martedì 25 aprile 2017

Nuove avventure.

            

Voglio salire su di un treno ed andarmene, gli dico. Non so se sia del tutto una buona idea, fa lui. Dopo questo semplice scambio di opinioni trascorrono parecchi minuti di silenzio, poi riprendo: andarmene in un’altra città non è proprio una brutta cosa, credo. Lui guarda il buio, sembra come trarre delle conclusioni dal niente, poi dice: i treni sono diventati infidi, se proprio vuoi devi sceglierne uno di vecchio tipo, che non abbia le porte automatiche, ed aspettare che il controllore ti arrivi vicino mentre scorre a guardare i biglietti, poi alla prima stazione scendere dalla parte opposta dei viaggiatori, e risalire dove lui è già passato. Se in quel momento però passa un convoglio nella direzione opposta tu devi metterti subito tra due vagoni e tenerti fermo a tutto quello che ti trovi a portata di mano, perché il colpo d’aria potrebbe esserti fatale.
Resto immobile, rifletto. Lascio trascorrere anche io parecchio tempo prima di dire qualcosa. Mi piacerebbe avere una bella sigaretta in questo momento, ma non mi è rimasto neanche un mozzicone. Mi sono scocciato di andare tutte le sere sul retro del ristorante da Guido per aspettare che lo chef ci faccia la carità di una vaschetta o due piena di avanzi, dico poi ad occhi socchiusi. Però quando ti portano anche una bella bottiglia di vino pregiato che qualche cliente ha lasciato sul tavolo consumata solo a metà, allora ti piace, fa lui. Va bene, gli dico, però adesso ho soltanto voglia di buttarmi in qualcosa di diverso, tutto qua. Dappertutto troverai le stesse identiche cose, fa lui, l’unica differenza è forse la carica che ci metti tu in quello che hai voglia di fare.
Posso sempre usare la tecnica del cappello, fo io. Scendere dal treno con un impermeabile grigio come più o meno indossano tutti, e poi passare mescolato agli altri dall’interno della stazione o del sottopassaggio, per andare a risalire velocemente sul medesimo treno indossando però il cappello, nella zona dove è già passato quello stesso controllore. Lui non ha certo voglia di tornare indietro a vedere chi io sia, se ho con me il fottuto biglietto oppure no, e quando lo fa, dopo qualche altra fermata, posso sempre fare di nuovo la medesima cosa di prima. Va bene, fa lui, te la puoi sempre cavare, d’accordo, ma alla fine ti ritrovi in una città che non conosci, senza riferimenti e neppure delle amicizie in grado di aiutarti.
Restiamo ancora in silenzio nel nostro angolo buio, senza guardarci, le braccia appoggiate alle ginocchia, la nostra poca roba sparsa davanti a noi. Potresti venire con me, gli fo senza spostarmi di un solo millimetro. Lui non si prende neppure la briga di rispondermi, si muove un po’ sopra le sue chiappe, poi tira fuori qualcosa da un sacchetto, un paio di sigarette nuove che spandono subito il loro aroma di tabacco fresco. Me ne ficco in bocca una quando me la porge, mentre lui si prende l’altra, ed infine ce l’accendiamo con una calma estrema, come se quella fosse la cosa più bella tra tutte le possibilità.
Mi piacerebbe andarmene più a sud, gli dico, a sentire un po’ di caldo, magari non in una città grande, è sufficiente un posto di provincia, dove magari lo trovi per davvero qualcuno che ha voglia di aiutarti. Lui continua a fumare, senza dire niente, come se tutte le mie riflessioni non meritassero neppure una risposta. Continua a scrutare qualcosa dentro al buio, come se da quello scuro potessero uscire gli argomenti giusti che gli servono, però sta fermo, ed io penso che tra poco si sdraierà nelle sue coperte e basta. Vengo con te, dice invece all’improvviso: non me la sento di lasciarti andare da solo in posti che non hai mai visto.

Bruno Magnolfi


domenica 23 aprile 2017

Angoli di esistenza.

