lunedì 27 febbraio 2017

Fantasmi ordinari.

           
            Se guardo dalla finestra dentro al buio di questo cortile, proprio di fronte alla mia stanza, certe volte ci vedo qualcosa di incomprensibile: ci sono delle forme che sembrano vive, e le pietre del muro di cinta che in qualche caso paiono muoversi; il semplice pavimento di nudo cemento poi sembra accogliere sopra di sé come delle fluttuanti ombre scure sul grigio della polvere: ma se scruto quelle forme con maggiore attenzione, proprio per rendermi conto da cosa siano generate, purtroppo quelle svaniscono subito. Stringo gli occhi, impiego tutta la concentrazione che posso, eppure non riesco a intravedere nient’altro, se non le solite cose che conosco già perfettamente. Di giorno invece tutto sembra restare al posto consueto, tanto che gli altri condomini di questo casamento attraversano lo spiazzo, passano davanti alla mia finestra senza alcun problema, ed ogni cosa ai loro occhi e davanti ai loro piedi appare normale. Per questo vorrei evitare di parlarne con loro: mi secca essere forse scambiato per uno sciocco bugiardo, uno che si inventa le cose per apparire magari più interessante agli occhi di tutti.
Poi una anziana signora che abita al terzo piano e conosco da sempre, mi viene a chiedere incrociandomi nel corridoio, se per caso abbia visto qualcosa di strano. La guardo, non credo abbia voglia di prendermi in giro, e poi non è il tipo che farebbe mai una cosa del genere, così le rispondo immediatamente che tutte le sere, quando scende il buio più fitto, ci sono delle cose che passano davanti alla mia finestra del piano terra, anche se non riesco a comprendere che cosa diamine possano essere. Lei attenta mi ascolta, dice che sono una persona affidabile, sicuramente potrò indagare meglio nei prossimi giorni e farle presente che cosa stia realmente avvenendo dentro al cortile del nostro condominio. Io la ringrazio per la fiducia, poi, confortato da quel suo sostegno, mi piazzo la sera stessa dietro ai vetri della mia finestra armato di una potente torcia elettrica, pronto a rendermi conto una volta per tutte di quello che avviene.
Attendo a lungo, forse anche troppo, e niente succede, come se l'ideatore di tutta la messinscena conoscesse già perfettamente quelle mie intenzioni, tanto da fare probabilmente anche di tutto per renderle vane. Oramai a notte inoltrata invece, proprio quando mi volto da lì al momento di sentirmi praticamente quasi deluso, pronto a lasciare del tutto la mia postazione, ecco che esattamente in quello stesso momento qualcosa si muove. Ripeto la medesima operazione diverse volte, voltando di scatto la faccia e poi tornando a guardare, fino a rendermi conto che un semplice riflesso nelle lenti dei miei occhiali produce un facile e stupido inganno. Accendo la torcia, mi assicuro di tutta la realtà delle cose, poi con calma chiudo le tende, spengo la luce ed infine, ormai completamente tranquillizzato, me ne vado a coricarmi nel letto.
Il giorno seguente incontro proprio sul portone del caseggiato condominiale quella signora curiosa, e subito, usando gesti e occhiatacce che rendono più verosimile qualsiasi faccenda, le faccio presente con dei bisbigli che la costringono a chiedermi diverse volte che cosa diamine le stia raccontando, che adesso non ci può essere più alcuna perplessità: la notte si muovono dei fantasmi nel nostro cortile, le dico con l’espressione di terrore che semplicemente pronunciare quelle parole produce: ma rimanga tra noi, le chiedo con impegno e grande serietà; si potrebbe innestare il panico generale nel nostro quartiere, tale da rendere questi nostri appartamenti addirittura inabitabili, pronti ad essere abbandonati da qualunque persona non del tutto priva di senno.


Bruno Magnolfi

mercoledì 22 febbraio 2017

Come una giornata qualsiasi.

