mercoledì 30 novembre 2016

Nicchia segreta.

            

            Spesso vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
            Sulla mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle: posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma, e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta, mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
            In certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene, questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata lavorativa.
            Stamani, come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.


            Bruno Magnolfi

venerdì 25 novembre 2016

Nessuna illusione.

          
            Sono vuoto, nonostante in apparenza tenti sempre di mostrarmi come una persona curiosa di qualunque situazione si presenti. In fondo non mi interessa proprio nulla di quanto viene spiegato da tutti continuamente; fingo regolarmente di apprezzare le novità, di starmene abbastanza aggiornato, ascoltando ogni individuo che mi parla con espressione attenta, ma in realtà vorrei soltanto sbadigliare e coricarmi sul divano di casa per non pensare più a niente. Qualcuno potrebbe appellarmi come egoista indifferente a tutto, ma dentro di me non c’è nessuna volontà precisa di tipo negativo, non provo rancore per niente e per nessuno, perché non ci sono reali scelte che abbia davvero fatto prima o dopo. Non ho passioni, tutto qua, vado avanti senza mettere impegno nelle mie azioni, scelgo sempre la via senz’altro più comoda anche per raggiungere qualche semplice obiettivo. E poi non cerco neanche le cose migliori per le mie esigenze, mi lascio galleggiare nella normalità, spesso senza muovere neppure un muscolo.
            Esco certe volte con un amico, e lui in certi casi riesce a trascinarmi persino in qualche locale, probabilmente proprio per avere il tempo di raccontarmi le sue giornate, i suoi interessi, la sua volontà. Io rido, lo ascolto, mi lascio guidare da lui nei luoghi e in mezzo ai suoi discorsi, poi quando torniamo lo ringrazio e rientro in casa esausto, riprendendo subito i miei comportamenti abituali. A che serve tutto questo, mi chiedo a volte. Forse dovrei starmene sempre nel mio appartamento, alla ricerca perenne della posizione più comoda magari per ascoltare semplicemente a basso volume qualche canzonetta che trasmette questa radio alla quale lascio riempire il silenzio. Lui invece mi telefona, dice: si potrebbe andare al cinema, o in una birreria che conosco, piena di ragazze carine. Va bene, come vuoi, gli dico. Ti aspetto qui, puoi passare a prendermi.
            Poi, in un posto dove mi sono lasciato portare, incontro questa ragazza silenziosa. Mi guarda per un attimo, e lascia con naturalezza che io le offra da bere. Le chiedo qualcosa, lei risponde, ma in seguito non mi guarda neanche più: dice soltanto le brevi frasi che servono al dialogo e poi basta. Mi rendo conto che se non proseguo a farle delle domande non riusciamo più neanche a parlare, così mi volto, guardo avanti a me, e tanto per riempire il vuoto, inizio a dirle che non ho interessi, e che di questo forse provo dispiacere. Mi sento privo di voglie, le spiego, mi sembra tutto quanto così difficile che preferisco non lottare, pur di evitare delle sconfitte impegnative. Non posso essere un esempio per nessuno, ne sono consapevole, però tutto questo è assolutamente il frutto della mia natura, che forse in certi casi mi fa anche vergognare, questo è vero, ma devo assecondarla, e così mi limito a nasconderla non parlandone mai con anima viva, e fingendo con tutti di essere come uno qualsiasi, impersonando quasi sempre ciò che gli altri desiderano vedere nella mia persona.
            Lei allora si volta, mi guarda, non sembra particolarmente impressionata dalle mie parole, però avverto che qualche cosa si è mosso dentro di lei. Beve un sorso, poi dice di andarcene da lì, che non abbiamo niente da fare in questo postaccio. Si parla, ma lei non dice quasi niente di sé, solo che è stufa di tutto, perché qualsiasi cosa abbia tentato, non è mai riuscita a farla diventare qualcosa di importante per il suo futuro. Ascolto: le dico riassumendo che siamo ambedue amareggiati da qualcosa, e ne sorrido, così facciamo un giro e poi senza enfasi alla fine ci salutiamo, che tanto appare evidente che non ci può essere un futuro per due come noi: è bene prenderne subito atto, penso, senza farci alcuna illusione.