          

Il vento, con le sue forti folate di stasera, sembra come ripassarsi mentalmente e in fretta l'elenco di tutti questi grandi alberi disposti in una fila quasi regolare lungo il viale poco trafficato di macchine e di mezzi pubblici. Cammino a passo svelto, le mani sprofondate nelle tasche, la faccia incastonata tra i baveri alzati del mio vecchio cappotto. Non ho una meta per il momento, salvo percorrere questo tratto di strada velocemente, e poi magari svoltare lungo le stradine del centro storico, tanto per perdermi in mezzo a tutta quella gente, tra quei negozi aperti ed affollati, il mercato pieno di persone, e le friggitorie fumose ed invitanti. Mancano ancora tre ore per il mio appuntamento, ed io mi sento già molto nervoso, sento di dover scaricare in qualche modo questa agitazione che mi scuote. Ho fame, penso alla fine: mi prenderò qualcosa di caldo da sbocconcellare mentre continuo a camminare.
Nessuno sa chi sono, dove mi trovi, che cosa stia facendo, eppure tutti domani sapranno di me, della mia storia, delle mie convinzioni ferree. Mi chiedo che cosa abbia mai fatto in tutti questi anni di vagabondaggi, di ricerca del futuro, di bisogni quotidiani da soddisfare in qualche modo, anche se tutto adesso è solo dentro la mia testa, come un martellamento che non riesce ad avere alcun diverso sbocco. Porteranno sul posto quello che mi serve, presso l’angolo di strada che abbiamo precedentemente pattuito: sarà un furgone bianco con il cassone senza vetri che si accosterà a motore acceso appena qualche attimo. Persone che non ho mai visto, con cui non scambierò neppure una parola, rimarranno nella cabina di guida, per sicurezza, penso; ed io entrerò dentro, da dietro, prenderò le armi previste, e subito dopo, cappotto chiuso, mani calate dentro le tasche, me ne andrò di nuovo, a continuare questa strana passeggiata.
Ci sarà anche un messaggio, in mezzo a quelle cose: probabilmente un semplice foglietto di carta scritto in fretta, niente di più, con l'indicazione del luogo esatto dove praticare la mia esternazione, questo mio impellente bisogno di sentirmi fuori da tutto, e soprattutto da quel niente assurdo che rimane per me senza alcun futuro. In ogni caso tutte le parti tecniche del piano sono ormai estremamente chiare, poi forse ci sarà qualcosa da improvvisare solo sul momento, una volta che avrò scelto chi colpire tra coloro che mi resteranno più vicini. Sono persone, lo so, gente qualsiasi come questa che mi incrocia per la strada, ma in quel momento incarneranno i miei nemici, coloro che hanno contribuito a sentirmi in questo modo, senza nulla da perdere, senza un futuro, quasi senza alcun riferimento.
Che cosa mi interessa più degli altri, penso; nessuno di loro mi ha aiutato quando ne ho avuto un bisogno disperato. Sono fuori da questo mondo, ecco il punto, e voglio dimostrare a tutti in un solo momento che non ci sto più a questo stupido gioco che mi hanno proposto dall’inizio, e voglio essere ricordato come uno diverso da loro, distante da tutto quanto, destinato ad un altrove che forse nessuno di quanti ho mai conosciuto riesce neppure a immaginare. Manca poco ormai, mi sento sudato sotto ai miei vestiti, nonostante questo vento che neppure per un attimo sembra voler smettere di fare il suo lavoro; andrò ancora un po’ avanti con il mio passo svelto, cercherò il più possibile negli ultimi minuti di confondermi con qualche pensiero tra i più strani; e forse a un certo punto, chissà, potrò non ricordare minimamente qual'era davvero l'angolo di strada che avevamo pattuito.


Bruno Magnolfi

giovedì 20 aprile 2017

Tutto fuori dall'uscio.

