lunedì 27 marzo 2017

Note in elenco.

            

Sto facendo un elenco preciso di tutte le cose da fare. Continuo a segnare su un foglio ogni più piccola attività che prima o dopo voglio affrontare, ed in seguito scrivo sul margine della carta le priorità che qualcuna di queste mostra con evidenza rispetto alle altre, in modo da costruire un vero percorso definito tra tutte le mie annotazioni. Oggi sarebbe il giorno più giusto per uscire da qui, penso; magari andarmene in giro per i fatti miei ed eseguire tutto quello che mi sono appuntato; purtroppo non potrò avere la mia mattinata di libertà fino alla prossima settimana, così è stabilito dal nostro bravo direttore, sempre che nel frattempo io non faccia qualche sciocchezza tale da rinviarne la data, perciò devo soltanto avere pazienza, girare come sempre per i corridoi di questo istituto e continuare a prendere nota di tutto quello che mi è rimasto ancora da scrivere, proprio per non dimenticarmi di niente. Gli altri mi guardano storto quando impugno questa matita, ritengono forse che stia soltanto perdendo del tempo, ma è vero il contrario, perché con il mio metodo così preciso riuscirò a fare tutto quanto ho dentro la testa senza tralasciare alcunché, risparmiando le forze e soprattutto conservando per me i minuti preziosi della mia mattinata.
Ignoro tutti quelli che mi passano accanto, spesso lanciandomi sguardi pieni di sprezzo e di invidia: metto insieme poco per volta il mio percorso di cose da fare, e tutto sarà definito con esattezza alla fine delle mie annotazioni. Ognuno deve avere un futuro, ciascuno di noi può delineare poco per volta le cose che intende affrontare, non c’è niente di male, è come una strada che ciascuno di noi intende intraprendere, sappiamo perfettamente dove ci potrebbe condurre, si tratta di scegliere o meno di provare a imboccarla. Nei miei fogli ho già previsto tutto quello che è logico fare: le prime cose sono senz'altro quelle più semplici, in seguito però vanno intraprese le attività più impegnative, ma non c’è assolutamente niente di cui spaventarsi, è tutto descritto tra le mie annotazioni, si tratta soltanto di seguire il percorso.
Arriva uno degli internati con cui divido gli spazi, uno di quelli che per adesso non è iscritto tra coloro che partecipano al progetto delle mattinate di libertà, e dice che è tutta una stupidaggine, tutto sarà sempre uguale, non c'è da farsi illusioni. Lo guardo, so che per lui è completamente diverso pensare il futuro: non si proietta nel giorno seguente, neppure in quello che segue subito dopo: lui non ha niente da predisporre, non ha una mattinata con cui riempire di idee il suo presente, ha soltanto di fronte a sé una giornata qualsiasi con cui perdere tempo e gingillarsi con le sciocchezze di sempre, come un bambino che gioca. Gli dico cosa penso di lui, ma lui sorride, dice che sono io a non avere ancora capito il senso del tempo.
Sgrano gli occhi, gli dico che sto prendendo degli appunti precisi, ma lui obietta che sto soltanto perdendo il mio tempo, e che mi illudo di poter fare chissà cosa durante una stupida mattinata in cui un operatore mi porterà come un cane in giro qua attorno. Continuo a guardarlo, gli dico di smettere, non mi va di ascoltare ancora le sue parole così negative, ma lui insiste a ridere delle mie illusioni, così come le chiama, e poi mi volta le spalle come per mostrare che ha già sprecato anche troppe parole per questi discorsi. Gli chiedo di ascoltarmi, di voltarsi verso di me, ma lui se ne va, lasciandomi esterrefatto: forse ha ragione, rifletto; forse non c’è alcun motivo per cercare di essere così razionale come tento di fare ogni giorno. Inizio ad urlare, dico subito a voce alta che il direttore è un maiale, un essere che fa credere agli altri tutto quello che vuole, ma gli operatori intervengono subito e mi immobilizzano: mi sono giocato la mia mattinata, mi dicono; posso persino segnarlo sul mio taccuino.


Bruno Magnolfi  

giovedì 16 marzo 2017

Conteggi.

