diversa dimensione. So che non è particolarmente bella, ma il suo fascino, almeno ai miei occhi, è smisurato. Gli amici naturalmente lo ascoltano, e nessuno di loro si sogna di interromperlo, tanto sanno quanto conti per lui quella specie di punto di riferimento.
Forse è una donna qualsiasi, conclude lui, ma la dote principale che a me sembra di intravedere in lei ogni giorno è quella di essere, almeno durante l'orario di lavoro, un vero e proprio personaggio, un’individualità che spicca sopra tutte, a cominciare dalla sua espressione e dai suoi sguardi, sempre volti verso qualche cosa di diverso dalla quotidianità. C’è dell’assenza nei suoi modi, ed una capacità innata di essere comunque lì in quel momento, e anche di non esserci, contemporaneamente. Per questo ho fatto una scelta, dice lui agli amici; ed ho deciso di chiederle in maniera diretta e con semplicità come possa riuscire ad essere un tipo di persona di quel genere.
Così sono andato da lei, senza attendere neppure il suo passaggio nel corridoio: le ho fatto un cenno, lei mi ha osservato senza alcuna espressione, quindi si è alzata dalla sua scrivania e mi ha seguito per pochi metri, fino ad un angolo tranquillo. Sono affascinato, le ho detto; non vorrei neppure usare altre parole, che non sarebbero assolutamente appropriate. Però ho di fronte a me  senz’altro la donna più interessante che conosca. Lei allora mi ha guardato, ha sorriso leggermente, ma senza imbarazzo; poi ha abbassato gli occhi, come per spiegare che aveva qualcosa da dire, ed una pausa interminabile è trascorsa in questa maniera. Verrò trasferita, la prossima settimana, credo. Non penso in seguito ci rivedremo con facilità, però apprezzo queste parole, indicano forse qualcosa che in fondo ho sempre coltivato dentro di me: la mia non appartenenza a niente ed a nessuno. Per il resto, mi sento esattamente una donna qualsiasi, ed è inutile del resto farsi illusioni.


Bruno Magnolfi

mercoledì 30 novembre 2016

Nicchia segreta.

            

            Spesso vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
            Sulla mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle: posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma, e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta, mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
            In certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene, questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata lavorativa.
            Stamani, come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.


            Bruno Magnolfi

venerdì 25 novembre 2016

Nessuna illusione.

          
            Sono vuoto, nonostante in apparenza tenti sempre di mostrarmi come una persona curiosa di qualunque situazione si presenti. In fondo non mi interessa proprio nulla di quanto viene spiegato da tutti continuamente; fingo regolarmente di apprezzare le novità, di starmene abbastanza aggiornato, ascoltando ogni individuo che mi parla con espressione attenta, ma in realtà vorrei soltanto sbadigliare e coricarmi sul divano di casa per non pensare più a niente. Qualcuno potrebbe appellarmi come egoista indifferente a tutto, ma dentro di me non c’è nessuna volontà precisa di tipo negativo, non provo rancore per niente e per nessuno, perché non ci sono reali scelte che abbia davvero fatto prima o dopo. Non ho passioni, tutto qua, vado avanti senza mettere impegno nelle mie azioni, scelgo sempre la via senz’altro più comoda anche per raggiungere qualche semplice obiettivo. E poi non cerco neanche le cose migliori per le mie esigenze, mi lascio galleggiare nella normalità, spesso senza muovere neppure un muscolo.
            Esco certe volte con un amico, e lui in certi casi riesce a trascinarmi persino in qualche locale, probabilmente proprio per avere il tempo di raccontarmi le sue giornate, i suoi interessi, la sua volontà. Io rido, lo ascolto, mi lascio guidare da lui nei luoghi e in mezzo ai suoi discorsi, poi quando torniamo lo ringrazio e rientro in casa esausto, riprendendo subito i miei comportamenti abituali. A che serve tutto questo, mi chiedo a volte. Forse dovrei starmene sempre nel mio appartamento, alla ricerca perenne della posizione più comoda magari per ascoltare semplicemente a basso volume qualche canzonetta che trasmette questa radio alla quale lascio riempire il silenzio. Lui invece mi telefona, dice: si potrebbe andare al cinema, o in una birreria che conosco, piena di ragazze carine. Va bene, come vuoi, gli dico. Ti aspetto qui, puoi passare a prendermi.
            Poi, in un posto dove mi sono lasciato portare, incontro questa ragazza silenziosa. Mi guarda per un attimo, e lascia con naturalezza che io le offra da bere. Le chiedo qualcosa, lei risponde, ma in seguito non mi guarda neanche più: dice soltanto le brevi frasi che servono al dialogo e poi basta. Mi rendo conto che se non proseguo a farle delle domande non riusciamo più neanche a parlare, così mi volto, guardo avanti a me, e tanto per riempire il vuoto, inizio a dirle che non ho interessi, e che di questo forse provo dispiacere. Mi sento privo di voglie, le spiego, mi sembra tutto quanto così difficile che preferisco non lottare, pur di evitare delle sconfitte impegnative. Non posso essere un esempio per nessuno, ne sono consapevole, però tutto questo è assolutamente il frutto della mia natura, che forse in certi casi mi fa anche vergognare, questo è vero, ma devo assecondarla, e così mi limito a nasconderla non parlandone mai con anima viva, e fingendo con tutti di essere come uno qualsiasi, impersonando quasi sempre ciò che gli altri desiderano vedere nella mia persona.
            Lei allora si volta, mi guarda, non sembra particolarmente impressionata dalle mie parole, però avverto che qualche cosa si è mosso dentro di lei. Beve un sorso, poi dice di andarcene da lì, che non abbiamo niente da fare in questo postaccio. Si parla, ma lei non dice quasi niente di sé, solo che è stufa di tutto, perché qualsiasi cosa abbia tentato, non è mai riuscita a farla diventare qualcosa di importante per il suo futuro. Ascolto: le dico riassumendo che siamo ambedue amareggiati da qualcosa, e ne sorrido, così facciamo un giro e poi senza enfasi alla fine ci salutiamo, che tanto appare evidente che non ci può essere un futuro per due come noi: è bene prenderne subito atto, penso, senza farci alcuna illusione.


Bruno Magnolfi

lunedì 21 novembre 2016

Potere inconsulto.