            

Pedalo svogliatamente sopra la mia vecchia bicicletta in quest’aria fredda e buia della mattina, e non penso a niente altro che sia semplicemente cercare di giungere al giusto orario sul mio luogo di lavoro, e forse stringere gli occhi lacrimosi che mi frizzano ad ogni colpo di questo strano vento artificiale, restando dietro a tutti i furgoni delle consegne, anonimi e frettolosi. Un giorno qualsiasi anche oggi, senza alcuna novità, al punto che col mio collega dovrò inventarmi qualcosa da dire, magari qualche argomento che non abbiamo mai affrontato, o che al contrario abbiamo così sfruttato da mandarne a memoria ogni dettaglio, tanto da poter riderci sopra.
Ma non voglio pensare a niente adesso, niente di quello che potrà essere questa mia giornata, uguale o estremamente simile a qualsiasi altra, con quel suo retrogusto vagamente amaro e privo di sostanza. Voglio andare avanti, minuto dopo minuto, senza riflessioni che sono sicuro non porterebbero da nessuna parte, e senza ricerche spasmodiche di senso che non troverò mai, in nessun caso, neppure se le analizzassi al microscopio.
Provo ogni volta sempre più fatica quando mi siedo sopra al sellino di questa bicicletta; mi impongo al mezzo con qualche sofferenza, e poi il mio spirito ecologista mi richiama subito all’ordine, incoraggiando i miei muscoli a dare forza a queste ruote stanche, annoiate, che magari vorrebbero seguire un percorso un po’ diverso, e portarmi da qualche parte che ancora valga la pena di essere visitata. Invece l’itinerario è il solito, quello segnato una volta per tutte, lungo questo viale di cui mi è nota anche la livrea di ogni albero che incontro, nelle diverse stagioni che ne modificano pur meravigliosamente l’aspetto ed il colore.
Può essere sufficiente forse transitare sotto agli striscioni delle date canoniche dell’anno, sempre nell’attesa di quello che sta di seguito una settimana o un mese dopo, come tentare una rincorsa perenne, un sentir bruciare dentro un desiderio di qualcos’altro che alla lunga però diventa anch’esso un’abitudine. Ma può anche non esserlo, specialmente quando qualsiasi variazione piccola o grande che sia in tutto il panorama, sembra non bastare più a spingere sui pedali per questo semplice tragitto, casa e lavoro, e viceversa, senza cambiamenti. 
Proseguo, guardo avanti, qualche nuvola schiarisce sopra ai tetti delle case, ormai ho percorso più di metà di questa strada che mi separa dall’entrare dentro l’edificio che mi terrà racchiuso nel suo interno per tutta la giornata. Un uomo dal marciapiede mi chiama col mio nome, così mi volto, lo guardo, ma non lo riconosco; mi fermo, comunque, accostando verso di lui che continua a guardarmi con un semplice sorriso. Non mi ricorda niente, nessuno con cui abbia mai avuto a che fare, però lui ancora mi guarda, mi dà una piccola pacca amichevole sopra una spalla, mi chiede come vada, ed io gli rispondo nella maniera più stupida che riesca a trovare, sorridendo mentre gli dico che sto andando al mio lavoro e comportandomi come se stessi ricordando esattamente dove prima di adesso abbia già conosciuto i suoi modi e quella sua espressione.
Mi stringe la mano, dice che la giornata non è bella, forse verrà a piovere nel pomeriggio, addirittura. Gli dico che sono in ritardo, lui alza la mano e fa subito come un passo indietro, io rimetto il piede sul pedale, stringo il manubrio, riparto senza perdere altro tempo, e quando sono già a qualche metro di distanza, quello mi grida: divertiti, tu che lo puoi, per me invece sarà una pessima giornata. Mi giro verso di lui, quasi incredulo di quelle parole, e mi accorgo solo adesso che cammina zoppicando, come avesse un grosso problema ad una gamba. Poi giungo sul posto di lavoro, ed improvvisamente ho voglia di abbracciare il mio collega, forse soltanto perché in tutti questi anni da quando lavoriamo assieme, non l’ho proprio mai fatto.