Bruno Magnolfi

lunedì 21 novembre 2016

Potere inconsulto.

          
            Si, sto bene, dico subito a qualcuno che mi ha visto cadere così in malo modo. Mi aiutano, mi tirano su, io bofonchio qualcosa e poi mi riaggiusto la giubba sopra le spalle, dolorante ma quasi pronto persino ad affrontare qualche altro gradino scivoloso. Lentamente ma con orgoglio mi riavvio, e dopo un altro piccolo tratto di strada, entro senza indugi nel palazzo degli uffici dove mi dovevo recare stamani. Forse qualcuno tra quelli presenti alla mia caduta mi ha seguito fin qui, penso; forse vorranno chiedermi ancora se tutto vada bene davvero. Con determinazione, dal grande ingresso pieno di gente, vado risoluto a girare la maniglia di una porta qualsiasi, lungo il primo corridoio che incontro, ed entro dentro, come sapessi già perfettamente dove recarmi, ed in modo da eludere qualsiasi tentativo di coloro che sicuramente insistono ad inseguirmi.
            Una donna dietro la sua scrivania alza gli occhi dalle carte che ha di fronte, e mi chiede subito gentilmente che cosa desideri. Le faccio presente con accuratezza la mia situazione attuale, le relaziono i dettagli della mia caduta, le spiego la posizione assunta da alcuni curiosi, e tutto il resto che mentre parlo mi torna pronto alla mente, non dimenticandomi naturalmente di mostrarle un certo gonfiore sopra un ginocchio, risultato evidente della gran botta, ma lei sorride, come stessi dicendo quasi qualcosa di divertente. La guardo con una certa sorpresa, l’impiegata subito mi dice che proprio non può essermi utile, e che adesso per farle un favore dovrei proprio uscire da quell’ufficio. Assecondo perplesso la sua richiesta, ma quando apro la porta mi accorgo, anche se non riesco a riconoscere quegli individui tra gli altri, che c’è qualcuno che mi sta aspettando, come se in certi ambienti si volesse ancora sapere i dettagli del mio stato, e magari anche d’altro.
            Spiego alla donna che non posso uscire dalla sua stanza, devo obbligatoriamente restare confinato là dentro, e già che ci siamo le chiedo se può anche aiutarmi con le pratiche che devo mettere a posto. L’impiegata si alza dalla sua scrivania, mi si accosta con un’espressione incerta, osserva i miei incartamenti e infine, spingendomi leggermente ma quasi restando dietro di me, apre la porta e si guarda subito attorno, lungo quel corridoio che sto cercando di evitare. Venga con me, mi dice, l’accompagno io allo sportello dove potrà risolvere questi suoi problemi: se sta al mio fianco, nessuno le potrà dire niente. La seguo, mi fido, anche se a dire la verità avrei preferito restare almeno qualche altro minuto nella sua stanza, seduto da una parte magari, senza preoccupazioni, in un luogo così sicuro come sembra quello, assolutamente protetto.
Lei cammina veloce, io arranco cercando di starle attaccato. Lei infine si ferma, parla con qualcuno, indica qualcosa da una parte e dall'altra, lasciandomi infine comprendere, senza volerlo, che mi sta consegnando direttamente ai miei inseguitori. Perciò mi volto, noto quattro o cinque persone che vengono verso di me, mi sposto rapido da una parte, mi piego ad evitare di essere riconosciuto, ma il mio ginocchio non tiene, provo una fitta di dolore e così vado a terra. La donna ride con un’espressione da dura, mi indica come un individuo di cui farne oggetto di scherno, io sono confuso, vorrei fuggire in fretta da lì, ma lo ritengo impossibile, così resto immobile ad aspettare gli eventi. Qualcuno mi fa un’iniezione, mi portano via con una barella, mi ritrovo disteso nel letto ordinario di un vecchio ospedale, senza neppure sapere perché.