          
            Si, sto bene, dico subito a qualcuno che mi ha visto cadere così in malo modo. Mi aiutano, mi tirano su, io bofonchio qualcosa e poi mi riaggiusto la giubba sopra le spalle, dolorante ma quasi pronto persino ad affrontare qualche altro gradino scivoloso. Lentamente ma con orgoglio mi riavvio, e dopo un altro piccolo tratto di strada, entro senza indugi nel palazzo degli uffici dove mi dovevo recare stamani. Forse qualcuno tra quelli presenti alla mia caduta mi ha seguito fin qui, penso; forse vorranno chiedermi ancora se tutto vada bene davvero. Con determinazione, dal grande ingresso pieno di gente, vado risoluto a girare la maniglia di una porta qualsiasi, lungo il primo corridoio che incontro, ed entro dentro, come sapessi già perfettamente dove recarmi, ed in modo da eludere qualsiasi tentativo di coloro che sicuramente insistono ad inseguirmi.
            Una donna dietro la sua scrivania alza gli occhi dalle carte che ha di fronte, e mi chiede subito gentilmente che cosa desideri. Le faccio presente con accuratezza la mia situazione attuale, le relaziono i dettagli della mia caduta, le spiego la posizione assunta da alcuni curiosi, e tutto il resto che mentre parlo mi torna pronto alla mente, non dimenticandomi naturalmente di mostrarle un certo gonfiore sopra un ginocchio, risultato evidente della gran botta, ma lei sorride, come stessi dicendo quasi qualcosa di divertente. La guardo con una certa sorpresa, l’impiegata subito mi dice che proprio non può essermi utile, e che adesso per farle un favore dovrei proprio uscire da quell’ufficio. Assecondo perplesso la sua richiesta, ma quando apro la porta mi accorgo, anche se non riesco a riconoscere quegli individui tra gli altri, che c’è qualcuno che mi sta aspettando, come se in certi ambienti si volesse ancora sapere i dettagli del mio stato, e magari anche d’altro.
            Spiego alla donna che non posso uscire dalla sua stanza, devo obbligatoriamente restare confinato là dentro, e già che ci siamo le chiedo se può anche aiutarmi con le pratiche che devo mettere a posto. L’impiegata si alza dalla sua scrivania, mi si accosta con un’espressione incerta, osserva i miei incartamenti e infine, spingendomi leggermente ma quasi restando dietro di me, apre la porta e si guarda subito attorno, lungo quel corridoio che sto cercando di evitare. Venga con me, mi dice, l’accompagno io allo sportello dove potrà risolvere questi suoi problemi: se sta al mio fianco, nessuno le potrà dire niente. La seguo, mi fido, anche se a dire la verità avrei preferito restare almeno qualche altro minuto nella sua stanza, seduto da una parte magari, senza preoccupazioni, in un luogo così sicuro come sembra quello, assolutamente protetto.
Lei cammina veloce, io arranco cercando di starle attaccato. Lei infine si ferma, parla con qualcuno, indica qualcosa da una parte e dall'altra, lasciandomi infine comprendere, senza volerlo, che mi sta consegnando direttamente ai miei inseguitori. Perciò mi volto, noto quattro o cinque persone che vengono verso di me, mi sposto rapido da una parte, mi piego ad evitare di essere riconosciuto, ma il mio ginocchio non tiene, provo una fitta di dolore e così vado a terra. La donna ride con un’espressione da dura, mi indica come un individuo di cui farne oggetto di scherno, io sono confuso, vorrei fuggire in fretta da lì, ma lo ritengo impossibile, così resto immobile ad aspettare gli eventi. Qualcuno mi fa un’iniezione, mi portano via con una barella, mi ritrovo disteso nel letto ordinario di un vecchio ospedale, senza neppure sapere perché.

Bruno Magnolfi 


giovedì 17 novembre 2016

Casa mia.

            

            Senza mai preoccuparmi di niente, giro a caso per strada, quasi sempre nei dintorni della stazione degli autobus. Mi piace la gente in partenza, poi qua ci sono le pensiline, le vetture, i larghi marciapiedi disseminati di comode panche, ed io, adesso che è buio, immagino come per tutto il pomeriggio decine di persone siano transitate da queste parti, magari tutti di fretta, orologio alla mano, cercando la propria corriera con il biglietto bene in vista o dentro una tasca. Qualcuno magari ha perso per un soffio la sua coincidenza, altri si sono dimenticati qualcosa, l’intero bagaglio forse, appoggiato per un attimo a terra, mentre la testa era persa dietro altre cose. Ormai è tardi, a quest’ora poche macchine passano ancora da qui, e solo quelle a lunga percorrenza; si fermano con tutte le luci sguainate davanti, sotto questa tettoia, giusto per qualche minuto, e i passeggeri naturalmente sorridono, rassicurati da quella presenza, poi salgono su, parlano tra loro, occupano subito il posto migliore, infine si mettono comodi e rimangono fermi, tranquilli.
            Vorrei tagliare la strada ad una di queste corriere, farle scoppiare una gomma proprio mentre sta arrancando sulla salita che porta ad un paese qua attorno; oppure mettermi in mezzo, nel buio più profondo, fuoriuscito da un bosco del margine, per gridare all’autista che adesso deve fermarsi, deve lasciare almeno un momento che il motore respiri, e che tutti quanti all’interno si chiedano l’un l’altro il motivo di quella frenata, di questa sosta imprevista. Allora mi farei aprire la porta, mostrerei a tutti dei modi decisi, e infine salirei a bordo conservando con me, nonostante ogni apparenza, tutta la calma possibile; poi però mi farei sotto con il guidatore per mostrargli il mio ferro già bene in vista. Che possiamo fare, direbbero tutti, cosa mai significa questa faccenda, ma io direi con parole gentili a quell’autista, ma anche agli altri, di ingranare di nuovo la marcia, perché adesso dobbiamo andarcene assieme, navigare verso un luogo invitante, magari un posto bellissimo, un luogo che già avevo in mente da un pezzo, che sognavo ogni notte da tantissimo tempo.
            Un viaggio imprevisto, certamente, una trasferta verso qualche luogo lontano e inaspettato, dove si possa tirare un respiro con calma, dove forse vivono degli abitanti cordiali, e le case e le strade sono pulite, perché una certa tolleranza è diffusa persino nei confronti di gente identica a me. Probabilmente lascerei i passeggeri e l'autista, col loro mezzo vetrato, proprio all’imbocco di questo paese così piacevole, ma saluterei tutti, naturalmente, sorridendo a ciascuno di loro, e poi me ne andrei rasserenato per conto mio, a familiarizzare con questo bel luogo. Non c’è niente di male, penso; ho fatto fare a tutti una bel giro, ho regalato loro un imprevisto piacevole, una leggera paura subito sciolta, visto che poi alla fine, per questi viaggiatori, è ripreso tutto quanto come è sempre stato. Vorrei forse trattenere dentro di me qualcosa di questi casuali compagni di viaggio, del loro sentirsi così normali, ordinari, pronti ad essere ogni volta i medesimi, i soliti monotoni personaggi di questa divertente minuta commedia.
            Uno di questi però lo chiamerei col suo nome: amico, potrei dirgli, và pure avanti ancora per la tua strada, e fai pure le tue cose da ora in avanti come se fossero un po’ anche le mie. Ti sento vicino, è evidente, perché viaggiare rimane sempre la cosa più bella del mondo, e forse anche la più solidale, anche nel caso ci si trovi a percorrere sempre gli stessi tragitti. Anche io voglio fermarmi, prima o dopo, gli direi ancora, perché anche io provo in fondo a me stesso questa necessità; ed ho bisogno di un posto che in questo momento non so neppure dove si trovi, ma il cui nome completo però è indubbiamente quello di casa.