           

Certe volte mi ritrovo ad ascoltare con curiosità tutti i più piccoli rumori che dal vano scale del palazzo dove abito giungono fino nel mio piccolo appartamento. Appoggio con attenzione l’orecchio all’interno della mia porta ben chiusa, e riesco quasi sempre a distinguere in questo modo i passi di chi scende oppure sta salendo, riconoscendo spesso dai loro modi alcuni tra tutti i coinquilini che normalmente incontro lungo le scale. Non che mi interessi particolarmente di sentire il rumore delle scarpe di quello o di quell’altro, e non sono neppure troppo curiosa degli orari in cui escono dal proprio appartamento oppure ci rientrano; soltanto qualche volta mi prende quasi improvvisa la certezza che sia proprio lui in quel dato momento a camminare sopra al pianerottolo davanti al mio uscio. Lui è alto, forte, gentile, o almeno così è come me lo immagino sempre, appena lo sento traversare quel piccolo spazio davanti alla mia porta. Soltanto qualche volta ho avuto il coraggio di aprire di scatto, fingendo naturalmente di uscire da casa per un qualche motivo, e così ho riscontrato che era davvero il mio vicino, riconosciuto proprio dalla sua camminata, anche se oltre ad un saluto doveroso, non mi sono mai permessa di concedergli alcuna confidenza.
Inizialmente lui mi salutava in modo piuttosto impersonale, senza guardarmi neanche più di un attimo, ma da qualche tempo ho notato che mi sorride in maniera più diretta ed amichevole. Sua moglie al contrario è una persona secondo me del tutto insopportabile: lì guardo dalla finestra quando certe volte escono insieme, e so per certo che lui non è contento, così come sono convinta sempre di più che qualcosa stia come scricchiolando in quel loro rapporto, naturalmente senza che nulla mai trapeli dalle mie espressioni o dal saluto che dispenso identico a loro due come a tutti i miei vicini di casa e coinquilini di questo palazzo. Immagino che uno di questi giorni lui mi fermi proprio in mezzo all'ingresso, e con una scusa qualsiasi mi guardi con più calma nel fondo degli occhi, forse per sincerarsi di qualcosa di necessario che forse fino a questo momento gli è apparso persino troppo sfuggente.
Non è bello, devo essere sincera, però è il tipo di persona che con niente ti fa perdere la testa, tanto che mi sento quasi svenire le volte che riesco davvero ad incontrarlo. Non so quasi niente di lui, non mi sono mai neanche azzardata a chiedere a qualcuno sue notizie, e poi forse non mi importa neanche niente di sapere dei fatti suoi: mi basta sentire quei suoi passi ritmati lungo le scale, osservarlo magari dalle spalle mentre sta scendendo, e immaginare quali pensieri possono scorrere in quell'attimo dentro la sua testa. Mi piace sapere che lui percorre queste scale ogni giorno, abitando al piano sopra al mio appartamento, ed ogni volta che mentre passa semplicemente sfiora la porta della mia casa; magari getta pure un’occhiata sopra la maniglia, o sulla targhetta con sopra il mio nome, forse addirittura immaginando che in quel determinato momento io stia proprio tra queste mie mura, nell’attesa che qualcuno, esattamente come lui, per completare il mio sogno, venga anche distrattamente per una volta a suonare questo mio campanello.
Vorrei avere il coraggio di fermarlo, un giorno di questi, magari mentre lo incontro appunto sopra a questo pianerottolo. Potrei chiedergli di passare un attimo da me, anche per farsi vedere, per farmi sentire bene tutta la sua voce, e magari sedersi al mio tavolo, giusto per parlare di qualcosa, senza alcun impegno, casomai soltanto per lasciarmi proseguire per un attimo ad osservarlo senza quella timidezza che provo sempre fuori da qui. Gli stringerei in quel caso soltanto la mano, probabilmente, assumendo la mia espressione più languida ed assorta, e gli spiegherei velocemente di non azzardarsi mai più a salutarmi e a sorridere mentre lo incrocio lungo le nostre scale: potrei morire, gli direi; anche senza avere un altro valido motivo per farlo.

Bruno Magnolfi


sabato 15 aprile 2017

Via lo sporco.