            

Ho impiegato molto tempo per abituarmi. Non perché il susseguirsi di queste monotone giornate fosse per me qualcosa di poco congeniale, quanto perché avevo sempre pensato a qualcosa d'altro, anche se adesso non saprei neppure dire che cosa di preciso. Sto fermo dentro a questo chiosco di giornali presso un importante incrocio di strade e di marciapiedi della mia città. Sono i miei capi naturalmente che si occupano di tutto: dei fornitori, di cosa mettere in bella vista, dei resi, ed io rimango qui soltanto durante alcune ore del giorno, quando loro sono a riposarsi oppure a fare anche altre cose che a me non merita sapere. Mi lasciano qui durante quel pugno di ore più morte, quando puoi vederti arrivare davanti giusto qualche anziano per acquistare una rivista o un giornaletto, e dopo basta. Così spesso mi annoio, e spero sempre succeda almeno qualcosa che mi faccia terminare presto il mio orario di lavoro.
Di gente se ne muove parecchia intorno a me, è sempre un turbinio di macchine davanti a questa edicola, ma di tutte queste vetture rombanti non se ne trova mai qualcuna che abbia voglia di fermarsi per acquistare qualche cosa. Così, giusto per far passare meglio il tempo, mi sono messo qualche giorno fa a contare quante vetture di colore rosso potessero riuscire a transitare nello spazio di in un'ora intera, e dopo ciò ho fatto anche il conteggio di quelle di colore bianco, poi di quelle nere, delle gialle, dei modelli più comuni, dei più rari, dei motorini, delle biciclette, e così via. Qualche cliente del chiosco, naturalmente, è arrivato sempre nel momento meno opportuno, quando tutto sembrava fatto apposta per farti perdere il conteggio, ma con qualche stratagemma sono riuscito quasi sempre a cavarmela, anche se in qualche caso ho dovuto ricominciare tutto da capo.
Un pensionato poi mi ha chiesto cosa mai stessi facendo, e lui si è subito reso disponibile per aiutarmi, perciò gli ho dato un foglio ed anche un lapis, ed ho lasciato che contasse come me anche lui i flussi del traffico. In pochi giorni i pensionati sono diventati cinque, e siccome le notizie poco importanti girano più in fretta di qualsiasi altra cosa, a decine hanno iniziato a farsi avanti per questa attività quasi senza scopo. Per ingraziarsi la mia benevolenza però tutti sono arrivati al chiosco acquistando un giornale o una rivista, e quindi le vendite nelle ore morte dell’edicola in pochi giorni hanno registrato un’impennata, tanto che per far fronte a tutti i nuovi clienti ho dovuto lasciare i miei conteggi praticamente in mano alla folla dei miei aiutanti, peraltro felici di essere utili a qualcosa.
Uno del comune poi è venuto da me per dirmi senza mezzi termini che quei conteggi sarebbero stati molto utili a loro dell’ufficio per la mobilità, così mi ha fatto un'offerta per avere i totali dei passaggi automobilistici divisi nei giorni per orari e direzione, ed io naturalmente ho accettato tutto quanto, esagerando l’importanza del mio compito e dei dati, sottolineando che solo uno come me riesce a quantificare esattamente da questa posizione di privilegio le cifre precise. Gli aiutanti sono diventati così un numero discreto, tutti dislocati intorno al chiosco, foglio di carta e lapis in mano, qualcuno portandosi una seggiola da casa, pronti a mettere una lineetta nuova ad ogni passaggio da registrare.
Naturalmente ho dovuto arrabbiarmi con qualcuno, generalmente poco preciso nel memorizzare tutte le cose, o anche poco preciso semplicemente nel segnarle sopra al foglio, perciò sono stato anche costretto a sostituirne uno o due che magari si occupavano dei furgoni chiusi, inserendo al loro posto chi forse prendeva nota solamente dei taxi, ed in questa maniera mi sono fatto un elenco esatto dei pensionati che proprio per merito potevano aspirare alle liste maggiormente ambite tra tutte le altre.
Ma alla fine sono arrivati anche i miei capi; mi hanno detto in due parole che mi ero approfittato della posizione di privilegio che mi avevano concesso, e che adesso dovevo proprio andarmene, a meno che non avessi accettato il lavoro mattiniero di scaricatore dei pacchi dei quotidiani dai furgoni. Mi sono arreso, era evidente, non avevo scelta, ma ho lasciato ai miei aiutanti il loro compito guadagnato ormai sul campo, semplicemente distanziando di qualche metro da questo chiosco ognuno di loro, così che tutto quanto alla fine pare adesso filare proprio bene, visto che per me si è anche aperto inaspettatamente un importante credito d’esperienza nei confronti del comune.  

Bruno Magnolfi


venerdì 3 marzo 2017

Rumori molesti.