Bruno Magnolfi

sabato 12 novembre 2016

Falso d'autore.

            

Ho sbagliato qualcosa, è evidente. Sono entrato dentro al negozio mentre già mi sentivo confuso, poi inspiegabilmente non c'era al momento proprio nessuno dietro a quel banco, e tra gli scaffali e le casse neanche un cliente. Così mi sono guardato attorno, ho atteso paziente che qualcuno giungesse, ed intanto ho messo la mano dentro la tasca, come per cercare quei due spiccioli che a volte riesco anche a spendere. Quando è arrivato il proprietario, un uomo di mezza età senza pretese, quasi per un automatismo avevo già steso il mio dito indice dentro la tasca, mettendolo per bene in vista anche, e proprio come fosse uno scherzo, ho detto con una voce ben camuffata, bassa e decisa: apri la cassa prima che ti procuri un foro in mezzo alla pancia. Lui mi ha guardato con gli occhi sbarrati, ha obbedito alla svelta, e sembrava tremare persino, come se tutta quella messinscena fosse una vera rapina, tanto che io stavo per mettermi a ridere e dirgli che era soltanto uno scherzo, ma lui mi ha messo davanti quel sacco di bigliettoni che mi hanno subito tolto ogni voglia di ridere.
Li ho presi, inutile giraci attorno, e sono uscito alla svelta da dentro quel tugurio da morti di fame, dimenticandomi persino di salutare quel tizio pauroso. Ho evitato da quel momento tutti i posti che conoscevo, sono andato a dormire in una baracca che era come una cuccia per cani, ed è trascorso in questo modo un tempo sicuramente sufficiente per farmi tirare un respiro di sollievo e tranquillizzarmi. In tutto questo periodo i soldi sono sempre stati con me, mi pare evidente, ed ho pure evitato di spendere anche uno soltanto di quei bei biglietti di banca.
Adesso, dopo tutte queste settimane, mi sento abbastanza tranquillo, giro per strada e chiedo un po' d'elemosina, come ho sempre fatto d'altronde, e soltanto qualche volta mi trovo di notte a graffiare una macchina, o a gettare in terra due o tre motorini parcheggiati per bene, giusto per mostrare il disprezzo che continuo a nutrire verso un po’tutti. È la mia maniera per sentirmi diverso, anche se alla fine, se ci penso per bene, non mi pare neanche di essere messo malissimo. Nessuno mi ha mai chiesto niente, almeno fino ad oggi, e dentro la fodera cucita della mia giacca, sento sempre con le mani la forma dei miei bigliettoni sparsi che dormono lì, nell'attesa di essere spesi.
Poi ieri sera mi viene la voglia di metterli tutti per bene, così apro la fodera mentre sono in un posto nascosto da solo, e faccio con calma dei mucchietti che metto insieme con degli elastici che mi sono procurato. Sistemo tutto quanto dentro una scatola, e lascio fuori soltanto tre o quattro banconote, pronte per essere spese. Così questa mattina, dopo aver sotterrato la scatola in un posto veramente sicuro, me ne vado un po’ in giro a testa alta e le mani affondate dentro le tasche, come fossi il più ricco di tutto il quartiere. Mi prendo ovviamente tutta la calma del mondo, cammino su e giù per un sacco di strade prima di mettere a fuoco il posto che più mi piace, e infine mi decido ad entrare in un bar ristorante, proprio per sedermi e farmi servire un pasto esattamente come si deve. Mi guardano subito male quei camerieri sospettosi, ma faccio vedere che in tasca c’ho i soldi, e quindi mi mettono davanti senza battere ciglio tutto quello che chiedo. Mangio ogni piatto con grande soddisfazione e alla fine loro mi portano il conto, senza che io mi sogni di fare neppure una smorfia; tiro fuori con grande scena i quattrini che servono, il tizio che sta lì ad aspettare lì prende, li guarda con calma, li saggia, e subito dopo mi dice, con severità: questi sono falsi, si vede benissimo.


Bruno Magnolfi

martedì 8 novembre 2016

Ipoteca imprevista.

      

            Sento il rumore delle macchine che transitano lungo il viale; muovo lentamente una mano, prendo il cartone ancora quasi pieno che sta qui vicino, e butto giù un sorso di vino, tanto per sentire più caldo e meno rumore. Generalmente non dormo su una panchina, non è neppure il mio stile, voglio dire. Soltanto, ho avuto qualche problema ultimamente, e così ho pensato che è meglio se mi tolgo dai piedi almeno per un po’. Ho fatto qualche scherzetto a qualcuno giù al dormitorio, dove vado sempre in queste giornate così umide; niente di serio, roba quasi tra amici, però qualcuno di loro adesso penso proprio voglia farmela pagare. Ma passerà, come tutte le cose, e tra poco tempo nessuno avrà più voglia neppure di ricordarsene di questa faccenda.
La cosa che mi preoccupa di più nel passare la notte da solo in questi giardinetti, è data da quegli sbandati che vanno sempre a rompere le scatole alla gente proprio come me. Io sto qui bello tranquillo con la mia coperta pesante, e quelli ti vengono attorno e sghignazzano anche, e se qualcuno di loro è ubriaco finisce pure che cercano persino di arrostirti. Ma io so difendermi, e dormo sempre con il coltello sfoderato qui accanto, pronto per qualsiasi evenienza. Certo, mi piacerebbe poter tornare bello tranquillo giù al dormitorio, e forse sarebbe anche meglio, ma adesso non è proprio aria, mi devo tenere distante, non c'è niente da fare. Avevo trovato una tizia tutta stranita che comunque ci stava, e perciò me la sono subito portata nel dormitorio; e poi, per permettermi di farle un regalo, il minimo che potessi fare per lei, ho dovuto ripulire nel buio qualche tasca rigonfia di qualcuno che stava là dentro. Tra persone normali si potrebbe anche comprendere un gesto del genere, penso, ma in questo ambiente spesso non c’è niente da fare, ognuno è attaccato alle proprie cose quasi come un polpo allo scoglio.
Così, eccomi qua. E mentre cerco di prendere sonno avverto rumori sospetti un po' dappertutto, così butto giù un'altra sorsata dal mio bel cartone, e poi mi giro su un fianco per provare a chiudere gli occhi. C'è un fanale in fondo al vialetto, ed illumina abbastanza bene tutto questo spiazzo dove mi sono sistemato; la luce dà un certo fastidio, ma stare nel buio credo sarebbe anche peggio. Poi arrivano questi tre o quattro stronzi: li sento mentre fingono di avvicinarsi alla chetichella, ma ridono e fanno più casino loro di venti bambini in un parco giochi. Mi preparo, tiro giù intanto una gamba e impugno con forza il coltello: al primo che mi viene più a tiro, gli faccio subito un bel graffio da qualche parte, così gli altri se la fanno subito sotto e mi tolgono velocemente il disturbo. Non ha fegato la gente come questa, basta fare la faccia cattiva e si impauriscono subito.
Girano attorno, mi guardano, io fingo ancora di stare nel mondo dei sogni. Poi uno mi viene vicino e dice piano: è lui; così capisco che non è esattamente come pensavo. Apro gli occhi, mi tiro su, la coperta nasconde il coltello, loro non dicono niente, ma mi sembra che le cose non si mettano bene per me. Cosa volete, dico tanto per dire, ma quelli neppure rispondono. Dobbiamo farti uno sfregio, dice uno con indifferenza, così imparerai come ci si deve comportare. Così lo guardo, quello mi viene più vicino, ha un coltello esagerato dentro una mano, e me lo punta proprio sugli occhi. Quando sta a tiro gli pianto il mio temperino dentro una coscia e mi scanso per evitare il suo colpo, lui casca per terra e si rotola per il dolore. Due degli altri scappano subito, uno invece resta e mi dice che volevano soltanto farmi paura, nient’altro. Portalo via, gli dico con voce gracchiante, perciò quello lo alza e l’aiuta a rimettersi in piedi ed a camminare. Mentre li guardo andarsene strascicandosi nella maniera che possono, penso però che prima o poi torneranno, e a quel punto sarà proprio dura per me. Dovrò nascondermi per chissà quanto tempo, rifletto, forse cambiare addirittura città. Non è andata bene, dico tra me, il mio futuro ormai è ipotecato.