            

            La lavanderia a gettoni è sempre vuota la sera, si può stare là dentro senza alcun problema, ed aspettare con calma che i propri capi di vestiario siano lavati ed asciugati dalle macchine. La mamma sembra contenta quando attraversa la strada con il suo sacco pieno di roba da lavare, è come se quel momento fosse soltanto suo, una spazio temporale in cui riesce a rilassarsi su una di quelle sedie di plastica ancorate a terra, nell’attesa che il sibilo finale le indichi la fine delle operazioni. Certe volte sono andata con lei, giusto per farle un po’ di compagnia, ma infine mi sono resa conto che a quell’ora buia parlarle ancora della scuola, della maestra, o dei miei compagni di classe, in quello spazio pubblico così anonimo, forse non le interessava poi moltissimo.
            Se mi affaccio riesco a vederle le caviglie e le scarpe dalla finestra, attraverso le porte a vetri della lavanderia ben illuminata, proprio mentre lei resta seduta, e così so per certo che sta ancora lì, quasi come fosse semplicemente in una stanza diversa della nostra casa, che purtroppo è piccola, tanto che non c’entra neppure la lavatrice, e non c’è neanche lo spazio dove eventualmente stendere la biancheria per asciugare. Stavamo in un’abitazione molto più grande insieme a mio padre, ormai diversi anni fa, ma a me pare di non ricordarne neanche poi molto di quella casa, e comunque se n’è andata presto, quando ero ancora piccola, insieme a lui, spariti chissà dove. Con la mamma non si parla mai di quel periodo, si fa finta non sia mai esistito, e se a me viene voglia di chiederle qualcosa mi trattengo. Però so che lui ci manda dei soldi ogni tanto, anche se non servono a molto, visto che la mamma è costretta a lavorare e anche parecchio.
            Stasera ci deve essere qualcuno insieme a lei nella lavanderia, riesco a vedere le scarpe anche di un’altra persona quando mi affaccio; è un uomo, seduto accanto a lei, però mi dispiace ficcare il naso nelle cose sue, visto che in fondo è come se questo fosse il suo momento, il suo piccolo angolo personale. Stanno parlando, sembra quasi che si conoscano, forse si sono già incontrati là dentro qualche volta, o forse quel signore è un nostro vicino di casa che magari ci conosce. Che importa, mi dico, per me è quasi l’ora di andarmene a dormire, devo riposare bene, domani ci sarà una verifica di matematica che non posso certo sbagliare: voglio dimostrare di essere all’altezza per frequentare il prossimo anno la scuola media, ed uscire da questa infanzia che ormai mi va un po’ stretta.
Guardo ancora fuori, la mamma è ancora là con quel signore, per un attimo immagino possa essere proprio mio padre, e che magari non sia neanche la prima volta che viene fino lì per incontrarsi insieme a lei. Forse durante il giorno mi ha incontrato, e mi ha guardato camminare mentre andavo a scuola, perché probabilmente non se la sente di fermarmi semplicemente per la strada e dirmi come nulla: sono io, volevo soltanto vedere quanto eri cresciuta, e anche l'espressione che avevi assunto adesso che ti sei fatta così grande. Forse in quel caso l'avrei abbracciato, se avesse detto proprio così; e forse gli avrei detto che mi è mancato sempre, che ho pensato a lui tante di quelle volte da non saperlo adesso neanche spiegare. Certo, rifletto ancora, deve essere proprio in questo modo, e la mamma sarà felice magari nel sentirsi dire da lui che ha fatto degli errori, e che il più grosso di tutti è stato quello di andarsene quel giorno, ma che adesso è qui per rimediare, per trovare poco per volta con noi la maniera per ricostruire in qualche modo la nostra famiglia, così com'era tanto tempo fa.
Torno ad affacciarmi con le lacrime che oramai mi scendono lungo le guance. Adesso loro due stanno proprio sopra al marciapiede, si stringono la mano, come degli amici, ognuno col suo sacco di biancheria pulita. Non è mio padre quello, penso subito: sono soltanto una sciocca.