Bruno Magnolfi 


giovedì 17 novembre 2016

Casa mia.

            

            Senza mai preoccuparmi di niente, giro a caso per strada, quasi sempre nei dintorni della stazione degli autobus. Mi piace la gente in partenza, poi qua ci sono le pensiline, le vetture, i larghi marciapiedi disseminati di comode panche, ed io, adesso che è buio, immagino come per tutto il pomeriggio decine di persone siano transitate da queste parti, magari tutti di fretta, orologio alla mano, cercando la propria corriera con il biglietto bene in vista o dentro una tasca. Qualcuno magari ha perso per un soffio la sua coincidenza, altri si sono dimenticati qualcosa, l’intero bagaglio forse, appoggiato per un attimo a terra, mentre la testa era persa dietro altre cose. Ormai è tardi, a quest’ora poche macchine passano ancora da qui, e solo quelle a lunga percorrenza; si fermano con tutte le luci sguainate davanti, sotto questa tettoia, giusto per qualche minuto, e i passeggeri naturalmente sorridono, rassicurati da quella presenza, poi salgono su, parlano tra loro, occupano subito il posto migliore, infine si mettono comodi e rimangono fermi, tranquilli.
            Vorrei tagliare la strada ad una di queste corriere, farle scoppiare una gomma proprio mentre sta arrancando sulla salita che porta ad un paese qua attorno; oppure mettermi in mezzo, nel buio più profondo, fuoriuscito da un bosco del margine, per gridare all’autista che adesso deve fermarsi, deve lasciare almeno un momento che il motore respiri, e che tutti quanti all’interno si chiedano l’un l’altro il motivo di quella frenata, di questa sosta imprevista. Allora mi farei aprire la porta, mostrerei a tutti dei modi decisi, e infine salirei a bordo conservando con me, nonostante ogni apparenza, tutta la calma possibile; poi però mi farei sotto con il guidatore per mostrargli il mio ferro già bene in vista. Che possiamo fare, direbbero tutti, cosa mai significa questa faccenda, ma io direi con parole gentili a quell’autista, ma anche agli altri, di ingranare di nuovo la marcia, perché adesso dobbiamo andarcene assieme, navigare verso un luogo invitante, magari un posto bellissimo, un luogo che già avevo in mente da un pezzo, che sognavo ogni notte da tantissimo tempo.
            Un viaggio imprevisto, certamente, una trasferta verso qualche luogo lontano e inaspettato, dove si possa tirare un respiro con calma, dove forse vivono degli abitanti cordiali, e le case e le strade sono pulite, perché una certa tolleranza è diffusa persino nei confronti di gente identica a me. Probabilmente lascerei i passeggeri e l'autista, col loro mezzo vetrato, proprio all’imbocco di questo paese così piacevole, ma saluterei tutti, naturalmente, sorridendo a ciascuno di loro, e poi me ne andrei rasserenato per conto mio, a familiarizzare con questo bel luogo. Non c’è niente di male, penso; ho fatto fare a tutti una bel giro, ho regalato loro un imprevisto piacevole, una leggera paura subito sciolta, visto che poi alla fine, per questi viaggiatori, è ripreso tutto quanto come è sempre stato. Vorrei forse trattenere dentro di me qualcosa di questi casuali compagni di viaggio, del loro sentirsi così normali, ordinari, pronti ad essere ogni volta i medesimi, i soliti monotoni personaggi di questa divertente minuta commedia.
            Uno di questi però lo chiamerei col suo nome: amico, potrei dirgli, và pure avanti ancora per la tua strada, e fai pure le tue cose da ora in avanti come se fossero un po’ anche le mie. Ti sento vicino, è evidente, perché viaggiare rimane sempre la cosa più bella del mondo, e forse anche la più solidale, anche nel caso ci si trovi a percorrere sempre gli stessi tragitti. Anche io voglio fermarmi, prima o dopo, gli direi ancora, perché anche io provo in fondo a me stesso questa necessità; ed ho bisogno di un posto che in questo momento non so neppure dove si trovi, ma il cui nome completo però è indubbiamente quello di casa.