Bruno Magnolfi

domenica 6 novembre 2016

Errori comuni.

            
            Forse ho sbagliato, dico io; ed il babbo: certo che hai sbagliato, su questo non c’è proprio alcun dubbio. Ed io: ma l’ho fatto in buona fede; va bene, fa lui, però potevi comunque prevederlo. Ed io: forse mi sono fidato troppo della situazione; ma questo ottimismo non è un errore. D’accordo, fa il babbo, però le conseguenze di adesso saranno tue e del tuo ottimismo. Però credo che tutti prima o poi cadano in tranelli del genere, dico io. Forse, fa lui; in ogni caso c’è una battuta d’arresto nel tuo percorso. Vedi, dice ancora il babbo: l’errore può anche essere previsto, ma le conseguenze non lo sono affatto, così adesso c’è soltanto da pensare bene a come rimediare.
            Tu mi aiuterai, penso, faccio io. Non credo, fa lui, altrimenti non imparerai niente, anzi io diventerei in quel caso semplicemente il tuo paracadute. Ed io, con apprensione: ma questo non è molto giusto; e lui: non parliamo adesso di cose giuste, altrimenti perdiamo la bussola. Così mi lasci solo, faccio io; può darsi, fa lui: ma te lo sei meritato. Secondo me, continua il babbo, dovresti provare ad essere almeno un pochino autocritico. Vuoi dire che generalmente sono altezzoso?, faccio io. Non dico questo, interrompe lui: però c’è bisogno di un pizzico di maggiore umiltà.
            L’auto si ferma, il babbo scende per primo e muove due passi sull’argine di quel canale che continua a scorrere placido. Dopo un momento lo seguo, chiudendo lo sportello dietro di me e inforcando gli occhiali da sole anche se la giornata è un po’ grigia. Non c’è niente di male, faccio io, se cerco un aiuto dagli altri. No, dice lui sorridendo; sempre ammesso che gli altri siano disposti davvero ad aiutarti. Ed io: perché c’è anche il caso di individui che potrebbero approfittarsi della mia debolezza, vuoi dire? Forse, fa lui; in ogni caso devi avere maggiore convinzione nelle tue scelte, non prendere quelle che ti suggeriscono gli altri.  
            Si cammina sull’argine erboso, a me pare una giornata perfetta per chiudere tutto alle spalle e ricominciare sin d’ora qualcosa di nuovo. Va bene, fo io, domani affronterò a testa bassa l’argomento, e cercherò di superare i miei errori. E lui: non credo sia sufficiente; c’è bisogno di testa e di tempo, non di strappi improvvisi di pancia. Ma allora c’è una tecnica anche nei rimedi, dico io. Certo, fa il babbo; e in ogni caso non può certo abbassarsi la tua autostima, se ti metti a studiare un percorso per il pieno recupero. Vorrei sapere adesso come andrà a finire tutta la storia, dico io abbassando la voce; perché mi pare che tutto quanto sia più compromesso di quello che mi sarei mai aspettato.
            Il babbo non dice niente, si accende una delle sue sigarette, osserva la foschia in fondo al canale, e assapora quei colori così tenui che paiono spengersi via via che ci si allontana da qui con lo sguardo. Faccio io: vorrei tanto non essere incappato in questa situazione. Lo so, dice lui: ma ciò non toglie che sia comunque un’opportunità quella che ti si sta presentando. Respiro l’aria umida e colma di mille profumi, poi dico: credi tu che le cose potranno risolversi bene? Certo, fa lui; molto dipende da te e da ciò che farai, ma averne parlato in questa giornata, è già un primo passo, quasi un impegno a dare una vera svolta alle cose. Ed io: ne sono convinto, anch’io mi sento già meglio, forse si stempra dentro di me quell’angoscia che continuavo a provare. Il canale continua a scorrere con tranquillità; l’erba degli argini trema, la foschia in mezzo agli alberi pare già diradarsi.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 novembre 2016

Serena sorte.