Bruno Magnolfi


mercoledì 5 aprile 2017

Sopportazione limitata.

           

Io sono come tutti. Non penso mai a qualcosa come per un riferimento positivo oppure come per un esempio da seguire, perché al contrario di qualcuno che conosco, se serve io sono sempre pronto a prendermela con tutti, criticando regolarmente chi mi capita più a tiro, scagliandomi spesso anche contro coloro che magari solo mi sfiorano, ma che in qualche modo reputo ostili al mio modo di essere, ed esternare questo mio comportamento già mi pare più che sufficiente. Giro per strada con le mani sprofondate nelle tasche, e noto sempre dei particolari negli altri che certe volte non riesco minimamente a sopportare. Perciò dico che non si può andare avanti in questo modo, perché è più che evidente come ogni individuo non possa avere altro da pensare che a se stesso, e per questa semplice ragione non resta quindi spazio a nessuna differente possibilità. Mi occupo dei fatti miei per quasi tutto il tempo che ho a disposizione, almeno fino a quando non sono disturbato da qualche deficiente che decide di incrociare la mia strada, e comunque credo proprio che la mia sia la più onesta e lineare tra le normalità possibili.
Un conoscente mi ferma per dirmi che oggi forse non è una bellissima giornata, ma che in ogni caso ci possiamo comunque accontentare. Lo guardo subito male, gli dico che accontentarsi è già un termine che non sopporto, e poi se non splende il sole come vorrebbe lui, comunque sia intanto non piove, ma se pure piovesse forse per qualcuno andrebbe comunque già benissimo. Quindi non è questo un argomento proprio fondante. L’altro mi guarda, dice che ci potremmo comunque prendere un caffè nel locale più vicino, e questa alla fine mi pare già un’ottima idea. Mi rilasso, ci sediamo, lui dice che in questo periodo si sente molto indeciso su alcune scelte da fare circa il suo lavoro. Lo ascolto, annuisco, penso sia un bravo ragazzo, uno che riflette a fondo le sue cose, troverà sicuramente e in fretta la soluzione migliore ai suoi problemi. La realtà non incoraggia, gli dico in breve: sono tutti ladri, bisogna stare sempre attenti a come ci si muove.
Poi decido di parlargli di una mia difficoltà: si tratta di qualcosa che mi capita di notte, quando sono nel mio letto per dormire, ed è proprio quel momento in cui credo ancora di pensare a qualche cosa, quando in un attimo invece inizio già a sognare, tanto che alla fine, non so neppure come, ecco che d’improvviso parte l’incubo. Dei tizi che neanche conosco mi rincorrono, e mentre scappo a perdifiato sento dietro le mie spalle che gridano il mio nome con tutta la loro rabbia assurda che dimostrano di avere dentro, e poi dicono anche che sono proprio io che li ho traditi, ed è per colpa mia se tutto sta lentamente ma inesorabilmente sprofondando, e questi sconosciuti continuano a urlare queste cose come se io fossi responsabile di chissà quali apparati: come un dirigente, un comandante, un capo di un’organizzazione di cui però non sono assolutamente a conoscenza. Allora cerco di parlare, di spiegarmi, di giustificare in qualche modo le cose di cui sono accusato, e tutto si placa all’improvviso, probabilmente proprio grazie alle mie parole, ed anche se in seguito mi sveglio ancora in piena agitazione, sono già contento, perché so che probabilmente sono riuscito a convincere tutti che davvero sono innocente, che quelle accuse su di me fin dall’inizio erano tutte assurde ed infondate.
L’altro mi guarda, adesso sembra avere sulla faccia un’espressione ironica, quasi beffarda, come se c’entrasse anche lui nelle cause del mio incubo. Gli chiedo spiegazioni, ma lui resta in silenzio, solo continua ad osservarmi con un viso che adesso quasi riconosco tra quelli di coloro che mi avevano inseguito. Non dico niente, mi alzo dal tavolino, lascio degli spiccioli sul tavolo, poi me ne vado; tanto non merita rimanere ancora lì.


Bruno Magnolfi