mercoledì 30 novembre 2016

Nicchia segreta.

            

            Spesso vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
            Sulla mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle: posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma, e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta, mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
            In certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene, questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata lavorativa.
            Stamani, come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.


            Bruno Magnolfi

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