            

Mi piace piegare la testa in avanti, affondare il viso dentro le braccia, e restare seduto sopra un gradino, vicino al marciapiede di una strada qualsiasi, o magari su una panchina dei giardinetti, senza avere niente da fare, salvo scaldarmi nel sole, come uno di questi gatti randagi. Chiudo gli occhi, allento la tensione, ed un’immagine di quiete mi prende, come fosse un piccolo sonno ristoratore che magari riesce soltanto a durare lo spazio di un attimo, ma che indubbiamente incoraggia, e dà la spinta sufficiente per tirare avanti.
Poi mi alzo, riprendo a girare come sempre per questo quartiere, nella mia estenuante ricerca di quella serenità che purtroppo continua a sfuggirmi, e che purtroppo ritengo fondamentale per formulare qualche progetto che valga almeno per questa giornata. Mi fermo a guardare qualcosa, attratto come sono da ciò che almeno non riesco a spiegarmi nell'immediatezza, e mentre sto immobile con lo sguardo perso sopra qualcosa, una persona mi avvicina, sfiorandomi un braccio come per presentarsi, o farmi notare che si è accorta di me. La guardo in silenzio, questa signora dall'espressione elegante e con il vestiario di chi non ha problemi di soldi. Non penso niente di lei, non ho bisogno di fare congetture. Posso parlarle, mi chiede, ed io: certo, le faccio con calma, praticamente in questo momento non ho neppure niente da fare.
Mi indica un caffè lì vicino, così entriamo senza parlare e ci accomodiamo ad un tavolo libero. Vorrei aiutarla, mi dice, e nient’altro. Naturalmente osservo meglio la donna, ma non mi vengono idee in mente, neppure riguardo la richiesta che ha fatto. Le dico che mi reputo soltanto un qualsiasi vagabondo, uno che si è ritrovato ad essere così da un giorno a quell’altro, ma lei mi interrompe: non voglio sapere la sua storia, comprendo bene che la sua non è assolutamente una scelta, ma io vorrei soltanto darle una mano, nient’altro.
Respiro, il cameriere ci serve i caffè, io mi preoccupo della mia tazzina, e intanto penso che in fondo non saprei cosa chiedere a questa signora, se non qualche spicciolo come in fondo chiedo spesso anche ad altri. Però il mio orgoglio mi fa pensare semplicemente che non ho bisogno di niente, così alzo le spalle, perché la mia vita va avanti, oscillando tra gli orari in cui mi reco alla mensa, e le nottate da trascorrere possibilmente in un posto al coperto. Improvvisamente lei sembra di fretta, apre il borsello e mi mette in una mano un po’ dei suoi soldi, poi, senza aspettare risposta, paga velocemente il cameriere, e alla fine mi saluta dicendomi buona fortuna, nient’altro.
Attendo ancora un momento, poi mi alzo per uscire da quel locale, e di colpo, quando sono ormai sulla porta, mi sento come una persona diversa, uno che adesso ha quasi meno energia, e gli resta soltanto la voglia di sprofondarsi nelle sue cose, con estrema indifferenza verso tutto ciò che gli resta attorno. Riprendo il mio vagare, mi fermo, vado ancora avanti, alla fine mi siedo sopra il gradino di un palazzo lì accanto.
Immagino la donna di prima che mette in mano dei soldi a chiunque incontri per strada, come per liberarsi di qualcosa che porta con sé. Ma alla fine rifletto meglio, ed arrivo a pensare come ci siano ancora delle persone in fondo meravigliose, che mostrano il senso primario della loro esistenza. Vorrei alzarmi da qui, andarmene solo da qualche parte, ma non posso proprio adesso mostrarmi egoista: dividerò, questi soldi che ho avuto, con il primo accattone che incontro, lo giuro a me stesso, e poi starò meglio; la serenità scenderà poco a poco dentro di me, almeno per oggi.


Bruno Magnolfi

giovedì 27 ottobre 2016

Liturgia decadente.

            

            Ancora bello quest’angolo; sopra al marciapiede, poco lontano dalla galleria d’arte, è sempre stato secondo il mio parere il luogo migliore. A me ci vuol poco per mettermi in postazione: apro le borse e metto giù i coperchi, i lamierini di metallo, i secchi di plastica, i barattoli di latta, senza dimenticare le fruste di bambù di ricambio, che devono stare sempre accanto al mio seggiolino, e poi via, che inizia immediatamente questo spettacolo di ritmo, dieci minuti sparati di percussioni a velocità stratosferica, senza mai tirare su neanche la testa, manco per vedere se qualcuno casomai stia mettendo dentro al cappello i suoi spiccioli.
            Ci sono stati giorni fantastici, certe volte, esattamente in questa postazione: anche cinquanta persone tutte assieme con gli occhi incollati sopra ai miei polsi, ad entusiasmarsi per questo ritmo vertiginoso e coinvolgente. Ci davo dentro in quei giorni, mi pareva che tutto il mondo intorno a me, almeno per quei dieci minuti, prendesse la velocità stessa delle mie bacchette, e tutto il resto invece fermo, dietro alle solite cose, alla monotonia che ammazza persino le idee. Mi sono messo in tasca dei bei soldi, in certe serate di quel periodo, proprio in questo angolo d’oro, ma soprattutto so di avere regalato a tutti i passanti un’emozione quasi da urlo.
            Adesso mi guardo attorno, con calma, stendo ancora le mie cose con grande professionalità, come sempre, e so perfettamente cosa stanno pensando le persone che in questo momento mi guardano, senza rallentare minimamente il loro passo. Non devo pensarci, continuo a ripetermi, devo solo sentire il tempo, il ritmo dentro di me che continua ad incalzare, che bussa, e fa di tutto per uscire con naturalezza dalle mie mani. Poi inizio, molti rallentano, altri si fermano, non è più esattamente come una volta, ma in ogni caso riesco sempre a fare la mia bella figura. Non so che cosa sia successo, forse non c’è più nell’aria la novità di una volta, forse tutti quanti si sono ormai abituati; io ho cercato anche di variare i miei oggetti sparsi per terra, ma non è servito a molto.
            Così adesso mi pare di ripetere una liturgia mandata ormai a memoria, che non ha quasi più senso, sicuramente non per chi è ancora qui ad ascoltarla, ma sinceramente neanche per me. Eppure non riesco a schiodarmi da questo proseguire imperterrito, mi pare che si dovrebbe almeno comprendere  tutto il tempo e lo sforzo che ho impiegato per mettere assieme questa piccola cosa. Già, perché è una piccola cosa, ne sono cosciente; però, come hanno detto in tanti che mi hanno ascoltato qualche volta, anche dimostrazione chiara di un certo, inequivocabile talento.
            Non voglio pensare di avere diritto a qualcosa di più di quanto ho già ricevuto, però sono sicuro che qualcuno si sarebbe potuto interessare un po' più di me, delle mie capacità, e magari offrirmi una buona occasione per togliermi da questi anonimi marciapiedi. Ma adesso, quando la gente mi ascolta, sembra quasi che tutto riproponga un semplice gioco, un trastullo che forse potrebbe fare chiunque, sarebbe sufficiente, come pensano in molti, mettere insieme un certo esercizio, un minimo di fantasia, e anche qualche buona idea generale.
            Per me invece non è proprio così; e non è stato così fin da quando ho iniziato. Sfido chiunque a combinare qualcosa come questo mio ritmo tenuto sopra gli oggetti presi direttamente dai cassonetti della spazzatura; c’è anche poesia in queste mie mani, ed è assommata alla nevrosi dell’oggi, al ritmo frenetico con cui tutte le cose ci passano vicino. Ma ormai sento dentro me stesso di aver perso l’entusiasmo di quei primi tempi lontani, così dovrò per forza smettere un giorno di questi, anche per onestà verso tutti. Chissà mai se qualcuno, magari fra qualche tempo, avrà voglia di ricordare davvero fino dove, almeno qualche volta, ero quasi riuscito a innalzarmi.


