mercoledì 25 ottobre 2017

Debiti variabili.

        

Io sono uno qualsiasi, questo mi sembra evidente. In qualsiasi momento potrei mescolarmi con gli altri, camminare lungo le strade insieme a tutti quanti, e nessuno mai riconoscerebbe in me proprio colui che si è andato stupidamente ad indebitare con certa gente di pochi scrupoli, alcuni piccoli strozzini con poco cervello e delle aspettative esagerate, date solo dai loro comportamenti da sbruffoni. In ufficio durante il lavoro mantengo quasi sempre un basso profilo, mi interesso soltanto delle mie cose, salvo le volte in cui qualcuno dei miei colleghi esagera e mi fa innervosire, ma succede veramente di rado, anche se è quello il momento in cui sbotto davvero, limitandomi però ad alzare appena la voce, e poi basta. Ma questo in effetti non succede oramai da tanto tempo, in quanto ho ben altri problemi ultimamente che assorbono in ogni istante quasi tutti i pensieri che mi passano per la testa.
Arriva da me il solito Torrini per chiedermi qualcosa di un certo incartamento di cui mi sono occupato. Gli sorrido, dico che non deve preoccuparsi, perché naturalmente è tutto a posto, e in ogni caso ci penserò io a controllare di nuovo le cose se proprio ci tiene. Mi guarda con un briciolo di sospetto, ed io gli dico subito che mi piace la sua cravatta, è una fantasia molto bella. Lui si schernisce, sorride, è un regalo, mi fa. Devo chiederti un favore, gli fo invece io. Che genere, fa lui. Un piccolo prestito, gli sparo in faccia guardandolo fisso. Bé, non ho molto, mi fa: quanto sarebbe la cifra. Un ventino, gli dico, riuscendo a non distogliere gli occhi. Lui pensa per qualche secondo: la metà, mi dice subito, non un soldo di più. Va bene, gli fo, sapendo perfettamente che era quella la vera cifra che fin da subito avevo in mente. Sei un vero amico, gli fo, anche se ambedue sappiamo che non è proprio così.
Ci prendo il tre percento ogni mese, mi fa, come sempre. D’accordo, gli dico, un mese sarà sufficiente, al massimo due. Domani? Va bene, mi dice, domani ti porto la busta. Così una volta rimasto da solo mi piego sopra al lavoro che ho da sbrigare: farò il massimo degli straordinari inventando qualcosa per tenere buono il mio capoufficio rifletto, ma presto sarò fuori e anche per bene da questa specie di incubo. La cosa più importante di tutte è che Anna non sappia niente di tutta la storia, e che non abbia neppure un sospetto, e per questo motivo devo farle distogliere l’attenzione dai soldi che entrano e che escono da casa nostra. Il nostro conto in banca è già vuoto, ma sono stato bene attento a non mandarlo in rosso, così non possono arrivare delle comunicazioni o qualche strana richiesta.
Forse sono un disgraziato, un disgraziato qualsiasi, uno che si è fatto fregare come uno stupido, e che adesso deve arrancare chissà quanto tempo per rimettersi in carreggiata. Eppure non faccio niente di male, vivo e lavoro come fanno tutti, ed ho una famiglia, esattamente come gli altri. Probabilmente devo imparare qualcosa, ma non so bene cosa, perché nessuno me lo ha mai spiegato. Non voglio perdere tutto, sono sicuro di poter lottare come un leone per cercare la strada più giusta, ma sono fiducioso, le cose in poco tempo si aggiusteranno penso, e tutto tornerà rapidamente nella maniera come è sempre stata. E poi sarò più tranquillo tra non molto; soddisfatto e contento come non sono mai stato, sia delle mie cose che della mia vita.


Bruno Magnolfi

martedì 17 ottobre 2017

Volo negato.