Bruno Magnolfi

venerdì 17 febbraio 2017

Come una serata insignificante.



Sono arrivato fino qui da solo e senza aspettative per seguire questa assemblea; mi sono seduto in una delle ultime file della sala che mi ha accolto, poco prima che qualcuno iniziasse a parlare, e nel brusio generale dei presenti ho iniziato a scrivere questa nota, forse soltanto per darmi importanza con i vicini di posto, e in fondo anche per riempire un po' il tempo. C'è molta gente, molti si salutano con apparente calore, altri parlano in piedi a voce alta magari soltanto per farsi sentire da qualcuno che sta seduto poco distante da loro. L'idea di andarmene prima dell'inizio di tutto ha già iniziato a sfiorarmi da qualche minuto, ma per il momento ho deciso che devo restare, almeno per seguire gli argomenti dei primi che daranno vita al dibattito. Le strette di mano si susseguono con naturalezza senza alcuna interruzione, ma infine qualcuno sul palco prende il microfono ed allora tutti in questa platea finalmente si siedono mostrandosi pronti ad ascoltare ciò che viene proposto.
Scrivo con una semplice matita, un vecchio lapis che ho trovato abbandonato all’entrata sopra uno dei tavolini, ed il volantino cartaceo che pubblicizzava l’incontro, adeguatamente piegato in quattro, è quanto di meglio potessi desiderare per prendere appunti. Un signore accanto a me scruta quanto sto scrivendo quasi con attenzione, così volgo lo sguardo verso di lui con l’espressione di chi chiede qualche spiegazione su quella evidente curiosità. Quello invece sorride, come a mostrare che non voleva disturbarmi, così rispondo al sorriso scuotendo il mio foglio, a mostrare quanto poco importante per me sia tutto quello che sta succedendo. 
Sul palco si dice che le cose cambieranno, ci sono i presupposti per sperare in un miglioramento. Annoto le parole con diligenza, poi mi viene voglia di inventarmi qualcosa che non viene detto, come forzando il senso delle affermazioni fatte davanti al microfono. Qualcuno si arrabbia, scrivo, altri sostengono che sono soltanto parole vuote, e chi difende il proprio pensiero sembra proprio quasi convinto di ciò che continua ad affermare. Il mio vicino apprezza le mie parole, ride senza produrre rumore, e poi sottovoce mi chiede se io sia un giornalista. Certo, gli dico, mi pare evidente. Ma non sono di quelli che si prestano a cavalcare un’idea oppure l’altra per una qualche convenienza, ma cerco sempre di dire quello che penso nel pieno rispetto delle opinioni di tutti. L’altro irrompe nell’aria circostante con una risata incontenibile, tanto che alcune persone si voltano verso di lui. Io guardo avanti a me, l’espressione seria di chi si dissocia da certe esagerazioni.
Intanto altri hanno preso la parola, e qualcuno ha sventolato sul tavolo la propria mano, come a mostrare quali siano le cose migliori da fare al più presto possibile. Io proseguo a scrivere con la matita, ed il mio vicino si accosta, sempre a voce bassa mi chiede scusa per prima, infine dice che la mia attività è assolutamente apprezzabile e degna di nota. Mi allunga con modi da grande segreto un biglietto con il suo indirizzo personale di posta elettronica. Dice che gli interessa e non poco quella mia schietta scrittura, tanto che è disposto a pubblicare immediatamente, anche senza revisioni, lui che è direttore di un grande giornale, quanto io possa avere annotato di questa parata di esseri paradossali, che non dicono mai niente di nuovo, e gonfiano l’aria di parole svuotate di senso.
Lo guardo, raccolgo il biglietto, scuoto la testa, come per fargli capire che sono dalla sua parte, sono d’accordo con lui, e che ci deve essere per forza qualcuno che si mostri stufo e indignato delle solite serate che non portano a niente. Lui mi allunga la mano, me la stringe come per suggellare un’intesa completa, ed io gli assicuro che domani mattina avrà un mio messaggio con tutti gli appunti su questa assemblea, ed il titolo del documento sarà: noia mortale. Infine mi alzo con un lieve sorriso e in questo modo raggiungo l’uscita. Potrei addirittura aspettarmi un applauso scrosciante alle mie spalle, ma forse è anche meglio che nessuna attesa venga convalidata.