Bruno Magnolfi

sabato 12 novembre 2016

Falso d'autore.

            

Ho sbagliato qualcosa, è evidente. Sono entrato dentro al negozio mentre già mi sentivo confuso, poi inspiegabilmente non c'era al momento proprio nessuno dietro a quel banco, e tra gli scaffali e le casse neanche un cliente. Così mi sono guardato attorno, ho atteso paziente che qualcuno giungesse, ed intanto ho messo la mano dentro la tasca, come per cercare quei due spiccioli che a volte riesco anche a spendere. Quando è arrivato il proprietario, un uomo di mezza età senza pretese, quasi per un automatismo avevo già steso il mio dito indice dentro la tasca, mettendolo per bene in vista anche, e proprio come fosse uno scherzo, ho detto con una voce ben camuffata, bassa e decisa: apri la cassa prima che ti procuri un foro in mezzo alla pancia. Lui mi ha guardato con gli occhi sbarrati, ha obbedito alla svelta, e sembrava tremare persino, come se tutta quella messinscena fosse una vera rapina, tanto che io stavo per mettermi a ridere e dirgli che era soltanto uno scherzo, ma lui mi ha messo davanti quel sacco di bigliettoni che mi hanno subito tolto ogni voglia di ridere.
Li ho presi, inutile giraci attorno, e sono uscito alla svelta da dentro quel tugurio da morti di fame, dimenticandomi persino di salutare quel tizio pauroso. Ho evitato da quel momento tutti i posti che conoscevo, sono andato a dormire in una baracca che era come una cuccia per cani, ed è trascorso in questo modo un tempo sicuramente sufficiente per farmi tirare un respiro di sollievo e tranquillizzarmi. In tutto questo periodo i soldi sono sempre stati con me, mi pare evidente, ed ho pure evitato di spendere anche uno soltanto di quei bei biglietti di banca.
Adesso, dopo tutte queste settimane, mi sento abbastanza tranquillo, giro per strada e chiedo un po' d'elemosina, come ho sempre fatto d'altronde, e soltanto qualche volta mi trovo di notte a graffiare una macchina, o a gettare in terra due o tre motorini parcheggiati per bene, giusto per mostrare il disprezzo che continuo a nutrire verso un po’tutti. È la mia maniera per sentirmi diverso, anche se alla fine, se ci penso per bene, non mi pare neanche di essere messo malissimo. Nessuno mi ha mai chiesto niente, almeno fino ad oggi, e dentro la fodera cucita della mia giacca, sento sempre con le mani la forma dei miei bigliettoni sparsi che dormono lì, nell'attesa di essere spesi.
Poi ieri sera mi viene la voglia di metterli tutti per bene, così apro la fodera mentre sono in un posto nascosto da solo, e faccio con calma dei mucchietti che metto insieme con degli elastici che mi sono procurato. Sistemo tutto quanto dentro una scatola, e lascio fuori soltanto tre o quattro banconote, pronte per essere spese. Così questa mattina, dopo aver sotterrato la scatola in un posto veramente sicuro, me ne vado un po’ in giro a testa alta e le mani affondate dentro le tasche, come fossi il più ricco di tutto il quartiere. Mi prendo ovviamente tutta la calma del mondo, cammino su e giù per un sacco di strade prima di mettere a fuoco il posto che più mi piace, e infine mi decido ad entrare in un bar ristorante, proprio per sedermi e farmi servire un pasto esattamente come si deve. Mi guardano subito male quei camerieri sospettosi, ma faccio vedere che in tasca c’ho i soldi, e quindi mi mettono davanti senza battere ciglio tutto quello che chiedo. Mangio ogni piatto con grande soddisfazione e alla fine loro mi portano il conto, senza che io mi sogni di fare neppure una smorfia; tiro fuori con grande scena i quattrini che servono, il tizio che sta lì ad aspettare lì prende, li guarda con calma, li saggia, e subito dopo mi dice, con severità: questi sono falsi, si vede benissimo.


Bruno Magnolfi

martedì 8 novembre 2016

Ipoteca imprevista.