            Bruno Magnolfi 

giovedì 20 ottobre 2016

Intuito latente.



Spesso cammino per la strada senza neanche avere in mente una meta precisa, e certe volte, neppure immaginando come sia minimamente possibile, riesco ad intuire quasi perfettamente cosa accadrà di lì a poco. Giro ad un angolo, e ancora prima di farlo vedo davanti a me la faccia e l'espressione di chi mi sta per venire incontro; oppure riesco a sapere nel dettaglio come sia allestita la vetrina di un negozio davanti alla quale non sono ancora arrivato; altrimenti sono capace di vedere ed indicare con esattezza quali automobili siano parcheggiate lungo una via che devo ancora percorrere. In certe occasioni, ad evitare imbarazzanti fissazioni su queste piccole e automatiche attività del mio cervello, tento di assumere un certo disinteresse per queste mie doti così descritte, fingendo perciò una naturalezza che purtroppo in genere non ho quasi mai avuto nella mia vita, sforzandomi comunque di allontanare da me qualsiasi pensiero divergente dalla pura normalità.
Poi mi fermo sul marciapiede, mi guardo attorno senza troppo interesse da quanto sono qui circondato, ed infine con decisione vado a spalancare con la mano un portoncino proprio accanto alla mia posizione, rimasto inspiegabilmente socchiuso. Non so bene che cosa mi spinga a far questo, però una forza superiore sembra attirarmi all’interno e poi su per le scale, fino a farmi giungere sul pianerottolo di quell’ordinario piano secondo, dove un uomo mi apre il suo appartamento come se già fosse in mia attesa. Entro, dopo aver scambiato con lui un piccolo gesto di ordinario saluto, e intanto elaboro involontariamente dentro di me alcuni pensieri di annunciazione, immagini nitide zeppe di innumerevoli fogli bianchi, di carta preziosa e immacolata ordinata in tanti quaderni rilegati e messi insieme con le presse e con i telai con cui vengono lavorati proprio là dentro. L'uomo, senza neppure parlare, mi porta subito in una stanza composta da parecchi scaffali ordinati, con sopra i quaderni già pronti, ben allineati ed in vista, ed io, di fronte all’offerta, ne scelgo uno tra quelli più piccoli e semplici, lo ringrazio per quanto mi sta mettendo a disposizione, ed infine con un sorriso mi siedo ad un tavolino, prendendo una matita per scrivere, come dovessi appuntare qualcosa. La prima pagina completamente bianca sembra volermi far desistere da qualsiasi volontà, ma se osservo meglio la carta, vedo subito come davanti a me quel foglio sia già pieno di molte parole, le stesse che obbligatoriamente dovrò scrivere io, una serie di frasi che adesso posso soltanto copiare, diligentemente.
Infine mi alzo, saluto il buon uomo, esco da quel laboratorio e torno sulla mia strada, col quaderno che mi è stato donato, ben saldo sotto al mio braccio. Qualcuno di lì a poco tenterà di sottrarmelo, ne vedo chiaramente l’azione, ma io non so se potrò mai evitare quel furto, oppure se devo lasciare che tutto si concluda, come un destino assolutamente previsto ed inarrestabile. Mi fermo, apro il quaderno, e nelle ultime righe dell’unica pagina scritta, si dice che tutto deve ancora compiersi, anche ciò che apparirà negativo. Così mi fermo, aspetto di essere raggiunto dal ladro, ed intanto, quasi sovrappensiero, mi siedo con semplicità al bordo del marciapiede. Una persona mi passa accanto senza neppure notarmi, io non mi muovo, lui non mi vede, così tira dritto, ed io dopo un momento, mi alzo e me ne vado da lì, velocemente, quasi correndo. Quando poco dopo ritrovo la calma, mi siedo ad un tavolino di un caffè senza pretese, apro il quaderno e scopro che la pagina dove avevo scritto qualcosa non c’è, tutto è sparito, le mie parole si sono volatilizzate, ed il quaderno è tornato ad essere completamente immacolato.
Così torno indietro, ritrovo il portoncino di prima che adesso è ben chiuso, e proprio mentre sto lì vicino, riapro il quaderno, scoprendo che sono tornate ad esserci scritte delle parole addirittura diverse da prima, che dicono delle cose di tutt’altro tipo, come fosse un oggetto del tutto magico e autonomo. Si spiega là sopra come in questo momento sia auspicabile per me evitare gli incroci, ma io indifferente riprendo il mio solito camminare senza una direzione precisa, e quando infine vorrei attraversare la strada, all’improvviso mi fermo: ho un’intuizione, secondo la quale è meglio se evito quell’azione precisa, perché sento dentro di me il rischio evidente di ritrovarmi sotto alle ruote di un’automobile rossa, il cui autista è sicuramente distratto in questo momento.


Bruno Magnolfi   

martedì 11 ottobre 2016

Meno del necessario.