Bruno Magnolfi 

giovedì 9 febbraio 2017

Come un pesce fuori dall'acqua.

            

Forse dovrei smettere di pensare le cose sempre nella stessa maniera. Forse esiste anche il modo di evitare questi soliti luoghi comuni in cui regolarmente mi rifugio: l’uso continuo delle frasi fatte, questo lasciarmi andare a grasse risate superficiali con la gente che conosco da sempre, perdermi dietro delle attività del tutto inutili; tanto più che mi rendo conto perfettamente di quanto queste espressioni di vita non mi aiutino neppure a sentirmi particolarmente sereno. Mi guardo attorno da questa finestra all’ultimo piano del palazzo popolare dove abito da anni, mentre sono in attesa degli altri per la solita partita a carte del pomeriggio. C’è il sole oggi, si sta bene con questa luce, e a me piace osservare la città che si erge qua attorno, anche se mi pesa sempre di più cedere quasi ogni giorno a queste abitudini, parlare con gli altri delle solite cose, resistere alla voglia sempre più forte di lasciar perdere tutti e andarmene da qualche altra parte. 
Preparo il tavolo svogliatamente, le sedie, le carte da gioco, qualcosa da bere che una volta ogni tanto acquistiamo tutti insieme dentro al supermercato. Stando qui forse ci immaginiamo di stare lontani da tutto, e che il tempo ci conceda una pausa, come se rallentasse, senza chiederci niente nel cambio. Invece vorrei smettere con queste sciocchezze, trovare la maniera per guardare quanto mi sta circondando con maggiore serietà, con spirito critico, coltivando l’esigenza di inseguire una metamorfosi interna. Da qualche tempo ritrovarci qua sopra mi pare sempre più il tentativo di sentirsi come dei ricchi annoiati, paghi del loro essere inutili, tanto più che al contrario di loro stiamo qui anche perché non abbiamo neppure i quattrini per andarcene altrove.
Poi arrivano tutti, abitano ai piani inferiori, sono persone che come me hanno poco altro da fare nelle loro giornate, e così ci vediamo nel mio appartamento, come per una normale abitudine. Prima di impegnarci nella solita partita si scambia qualche parola, ci impegniamo a trovare delle nuove battute, anche se in fondo ci diciamo soltanto le solite cose, parliamo in negativo di qualche assente che ben conosciamo, tanto per risultare migliori di tutti, e fingiamo di essere amici, ma è solo perché ci sentiamo soltanto nella medesima situazione. Si danno le carte, iniziamo a giocare, ma dopo un attimo mi alzo, vado in un’altra stanza, mi guardo in uno specchio appeso sopra ad una parete, e decido che adesso è il momento di smettere.
Così torno dagli altri, dico che oggi non me la sento di giocare con loro, non mi pare neanche di sentirmi benissimo, ed è meglio se rimandiamo quella partita, e che magari mi farò vivo io nei giorni seguenti. Perplessi loro si alzano e se ne vanno, in fondo senza chiedermi troppo, come rendendosi conto che qualsiasi periodo della vita prima o dopo trova una sua conclusione. Hanno visto la mia faccia seria, i miei modi scostanti, il mio evidente bisogno di stare da solo, forse per meditare qualcosa che a loro non riuscirei nemmeno a spiegare, e che tutti quanti non sarebbero neanche capaci di comprendere bene.
Attendo qualche minuto, infine indosso la giacca ed esco anche io, forse per andarmene in giro a cercare qualcosa di cui non so ancora nulla. Giro parecchio, mi stanco, infine rientro. Non è tutto uguale, penso guardando di nuovo lo specchio: posso trovare il modo di cambiare le cose, dico tra me; basta che davvero lo voglia.


