Non so, forse non è niente. Però c’è questa mano, dico proprio mentre me la
sto guardando, stendendola nell’aria. Mi fa male, tutto qua, non la posso
muovere come vorrei, e perciò la tengo il più possibile in tasca; ma siccome
provo una certa uggia dal polso fino alla punta delle dita, mentre cammino con
il mio passo lento, non posso fare a meno di pensarci continuamente, di
identificarmi nella mia mano destra, fino ad immaginare di calarmi tutto quanto
per intero dentro alla tasca, proprio insieme alla mia mano, e stare lì fermo,
raccolto, chiuso nel caldo, ad aspettare forse qualche buona novità, magari che
all’improvviso riesca a passare semplicemente questo antipatico dolore.
Il punto è che non riesco a dimenticarmi mai di lei, della mia mano dico, e
così convivo col dolore e con la sofferenza. Potresti andartene da un dottore,
mi dice un tipo che conosco appena. Potresti fartela visitare da qualcuno che
davvero se ne intende, mi fa. Io guardo dall'altra parte della strada, proprio
per non dargli alcuna importanza, anzi per sminuire quelle sue parole che quasi
non vorrei sentire. C'è la possibilità che qualcuno faccia la diagnosi di un
male irreversibile, penso, o comunque qualcosa di grave che mi imponga scelte e
cambiamenti, così è meglio lasciare tutto come sta, piuttosto che affrontare un
crollo psicologico o qualcosa di quel genere.
La tengo ferma, dico a questo tizio, mi occupo di tutto con quest'altra, e
le cose vanno bene nella stessa medesima maniera. Questo caldo della mia tasca poi,
a qualcosa riuscirà ad essere utile, ed io penso proprio che poco per volta le
cose si rimetteranno a posto, come se niente fosse stato, e tutto sarà di nuovo
nella stessa esatta maniera di poco tempo fa. Come vuoi tu, fa questo tipo che
inizia a starmi sulle scatole, però sentirsi sminuiti nei propri movimenti,
secondo me non è una bella cosa. Lo lascio dire, pesco dalla tasca, quella
della mano sinistra, una cicca che avevo messo da parte proprio per questo
pomeriggio, e senza mai estrarre la mano malata dal suo nido, riesco ad
accenderla ed a tirare qualche boccata di fumo. L’altro mi guarda, io continuo
a camminare, la mia espressione è di tranquillità, se non fosse per questo
maledetto sottile dolore che ancora avverto.
Quello però insiste, dice che le mani sono la parte principale di una
persona, e che non è una bella cosa lasciare che un semplice dolore renda
inservibile una parte del proprio corpo. Lo lascio dire, mi disinteresso delle
sue parole, e intanto vedo qualcuno che conosco dalla parte opposta della
strada, così decido di attraversare di colpo, senza preavviso, lasciando questo
tizio alle sue farneticazioni. Quello mi segue per un attimo, dice che non va
bene comportarsi in questo modo, ed anche altre cose di quel genere, ma io
oramai non lo ascolto più, e mi rivolgo a quest’altro sopra al marciapiede
salutandolo, mentre l’altro finalmente se ne va. Lui mi dà la mano ed io gli
porgo la sinistra, scusandomi che ho l’arto impedito da un dolore forte e
inusuale.
Si va avanti a camminare parlando per qualche attimo del più e del meno, ma
quello subito mi dice che gli dispiace che io sia menomato, e che spera trovino
presto una cura adeguata per rimettermi a posto. Sorvolo su queste parole, e
gli dico subito che a me piace passeggiare lungo quella strada sempre affollata
di gente. Lui fa cenno di si, ma poi riprende il discorso della mia mano, ed
allora penso che sia diventata un’abitudine quella di parlare delle cose che
non vanno. Invento subito una scusa, gli dico che ho da fare, e in questo modo
me ne vo per conto mio. Giro ancora un po’ lungo la strada, ma ormai ho il
terrore di incontrare altre persone che conosco, così mi copro la faccia con la
mano sinistra, e appena posso volto per una via meno frequentata. Non si riesce
mai a starsene tranquilli, penso; non ho bisogno di consigli o suggerimenti:
convivo col mio male, vorrei che gli altri non gli dessero alcun peso, insomma che
si disinteressassero del tutto delle mie pene.
Bruno Magnolfi
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