      

            Sento il rumore delle macchine che transitano lungo il viale; muovo lentamente una mano, prendo il cartone ancora quasi pieno che sta qui vicino, e butto giù un sorso di vino, tanto per sentire più caldo e meno rumore. Generalmente non dormo su una panchina, non è neppure il mio stile, voglio dire. Soltanto, ho avuto qualche problema ultimamente, e così ho pensato che è meglio se mi tolgo dai piedi almeno per un po’. Ho fatto qualche scherzetto a qualcuno giù al dormitorio, dove vado sempre in queste giornate così umide; niente di serio, roba quasi tra amici, però qualcuno di loro adesso penso proprio voglia farmela pagare. Ma passerà, come tutte le cose, e tra poco tempo nessuno avrà più voglia neppure di ricordarsene di questa faccenda.
La cosa che mi preoccupa di più nel passare la notte da solo in questi giardinetti, è data da quegli sbandati che vanno sempre a rompere le scatole alla gente proprio come me. Io sto qui bello tranquillo con la mia coperta pesante, e quelli ti vengono attorno e sghignazzano anche, e se qualcuno di loro è ubriaco finisce pure che cercano persino di arrostirti. Ma io so difendermi, e dormo sempre con il coltello sfoderato qui accanto, pronto per qualsiasi evenienza. Certo, mi piacerebbe poter tornare bello tranquillo giù al dormitorio, e forse sarebbe anche meglio, ma adesso non è proprio aria, mi devo tenere distante, non c'è niente da fare. Avevo trovato una tizia tutta stranita che comunque ci stava, e perciò me la sono subito portata nel dormitorio; e poi, per permettermi di farle un regalo, il minimo che potessi fare per lei, ho dovuto ripulire nel buio qualche tasca rigonfia di qualcuno che stava là dentro. Tra persone normali si potrebbe anche comprendere un gesto del genere, penso, ma in questo ambiente spesso non c’è niente da fare, ognuno è attaccato alle proprie cose quasi come un polpo allo scoglio.
Così, eccomi qua. E mentre cerco di prendere sonno avverto rumori sospetti un po' dappertutto, così butto giù un'altra sorsata dal mio bel cartone, e poi mi giro su un fianco per provare a chiudere gli occhi. C'è un fanale in fondo al vialetto, ed illumina abbastanza bene tutto questo spiazzo dove mi sono sistemato; la luce dà un certo fastidio, ma stare nel buio credo sarebbe anche peggio. Poi arrivano questi tre o quattro stronzi: li sento mentre fingono di avvicinarsi alla chetichella, ma ridono e fanno più casino loro di venti bambini in un parco giochi. Mi preparo, tiro giù intanto una gamba e impugno con forza il coltello: al primo che mi viene più a tiro, gli faccio subito un bel graffio da qualche parte, così gli altri se la fanno subito sotto e mi tolgono velocemente il disturbo. Non ha fegato la gente come questa, basta fare la faccia cattiva e si impauriscono subito.
Girano attorno, mi guardano, io fingo ancora di stare nel mondo dei sogni. Poi uno mi viene vicino e dice piano: è lui; così capisco che non è esattamente come pensavo. Apro gli occhi, mi tiro su, la coperta nasconde il coltello, loro non dicono niente, ma mi sembra che le cose non si mettano bene per me. Cosa volete, dico tanto per dire, ma quelli neppure rispondono. Dobbiamo farti uno sfregio, dice uno con indifferenza, così imparerai come ci si deve comportare. Così lo guardo, quello mi viene più vicino, ha un coltello esagerato dentro una mano, e me lo punta proprio sugli occhi. Quando sta a tiro gli pianto il mio temperino dentro una coscia e mi scanso per evitare il suo colpo, lui casca per terra e si rotola per il dolore. Due degli altri scappano subito, uno invece resta e mi dice che volevano soltanto farmi paura, nient’altro. Portalo via, gli dico con voce gracchiante, perciò quello lo alza e l’aiuta a rimettersi in piedi ed a camminare. Mentre li guardo andarsene strascicandosi nella maniera che possono, penso però che prima o poi torneranno, e a quel punto sarà proprio dura per me. Dovrò nascondermi per chissà quanto tempo, rifletto, forse cambiare addirittura città. Non è andata bene, dico tra me, il mio futuro ormai è ipotecato.