Bruno Magnolfi

lunedì 6 febbraio 2017

Come un giorno di sole.

          

Basta, dico a me stesso. Devo assolutamente cambiare, è doveroso per me e per chi mi sta intorno. Spengo la radio, prendo la giacca, le sigarette, le chiavi, ed esco senza neppure riflettere verso dove mi andrebbe di dirigermi. Fuori la giornata è piovosa, i marciapiedi brillano d’acqua, e la gente cammina intanata sotto agli ombrelli. Cosa mi importa, dico a un vicino che mi ferma soltanto per parlare di qualche sciocchezza: sono stufo di tutto, gli fo, non ho più voglia di perdermi in stupidaggini, e continuo per la mia strada senza guardarlo.
Vado avanti da solo, nervoso, a passo svelto, poi entro in un bar, e mi faccio servire qualcosa di forte. Butto giù due o tre bicchierini, pago alla cassa e torno ad uscire. Ho bisogno di gente, di perdermi in mezzo alla folla, di annullare me stesso per essere proprio come sono quegli altri, ed iniziare a ridere e a gustarmi il tempo che passa ed il niente che sono.
Mi dirigo verso una piazza, e quando sono lì in mezzo mi fermo a guardare qualcosa che mi appare subito ipnotico: delle luci che brillano sotto la pioggia, due ragazzi che ridono scherzando tra loro; alcuni che camminano nonostante il tempo inclemente, tenendosi a braccetto e tirandosi l’un l’altro dentro le pozze sopra la pavimentazione di pietra. Vorrei essere loro, divertirmi di niente, togliere di colpo da dentro la testa le preoccupazioni che proseguono a darmi tormento. 
Rido forzatamente, mi aggiungo ai ragazzi, faccio vedere che riesco anche io a divertirmi, ma quelli si paralizzano, mi guardano con serietà, respingono la mano con cui sono stati toccati, di fatto imponendomi di levarmi dai piedi. Continuo a girare, mi piacciono le luci brillanti che mi circondano: le persone si muovono dentro di loro, si specchiano e rifrangono nelle vetrine multicolori, ed una danza di piccoli passi e di gesti essenziali prosegue senza stancarsi, come un teatro infinito. Mi sento respinto da tutti, mi fermo, entro dentro un caffè molto elegante. Ancora un semplice bicchierino, poi di nuovo la strada per cercare ancora qualcosa, senza riuscire a decidere quale sia il vero punto di svolta, il cambiamento, la direzione da intraprendere e da cui non sia più possibile voltarsi all’indietro, per vedere ancora quello che ero, giusto fino ad un attimo prima.
Invece riprendo senza alcun entusiasmo la via verso la mia abitazione, e proseguo a ritroso sopra le medesime orme che ho impresso io stesso con queste mie scarpe, fino a trovare di nuovo il mio noioso vicino, ancora lì sopra quel marciapiede, quasi in attesa. Gli dico che non c’è niente di nuovo, e che forse sono soltanto quelle sciocchezze di prima che possono rappresentare davvero qualcosa di diverso nella mia giornata così ostile e monotona.
Lui mi osserva un momento, dice anche lui che dobbiamo cambiare, smettere di prendere tutte le cose come nemiche della nostra esistenza. Abbiamo provato ad agire d’impulso, mi spiega, quasi senza riflettere, ed abbiamo sbagliato. Adesso è arrivato il momento di usare più logica, maggiore razionalità, e finirla di intravedere in ogni avversario un nemico.