          

Silenzio. Pur stando in ascolto con il massimo dell’attenzione, pronto ad interpretare immediatamente come un pericolo qualsiasi pur minimo rumore possa giungere alle mie orecchie da fuori, non sento nulla, se non il mio vecchio cuore che batte, ed il leggero fruscio nella testa dato dal sangue che scorre regolare all’interno delle mie vene. C’è un dentro ed un fuori, in tutte le cose, ed io me ne sto qui a passare la notte avvoltolato in questo cartone, senza che almeno per adesso mi giunga alcun rumore da qualche parte qua attorno. Lontano, perso chissà in quale contrada che non conosco neppure, solitario e forse un po’ triste, ma in questo caso quasi rassicurante come il respiro naturale della città, il fischio appena avvertibile di un treno in arrivo o in partenza, nell’aria di questa notte qualsiasi, che non mostra al momento alcuna differenza con tutte le altre notti. Sollevo leggermente le palpebre, giro gli occhi da una parte e dall’altra, guardo qualcosa senza grande interesse, in questo buio leggermente tagliato da un lampione potente, posizionato su in alto nella piazza vicina, e subito dopo mi volto su un fianco, come uno di quelli che ancora cercano di dare in qualche modo una difesa per il proprio corpo, e stanno sempre come in attesa della botta che arriverà prima o dopo, a svegliare in un lampo di dolore questo sonno strappato alla strada. 
Lieve rumore. Forse soltanto qualcuno che passa poco lontano, oppure un semplice pezzo di carta mosso dal vento, una lattina vuota che rotola sul marciapiede, chissà, magari i ragazzi dell’associazione che ti portano il tè caldo, una coperta, una pacca sopra la spalla. Niente, resto fermo, tanto che potrei forse essere morto, e penso: chissà se qualcuno da dietro mi guarda in questo stesso momento, magari ha pena di me, oppure ritiene questo fagotto una spazzatura da prendere e togliere subito, come qualcosa che dà solo disturbo, perché produce un’immagine del tutto sgradevole della città. Adesso, poco distante, stanno lavando la strada: passa una macchina che spruzza dell’acqua sotto a una spazzola, e intanto aspira ogni residuo di vita, ad annullarne le tracce.
Colpo sul muro. Poco lontano qualcosa sta succedendo: mi giro, osservo due o tre ragazzi mezzi ubriachi che si divertono a svegliare un vecchio come me apparentemente senza difese, ma io tiro su la mia testa, mostro subito l’espressione di uno che non sarà tanto facile da abbattere, e che forse ha persino un coltello nascosto da qualche parte, e magari è anche pronto ad usarlo, perché non ha molto da perdere, e forse sa persino difendersi. Gridano qualcosa, a distanza, ridendo in modo sgraziato, e poi se ne vanno, spingendo le loro facce dietro qualcosa che possa apparire più facile, più divertente, un’impresa che dia loro maggiori soddisfazioni con un impegno minore. Mi giro, tutto adesso pare più quieto: la spazzatrice stradale ha voltato verso qualche altra parte, persone a piedi non se ne vede, sento soltanto una moto ruggire lungo la via principale, e dopo più nulla.
Silenzio. È bello immaginare il quartiere immerso nel sonno, in quella fase del giorno in cui tutti appaiono uguali, e i sogni di ognuno possono essere anche i più differenti, indipendentemente da chi sta sognando. Devo cambiare abitudini, penso; trovare un giaciglio un po' più sicuro, dove non ci sia da stare sempre in allerta, ed il mio fagotto di stracci non dia tanto nell'occhio.
Rumore secco vicino. Mi volto, sono i ragazzi di prima, sono tornati con intenzioni peggiori, ridono, uno di loro sbatte una spranga di legno su un palo, per farmi capire cosa mi attende. Non cerco neppure di tirare fuori il coltello, sarebbe peggio per me, mi limito a guardarli e ad attendere. Loro si fanno vicini, sono sempre più minacciosi, stavolta non riuscirò certo a cavarmela penso, spero solo che facciano un lavoro completo, che non mi esponga a sofferenze ulteriori.
Poi, un rumore più forte. Gira dall'angolo la spazzatrice stradale, illumina tutti coi suoi fari potenti, scendono in due vestiti di arancio, i ragazzi vanno subito via, e dopo poco anche io me ne vado con le mie povere cose: questo non è un posto adeguato a dormire penso; ci sono troppi rumori.


Bruno Magnolfi