venerdì 5 maggio 2017

Convergenza.

           

Vado avanti, proprio come mi dicono gli altri, anche se spesso mi sembra di essere al di fuori da tutto. I miei pensieri durante la giornata sono frutto solo di preoccupazioni personali, che molte volte si dimostrano del tutto infondate, ed i miei sogni durante la notte accarezzano in tanti casi la forma dell’incubo. Troppo frequentemente, forse per scelta, mi ritrovo da solo, e costruisco un nemico intorno a me che non sembra apparentemente aggressivo, anche se è sicuramente fornito di odio e di cinismo. Mi lancio in avanti, nel futuro, come mi hanno già consigliato da molto tempo, e quasi non tengo conto del presente che pare sempre sfuggirmi. Cammino attraversando tutta la città, nelle ore previste dal programma dell’istituto, muovendomi sempre ad occhi bassi e con passo svelto, fingendo degli impegni che non ho probabilmente mai avuto, e non chiedo aiuto a nessuno, in modo da non provare dei sentimenti di gratitudine.
Incontro una donna, forse di qualche anno più grande di me, che fuma la sua sigaretta e mi guarda con aria svagata. Dice che attende qualcuno, o qualcosa, mentre se ne sta alla fermata del bus, ma io capisco in un attimo che la sua solitudine fa il paio con la mia. Le dico con gentilezza che si può prendere insieme un caffè senza impegno, tanto per conoscerci meglio, ma lei dice che non è interessata: la sua storia è troppo complessa, mi spiega, per poter trovare ancora una volta la volontà per parlarne. Va bene, le faccio, si può rimanere in silenzio, che poi è anche la maniera più consona alle mie normali abitudini. Lei non dice altro, però mi segue, e così ci sistemiamo in piedi al bancone di un locale proprio lì accanto. 
Forse vorrei sorriderle, ma non ci riesco, e così mostro la mia espressione perennemente corrucciata, guardando con insistenza tutte le espressioni che assume la mia compagna. Dice ad un tratto di chiamarsi Lucia, e a me sta bene quel nome, anche se capisco subito come non sia il suo veramente. Ad un tratto scoppia a ridere, non sa spiegare perché, però è divertita, forse del mio atteggiamento che ho tenuto fino a questo momento, non saprei. Poi fa una smorfia, mi guarda come impaurita, terrorizzata da qualcosa che le passa dentro la testa, e forse vorrebbe mettersi a piangere, anche se si trattiene. Le prendo la mano, le dico che siamo uguali, che non ci sono degli ostacoli tra noi, perché non abbiamo neanche bisogno di spiegarci qualcosa, va bene così, è tutto appianato, sotto controllo, le cose procedono, siamo due che si sono incontrati, come avviene a chiunque, non ci sono problemi.
Si va via dopo il caffè, lei si accende subito una delle sue sigarette, io la guardo e mi pare lo specchio di qualcosa di mio che pare sfuggirmi, ma le tengo la mano, la porto con me, non so neanche dove, forse soltanto a camminare in mezzo a questa città. Lei adesso sembra docile e si lascia guidare verso qualsiasi meta io abbia in mente, cammina al mio fianco, qualche volta mi guarda, ma la sua espressione è ancora una volta di diffidenza, come se conservasse la sua personalità dietro la maschera, pronta a sfoderarla in qualsiasi momento. Le dico che tra non molto dovrò rientrare nel mio istituto, e lei non sembra per nulla meravigliata, come se le batoste che ha preso sicuramente durante tutti i suoi anni, l’avessero già anestetizzata da tempo rispetto a qualsiasi novità negativa. Si ferma, mi saluta con un semplice gesto: lei resta lì, da qualche parte, e forse dentro di sé mi ringrazia, anche se non sente per niente il bisogno di manifestarsi.
Riprendo la mia camminata, chissà come si chiama davvero, mi chiedo; forse ha un nome insignificante, forse quello di una pianta o di un animale, e magari se ne vergogna. Non so niente di lei, rifletto con una certa tristezza; non sono riuscito a sapere niente della sua vita, mi resta soltanto il suo modo particolare di guardarmi: ma va bene così, continuo a dirmi, non c’è bisogno di altro per una conoscenza profonda.


Bruno Magnolfi       

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