        
            Lo confesso: generalmente vorrei sentirmi maggiormente soddisfatta di me, e quando ci rifletto proprio sul serio lo vorrei essere almeno nei confronti di quel poco che sono riuscita con fatica a mettere insieme fino adesso. Invece quasi sempre mi devo limitare a campare alla giornata, senza grandi speranze o desideri che superino un lasso di tempo più ampio del semplice immediato, rallegrandomi soltanto di quelle piccole azioni quotidiane che appaiono positive forse solo a me, anche se penso che prima o poi anche qualcun altro in fondo se ne potrebbe accorgere, per poi in qualche modo compiacersene. Comunque non mi sento particolarmente delusa di qualcosa di preciso, di questo ne ho certezza, e quindi non riesco a prendermela con qualche aspetto negativo preciso, o con qualche piccolo errore ormai riconosciuto; e in ogni caso spesso mi ritrovo ad essere soltanto vagamente amareggiata da quasi tutto ciò che mi circonda.
Quando esco di casa, come spesso mi capita, per andare a curiosare in qualche negozio della zona, generalmente mi chiedo magari quali siano quei criteri per cui dovrei acquistare certi prodotti tanto pubblicizzati, che invece non mi attirano assolutamente; oppure che cosa si trovi mai di interessante in quegli articoli che con ogni evidenza sembrano fatti apposta solo per far intascare qualche soldo in più a certi commercianti sempre sorridenti, finti e inaccettabili persino come individui; e così tengo spesso un profilo severo e distaccato, fino a mettere in campo ogni tanto qualche osservazione sottovoce magari un po’ troppo sarcastica, lo riconosco, specialmente in certi casi. In tutto questo non mi interessa neanche troppo ciò che gli altri riescono a pensare dei miei comportamenti, in quanto mi è sufficiente non diventare mai, in nessun caso, lo zimbello di qualcuno, o cadere preda di qualche finta campagna promozionale di una marca poco seria.
La mia amica ogni tanto mi accompagna nei miei giri: sostiene che a volte effettivamente io riesca ad apparire un pochino troppo acida, quasi una persona che normalmente se la prende un po’ con tutti, forse magari per sfogare qualche delusione del passato, oppure per nascondere i pensieri espliciti che secondo lei non riesco mai a tirare fuori fino in fondo, anche se io so che molto probabilmente neppure la mia amica pensa davvero quanto cerca di sostenere, tentando solamente in questo modo di darmi degli stimoli che mi tornino d’aiuto.
Poi ci mettiamo sedute davanti ad una tazza di tisana fumante, e lei mi dice: sciogliti, qualche volta, non stare così ritirata dentro al tuo guscio, ed io sorrido, perché è proprio ascoltando queste cose che riesco ad essere ancora più riservata del mio solito. Poi usciamo, ma quando ci diciamo le ultime cose prima di salutarci mi capita spesso che vorrei quasi mettermi a piangere, proprio come una bambina, se solo mi lasciassi davvero andare. Mi sento sola, in certi casi, proprio d’improvviso: questa è la pressante verità, ed è forse tutto ciò che più mi pesa. Poi però riesco a riflettere che i miei percorsi partono sempre e soltanto da me stessa per snodarsi e infine ritornare indietro, da dove sono partiti, e che il mio piangermi addosso non è assolutamente un bel segnale. Così torno a chiudermi, per poi tornare ad osservare le vetrine, giusto per rendermi conto che non comprerei mai niente di tutto ciò che vedo: è tutto assurdo, penso, ed i rapporti con le persone la maggior parte delle volte sono falsi, privi di qualsiasi umanità; tanto vale farne a meno.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 settembre 2016

Ritorno deciso.

           
            Qualche volta nella mia testa scende improvvisamente il silenzio. Non è che lo cerchi, che tenti di isolarmi dagli altri, come in fondo potrebbe anche capitare, per poi starmene soltanto per conto mio. No, non è affatto così, perché anche senza neppure pensarci, mentre certe volte me ne sto semplicemente fermo, immobile ad osservare qualcosa, lungo il corridoio magari, proprio in mezzo a tutti, ecco che d’improvviso, senza che minimamente io lo desideri, di colpo mi ritrovo sprofondato in una specie di vuoto pneumatico, un silenzio assolutamente completo, superiore e diverso a qualsiasi altra sensazione si possa mai immaginare.
            C’è anche da dire che ci sono dei giorni in cui il nostro direttore viene a farci una visita. Entra nel reparto, gira avanti e indietro per i corridoi, poi si affaccia nelle stanze; lui naturalmente è sempre accompagnato dai suoi collaboratori, e così insieme a loro visiona tutto per bene, proprio per avere un ragguaglio completo di come stiano andando avanti le cose qua dentro. E’ tutto comprensibile, svolge soltanto il suo mestiere, niente di meno.
            E stavolta però mi trova qui, immerso nel mio stato, lontano da tutto e da tutti. Si ferma, mi guarda, forse mi chiede anche qualcosa, ma io ormai sono immerso completamente in questa mia condizione così indescrivibile, e quindi lo ignoro, non gli rivolgo neppure uno sguardo. Se chiudo gli occhi poi, sono in una grande grotta da solo, o nell’aperta campagna di una notte stellata, e lui non può fare niente per me, come forse neppure io per le sue preoccupazioni. Ad occhi chiusi è bellissimo, rifletto con profonda indifferenza, ed anche se forse il direttore sta ancora cercando di capire qualcosa di me, del mio comportamento, io sono altrove, in volo, verso chissà quale meta.
            Passano i minuti, qualcuno mi stringe ad un braccio, mi scuotono leggermente, ed a me viene quasi da ridere: non c’è niente da fare, penso, se voglio posso stare così chissà quanto tempo, e disinteressarmi di tutto, come se il distacco effettivo tra me e questo luogo fosse ormai avvenuto da molto, e dei miei desideri non ci fosse più alcuna traccia.
            Torno a riaprire gli occhi, ed anche i rumori assieme alle immagini ritornano, dapprima ovattati, poi sempre più forti, entranti ed anche un po’ fastidiosi. Il direttore credo sia rimasto per tutto il tempo proprio qui, davanti a me, con l’espressione di uno che si preoccupa di qualsiasi piccolezza, a cui stanno a cuore davvero le responsabilità che si prende. Lo guardo adesso, gli faccio cenno di si con la testa, e lui si raddrizza, vuole ancora chiedermi cosa mai sia successo, ma io resto in silenzio, fermo, con la faccia di uno che non potrà mai dirgli niente, perché non c’è proprio niente da dire, nulla di cui preoccuparsi davvero.
            Mi accompagnano nell’ambulatorio al fondo del corridoio, mi fanno sedere, il direttore vuole conoscere tutto di me, capire cosa mai stia succedendomi. Si aprono i faldoni, si leggono gli incartamenti che riguardano la mia situazione, si prendono appunti a margine di tutto ciò che in qualche modo può riguardarmi. Poi mi vengono rivolte delle domande. Sorrido; non è niente, dico pacatamente al direttore. Soltanto ci sono delle volte che non sono qui, che vado via, mi prendo una pausa, come un po' tutti d’altronde. Non c’è niente di male, signor direttore, gli dico: tanto riesco sempre a tornare, proprio qui, in questo posto; prima o dopo.


            Bruno Magnolfi    

giovedì 22 settembre 2016

Sfida irrisolta 2.