Bruno Magnolfi

domenica 6 novembre 2016

Errori comuni.

            
            Forse ho sbagliato, dico io; ed il babbo: certo che hai sbagliato, su questo non c’è proprio alcun dubbio. Ed io: ma l’ho fatto in buona fede; va bene, fa lui, però potevi comunque prevederlo. Ed io: forse mi sono fidato troppo della situazione; ma questo ottimismo non è un errore. D’accordo, fa il babbo, però le conseguenze di adesso saranno tue e del tuo ottimismo. Però credo che tutti prima o poi cadano in tranelli del genere, dico io. Forse, fa lui; in ogni caso c’è una battuta d’arresto nel tuo percorso. Vedi, dice ancora il babbo: l’errore può anche essere previsto, ma le conseguenze non lo sono affatto, così adesso c’è soltanto da pensare bene a come rimediare.
            Tu mi aiuterai, penso, faccio io. Non credo, fa lui, altrimenti non imparerai niente, anzi io diventerei in quel caso semplicemente il tuo paracadute. Ed io, con apprensione: ma questo non è molto giusto; e lui: non parliamo adesso di cose giuste, altrimenti perdiamo la bussola. Così mi lasci solo, faccio io; può darsi, fa lui: ma te lo sei meritato. Secondo me, continua il babbo, dovresti provare ad essere almeno un pochino autocritico. Vuoi dire che generalmente sono altezzoso?, faccio io. Non dico questo, interrompe lui: però c’è bisogno di un pizzico di maggiore umiltà.
            L’auto si ferma, il babbo scende per primo e muove due passi sull’argine di quel canale che continua a scorrere placido. Dopo un momento lo seguo, chiudendo lo sportello dietro di me e inforcando gli occhiali da sole anche se la giornata è un po’ grigia. Non c’è niente di male, faccio io, se cerco un aiuto dagli altri. No, dice lui sorridendo; sempre ammesso che gli altri siano disposti davvero ad aiutarti. Ed io: perché c’è anche il caso di individui che potrebbero approfittarsi della mia debolezza, vuoi dire? Forse, fa lui; in ogni caso devi avere maggiore convinzione nelle tue scelte, non prendere quelle che ti suggeriscono gli altri.  
            Si cammina sull’argine erboso, a me pare una giornata perfetta per chiudere tutto alle spalle e ricominciare sin d’ora qualcosa di nuovo. Va bene, fo io, domani affronterò a testa bassa l’argomento, e cercherò di superare i miei errori. E lui: non credo sia sufficiente; c’è bisogno di testa e di tempo, non di strappi improvvisi di pancia. Ma allora c’è una tecnica anche nei rimedi, dico io. Certo, fa il babbo; e in ogni caso non può certo abbassarsi la tua autostima, se ti metti a studiare un percorso per il pieno recupero. Vorrei sapere adesso come andrà a finire tutta la storia, dico io abbassando la voce; perché mi pare che tutto quanto sia più compromesso di quello che mi sarei mai aspettato.
            Il babbo non dice niente, si accende una delle sue sigarette, osserva la foschia in fondo al canale, e assapora quei colori così tenui che paiono spengersi via via che ci si allontana da qui con lo sguardo. Faccio io: vorrei tanto non essere incappato in questa situazione. Lo so, dice lui: ma ciò non toglie che sia comunque un’opportunità quella che ti si sta presentando. Respiro l’aria umida e colma di mille profumi, poi dico: credi tu che le cose potranno risolversi bene? Certo, fa lui; molto dipende da te e da ciò che farai, ma averne parlato in questa giornata, è già un primo passo, quasi un impegno a dare una vera svolta alle cose. Ed io: ne sono convinto, anch’io mi sento già meglio, forse si stempra dentro di me quell’angoscia che continuavo a provare. Il canale continua a scorrere con tranquillità; l’erba degli argini trema, la foschia in mezzo agli alberi pare già diradarsi.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 novembre 2016

Serena sorte.