Bruno Magnolfi



mercoledì 1 febbraio 2017

Soccorso finale.

           

            Certe volte appoggio l’orecchio al lato interno della porta di camera mia, e resto in ascolto nella medesima posizione anche piuttosto a lungo, cercando di comprendere le parole che si scambiano tutti i miei familiari mentre continuano a conversare tra di loro. Loro si muovono avanti e indietro nelle altre stanze della casa, affrontando a voce alta, come fanno spesso, gli argomenti più diversi, e in qualche caso finiscono per parlare anche di me. Ho bisogno di sapere con anticipo cosa verrà deciso, questo è il punto, perché se loro, come ho già intuito, volessero farmi tornare di nuovo in quella clinica dove sono già stato anche per troppo tempo, stavolta sarei disposto a saltare subito giù dalla finestra e scappare via da qui. Non mi fa paura niente, la mia stanza si affaccia sulla parte posteriore del giardino della villa, basta che io mi cali lentamente tenendomi con le mani al davanzale, e dopo un piccolo salto sarei a posto. La recinzione del giardino invece è alta, ma c’è un buco segreto in fondo a un angolo, dietro dei cespugli: basta strisciare sulla terra e in un attimo si riesce a guadagnare la strada comunale.
            Quando vengono da me sono tutti molto cortesi: mi chiedono come mi senta, di che cosa abbia maggiore desiderio, e così via. Ma io ho capito da lungo tempo che senza dirmelo direttamente si vogliono di fatto liberare della mia presenza, rinchiudendomi di nuovo tra dottori ed infermieri, per farmi imbambolare con una miriade di calmanti e lasciarmi in una branda a vegetare chissà per quanto tempo questa volta. Loro credono di essere dei furbi, di potere fare di me quello che vogliono, sostenendo che io riesca ad essere persino pericoloso in certi casi, pur di far accettare a tutti quelli che mi conoscono l’idea che io non possa rimanere ancora a lungo in questa casa. Mi vogliono estromettere, ecco, sistemarmi in un luogo dove non possa nuocere alla loro tranquillità, e soprattutto che non torni a chiedere, come sarebbe assolutamente giusto, la mia parte di patrimonio.
A me non interessa niente dell’opinione di tutti questi miei parenti: io voglio fermamente restare qui, deve essere chiaro, perché questa, grande com’è, è anche casa mia; ma sono disposto ad affrontare non so neppure io quali disagi, pur di non accondiscendere neanche in parte a questa loro volontà. Soltanto perché me ne rimango giornate intere per conto mio, senza chiedere niente più che consumare i pasti dentro la mia camera, ed impegnarmi da solo nei miei semplici passatempo, loro sono sempre stati pronti a definirmi un tipo asociale ed una personalità completamente disadatta ai contatti con tutti gli altri. Non mi aspetto niente di buono da quelle loro bocche rosee, se non parole che denigrano ogni mio comportamento. Non li odio, semplicemente li sopporto a malapena, e comunque se si tengono alla larga dalla mia stanza per me è già sufficiente.
E’ anche vero che una volta fuori non saprei proprio dove andare: agli inizi magari vagherei per la città utilizzando questi soldi che sono riuscito a mettere da parte; in seguito però, considerando che ho l'indirizzo di un avvocato che mi può aiutare seriamente, potrei tramite lui o un suo collega, far valere appieno i miei diritti, e difendermi degnamente in questa mia battaglia contro tutti. È venuto a casa nostra qualche volta, e mi ha sempre stretto la mano con grande cortesia, informandosi immancabilmente circa le mie condizioni di salute. Lui sta dalla mia parte, questo è evidente, e ci sarà bisogno di ben poco per fargli capire che il mio dovrà essere niente più che uno strenuo salvataggio, un riprendere appieno la mia vita, insieme a tutto ciò che mi spetta di diritto, naturalmente, al di sopra di qualsiasi diversa ed infondata convinzione.


Bruno Magnolfi