            

Sono fritto, dico a me stesso ancora prima di uscire fuori dal locale. Questo tizio che ho appena incontrato è uno di quelli con cui non si può assolutamente dialogare in modo ordinario, e come minimo vorrà venire alle mani appena gli dirò che non voglio avere niente a che fare con lui. Non lo conosco neanche; non riesco neppure a capire come sia possibile che in un attimo siamo potuti giungere fino a questo punto: forse, oltre al fatto che questo sia uno alla ricerca perenne di guai, davvero tutto è accaduto soltanto per avergli risposto in maniera appena un po' troppo sgarbata, quando mi ha chiesto di farlo passare in mezzo alla gente che affolla come sempre questo locale, ma le mie parole in quel momento volevano essere soltanto qualcosa di spiritoso, quasi mostrare la parodia di qualcuno davvero arrogante e pieno di sé, a cui è ovvio io non mi sono mai minimamente sognato di assomigliare.
Ed adesso siamo qua fuori, come per un duello degno dei pistoleri americani d’altri tempi, a dirsi ancora le ultime cose tra i denti, ed a farci di nuovo il viso truce, proprio appena un attimo prima che la violenza selvaggia prenda il sopravvento sul resto. Ho una mano affondata dentro una tasca, mentre lui sembra quasi mormorare tra sé ancora delle offese al mio indirizzo, ed avverto con la punta delle dita qualcosa che non ricordavo neppure di avere con me: un ciondolo, un oggetto semplice, senza valore, un piccolo monile senza alcuna importanza che mi ha dato qualcuno di cui non ricordo, ma che adesso sembra quasi voglia aiutarmi. Così, senza troppo pensarci, lascio cadere per terra la cosa, vicino ai miei piedi, senza che lui se ne accorga, e mi comporto come se la vedessi per la prima volta, e fosse già lì da chissà quanto tempo, abbassando lo sguardo e mimando anche una certa sorpresa; poi mi chino, la prendo, ed osservo a lungo e con curiosità quanto mi ritrovo improvvisamente tra le mie mani, quasi non avessi neppure mai visto qualcosa del genere.
Lui ci casca proprio come avevo previsto, e se in un primo momento si è irrigidito ancora di più per la mia presunta fortuna nel trovare per caso un oggetto del genere, in un secondo tempo immagina che forse le mie capacità siano commisurate alla mia buona sorte, e che io sia assolutamente diverso da come mi ha immaginato agli inizi, tanto che una volta raccolto quel gioiello da terra, quasi mi dispiace di averlo praticamente preso in giro in questa maniera.
Difatti, dopo essermi allontanato appena di qualche passo, controllando il suo comportamento con uno sguardo trasversale, e lasciandolo alle mie spalle ancora incredulo, dopo poco torno indietro, e forse vorrei addirittura regalare a lui questo gingillo senza valore, ma siccome ho paura che si senta troppo preso per i fondelli, mi invento che ci sono incise delle iniziali, e che quindi il proprietario va indubbiamente cercato, perché è giusto adesso che ne rientri in possesso. Lui non guarda neanche il monile, però si sente d'accordo, sta assolutamente dalla mia parte, e in questo modo mi fa tirare un sospiro di assoluto sollievo: se anche ci rincontrassimo nei giorni seguenti, mi immagino con ogni probabilità, non ci sarebbe più tra noi l’astio assurdo che si avvertiva agli inizi. Così torno ad appoggiare per terra l'oggetto, senza neanche preoccuparmene troppo, anche se all'improvviso mi viene il sospetto che sia proprio d'oro: un vecchio pendaglio di chissà chi, finito per caso in una mia tasca, e che comunque abbia forse un qualche valore. Ma adesso tutto questo in fondo non ha alcuna importanza, rifletto: sono pur disposto a rinunciare a qualcosa, anche a sbarazzarmi di quanto possiedo. Queste giornate sono costituite da nient’altro che una semplice serie di scelte, penso subito dopo con calma; il resto poi, è soltanto una combinazione di cose.


Bruno Magnolfi

Sfida irrisolta.



Amico, adesso sei fritto, gli dico mentre tengo una mano dentro la tasca e con l'altra lo indico con decisione, come per evitare fraintendimenti. Lui si piazza di fianco, gli occhi bassi, come ad evitare di guardarmi, forse per la paura che di certo gli sto facendo, anche se poi alza la testa e dice: non preoccuparti per me, me ne stavo giusto per andare. Va bene, gli faccio, in fondo è semplicemente quello che volevo. Forse non hai capito, dice subito lui; vado via soltanto perché mi va così, non certo per rispondere ai tuoi desideri. D'accordo, fo io sorridendo, però il risultato non mi sembra molto diverso. Segue una pausa in cui lui si interessa di qualcosa che sembra luccicare sul marciapiede davanti al locale. Oggi peraltro è anche il mio giorno fortunato, mi fa: ecco qua un ciondolo di metallo prezioso che chiede soltanto di essere preso da me. Io lo osservo con un certo sospetto mentre lui si china per raccogliere quella cosa, e mi pare subito come una nota stonata quel colpo davvero così fortunato. Perciò gli dico con determinazione che deve lasciare il ciondolo dove si trova, ma lui lo rigira per un attimo nelle mani grassocce, e poi lo va ad infilare nella sua tasca. Perché, mi fa, hai qualcosa in contrario? Vorrei tirar fuori in un attimo tutto ciò  che in questo momento mi si agita dentro, ma non riesco a trovare alcuna parola che possa descrivere il mio stato d’animo, tantomeno posso acciuffare degli argomenti in grado di farlo minimamente desistere dal suo comportamento, così non mi resta che rimanere in silenzio, immobile, con lo sguardo ancora arrabbiato, come se fosse sufficiente a spiegargli almeno cosa penso di lui.
Poi se ne va veramente, senza alcun altro cenno, lasciandomi lì a sbollire da solo la mia agitazione. Rientro dentro al caffè, mi avvicino al bancone, chiedo al cameriere se per caso qualcuno abbia cercato di un ciondolo, di un amuleto, forse anche di un semplice portafortuna, ma quello fa solo cenno di no, senza chiedermi nessuna spiegazione. Mi siedo con la mia birra davanti, e cerco di pensare qualcosa che serva a svagarmi, ma dopo un attimo ecco che torna il tizio di prima. Fa finta di non avermi neppure notato, ma poi con tutta la calma del mondo si accosta al mio tavolo, e dopo un attimo di ulteriore tentennamento mi dice che dentro a questo ciondolo che adesso tiene nella sua mano, c'è un nome inciso, e che lui vorrebbe proprio restituirlo al legittimo proprietario.
Gli dico che per me va benissimo, non ci sono problemi, ed anzi, è esattamente quello che ho cercato di dirgli fin dall'inizio, ma il problema di adesso è che nessuno lo ha reclamato. Lui girella su se stesso senza trovare alcuna soluzione, io tento di ignorarlo, visto che in questo momento il problema è suo e di nessun altro. Poi fa qualche passo verso l’uscita, lo seguo con uno sguardo il più possibile obliquo, e infine, quando è già sulla porta, mi alzo dal tavolo e vado verso di lui. Sta fuori, sul marciapiede, io lo fisso attraverso la vetrata, e non sa decidersi a fare proprio un bel niente. Vorrei forse indicargliela io una soluzione, ma in fondo rifletto che non sono di certo affari che mi riguardano, e che in questo stallo lui c’è andato ad infilarsi da solo. Alla fine si abbassa, riappoggia quel ninnolo esattamente dove lo ha trovato, e con una certa lentezza decide di andarsene. Ha fatto la cosa migliore, penso restando dove mi trovo; anche se forse sarei disposto fin d’ora a dirgli con sincerità che ha invece sbagliato su tutta la linea.


Bruno Magnolfi