            

Mi piace piegare la testa in avanti, affondare il viso dentro le braccia, e restare seduto sopra un gradino, vicino al marciapiede di una strada qualsiasi, o magari su una panchina dei giardinetti, senza avere niente da fare, salvo scaldarmi nel sole, come uno di questi gatti randagi. Chiudo gli occhi, allento la tensione, ed un’immagine di quiete mi prende, come fosse un piccolo sonno ristoratore che magari riesce soltanto a durare lo spazio di un attimo, ma che indubbiamente incoraggia, e dà la spinta sufficiente per tirare avanti.
Poi mi alzo, riprendo a girare come sempre per questo quartiere, nella mia estenuante ricerca di quella serenità che purtroppo continua a sfuggirmi, e che purtroppo ritengo fondamentale per formulare qualche progetto che valga almeno per questa giornata. Mi fermo a guardare qualcosa, attratto come sono da ciò che almeno non riesco a spiegarmi nell'immediatezza, e mentre sto immobile con lo sguardo perso sopra qualcosa, una persona mi avvicina, sfiorandomi un braccio come per presentarsi, o farmi notare che si è accorta di me. La guardo in silenzio, questa signora dall'espressione elegante e con il vestiario di chi non ha problemi di soldi. Non penso niente di lei, non ho bisogno di fare congetture. Posso parlarle, mi chiede, ed io: certo, le faccio con calma, praticamente in questo momento non ho neppure niente da fare.
Mi indica un caffè lì vicino, così entriamo senza parlare e ci accomodiamo ad un tavolo libero. Vorrei aiutarla, mi dice, e nient’altro. Naturalmente osservo meglio la donna, ma non mi vengono idee in mente, neppure riguardo la richiesta che ha fatto. Le dico che mi reputo soltanto un qualsiasi vagabondo, uno che si è ritrovato ad essere così da un giorno a quell’altro, ma lei mi interrompe: non voglio sapere la sua storia, comprendo bene che la sua non è assolutamente una scelta, ma io vorrei soltanto darle una mano, nient’altro.
Respiro, il cameriere ci serve i caffè, io mi preoccupo della mia tazzina, e intanto penso che in fondo non saprei cosa chiedere a questa signora, se non qualche spicciolo come in fondo chiedo spesso anche ad altri. Però il mio orgoglio mi fa pensare semplicemente che non ho bisogno di niente, così alzo le spalle, perché la mia vita va avanti, oscillando tra gli orari in cui mi reco alla mensa, e le nottate da trascorrere possibilmente in un posto al coperto. Improvvisamente lei sembra di fretta, apre il borsello e mi mette in una mano un po’ dei suoi soldi, poi, senza aspettare risposta, paga velocemente il cameriere, e alla fine mi saluta dicendomi buona fortuna, nient’altro.
Attendo ancora un momento, poi mi alzo per uscire da quel locale, e di colpo, quando sono ormai sulla porta, mi sento come una persona diversa, uno che adesso ha quasi meno energia, e gli resta soltanto la voglia di sprofondarsi nelle sue cose, con estrema indifferenza verso tutto ciò che gli resta attorno. Riprendo il mio vagare, mi fermo, vado ancora avanti, alla fine mi siedo sopra il gradino di un palazzo lì accanto.
Immagino la donna di prima che mette in mano dei soldi a chiunque incontri per strada, come per liberarsi di qualcosa che porta con sé. Ma alla fine rifletto meglio, ed arrivo a pensare come ci siano ancora delle persone in fondo meravigliose, che mostrano il senso primario della loro esistenza. Vorrei alzarmi da qui, andarmene solo da qualche parte, ma non posso proprio adesso mostrarmi egoista: dividerò, questi soldi che ho avuto, con il primo accattone che incontro, lo giuro a me stesso, e poi starò meglio; la serenità scenderà poco a poco dentro di me, almeno per oggi.


Bruno Magnolfi