Oggi mi ha portato un caffè, uno degli operai della carrozzeria. Non lo avevo mai neppure troppo notato tra gli altri ragazzi che lavorano qua dentro, così evidentemente mi sono schernita, già sorpresa com’ero, e subito l’ho ringraziato, naturalmente, anche se era solo una bevanda della macchinetta automatica; quindi con calma mi sono rimessa a svolgere il mio lavoro, oltre i vetri coperti di patina della debole porta che mi separa dall’officina, ed ogni tanto quasi senza volerlo mi sono ritrovata a dare ancora qualche sguardo da quelle parti, forse più per curiosità che per altro. Poi me ne sono andata, a fine mattina, come sempre, visto che il mio lavoro è a tempo parziale, salutando il titolare come ogni giorno ma evitando di farmi vedere andare via dagli operai che parevano totalmente immersi nelle loro occupazioni, come facessi stupidamente qualcosa di cui vergognarmi.
Andrea si chiama; ho cercato di nascosto i suoi dati sul registro dei dipendenti, ed ha soltanto qualche anno meno di me. Mi fa sorridere tutta questa faccenda, forse perché era da tanto tempo che non mi sentivo così. Anna, mi ha richiamato l’anziano titolare mentre ero già sulla porta con la borsa pronta ad andarmene via: mi raccomando per domani, ci sono gli adempimenti del mese. Certo, gli ho detto con un gran sorriso: arrivo presto; e mentre camminavo lungo la strada verso il mio appartamento mi sono sentita bene, come soddisfatta, quasi allegra, forse anche per la bella giornata, ma più probabilmente della leggerezza che improvvisamente ho come provato nelle mie gambe. Non sono neppure passata davanti al negozio della mia amica per salutarla, come faccio quasi sempre, anche se avevo un po’ voglia di raccontarle qualcosa di questo Andrea e delle sue maniere gentili, perché in fondo mi sono detta che devo imparare a tenere almeno qualcosa soltanto per me.
Mi pare che tutto giri meglio quando sono distante da casa, come se le mie cose più vere esistessero soltanto fuori dalle mura domestiche, lontano dalla mia famiglia, anche se questo è un pensiero assurdo e segreto che neppure io potrò mai accettare davvero. Però i piccoli elementi importanti che formano in genere la mia giornata spesso si svolgono fuori dal mio appartamento, ed anche se quello che faccio è tutto proteso verso il mio nucleo familiare, comunque sia mi ritrovo certe volte a desiderare una vita diversa, qualcosa che non sia soffocato soltanto da comportamenti ordinari e dalle normali abitudini.
Forse Andrea ha compreso perfettamente almeno qualcuna delle mie difficoltà: magari mi ha guardato in certe occasioni senza essere visto mentre svolgevo i soliti conteggi sulla calcolatrice, e forse in quei casi il mio sguardo gli è parso un po’ troppo triste, piegato su quotidianità senza sbocchi. Vorrei parlare con lui qualche volta, penso adesso tanto per elencare tutte le possibilità che ancora riesco a mettere insieme, anche se poi realmente è probabile che non lo farò mai. Sono qui, vorrei dirgli, mi piacerebbe tanto avere ancora un caffè, ma le mie ali non riescono più a sostenere il mio corpo per il volo che vorrei tanto spiccare. Arranco forse, cerco di farmi piacere qualcosa che probabilmente non è più di mio gusto, magari soltanto perché non so neppure più riconoscere che cosa sia che mi piaceva davvero fin all’inizio. Poi riprendo gradualmente il corso delle mie attività; come sempre.


Bruno Magnolfi

mercoledì 11 ottobre 2017

Allievo del saggio.

            

All’uscita dalla scuola torno verso casa passando quasi sempre dalla medesima strada. Generalmente non trovo motivo di alcuna fretta, così mi guardo attorno con calma, osservo gli altri nei loro affari e mi immedesimo praticamente in un qualsiasi viaggiatore con indosso lo zaino, mentre a volte mi perdo a contare i miei passi lungo il marciapiede. Non accade niente di particolare dentro di me o intorno a me, niente che comunque rivesta una qualche importanza: le macchine che transitano scivolano lungo la strada, i passanti camminano tutti verso le loro destinazioni. Eppure io mi sento bene ad osservare le piccole cose che incontro, e mi pare in questo modo di imparare sempre qualcosa, forse anche più di quello che mi hanno appena insegnato dentro la scuola. Ma è soltanto quando arrivo in prossimità della palazzina dove abito con i miei genitori che sento un senso di vuoto che mi prende.
Sono più grande di quello che dimostro, mi sento diverso dai miei compagni che continuano fuori e dentro la scuola a giocare come dei bambini, e poi ridono, scherzano, parlano delle cose più stupide, cosa che a me al contrario non capita quasi mai: respiro la mia giornata come cercando di comprenderne il senso, osservo i gesti di tutti cercandone i motivi scatenanti, mi ritrovo a fissare dei particolari per scoprirne le funzioni, tutto perché in fondo nient’altro mi interessa davvero. Ho soltanto sedici anni, lo so bene, ma le mie letture di questi ultimi tempi mi hanno portato già molto lontano, perché fin da subito ho compreso che dentro ai libri migliori ci stava già tanto, quasi tutto ciò che volevo davvero sapere.
Mi fermo prima di giungere al portone che immette al mio condominio, e soffermandomi a cercare qualcosa dentro lo zaino rifletto su quanto anche oggi sono riuscito a mettere a punto. Penso che ognuno debba tentare di essere così come si sente, e non accettare mai alcuna finzione. Incontro un vicino di casa, una persona che vedo da sempre, un uomo anziano che trascorre le giornate nei dintorni della sua abitazione, salutando tutti con gli occhi piccoli e ridenti infossati dentro le rughe, nel mezzo a una faccia piena di storia, mostrando sempre uno spirito che nonostante l’età più che avanzata ancora lo illumina. Mi piace questo vecchio, lo trovo sincero, l’ho già disegnato chissà quante volte senza mai troppo cercarne con il disegno soltanto una banale somiglianza apprezzabile. Mi piace la figura che esprime, la sua presenza, le tante cose di cui forse se avesse più voglia e più fiato potrebbe parlare. Mi piace che sia qui, come a guardia di tutto se stesso, dei suoi anni trascorsi ad accumulare esperienze e ricordi. Sarò come lui, prima o dopo, un saggio che osserva, e che forse proprio per questo comprende davvero le cose.
Infine entro in casa: c’è la mia mamma che aspetta, e forse nel pomeriggio quello che ho visto attraverso il mio punto di vista sarà guida della fedele matita su un foglio di carta: non è importante in se stesso questo mio disegnare, forse non avranno mai troppo valore questi fogli pieni di segni che accumulo: è la mia ricerca il fatto essenziale, il mio tentativo di dare una veste a tutto quello che sento.


Bruno Magnolfi

martedì 3 ottobre 2017

Dimenticare domenica.

            

Qualcosa dovrà pur succedere penso, le cose non possono certo proseguire per sempre in questa maniera. Mi sento nervoso quando rientro a casa la sera, non posso certo fingere di essere in un altro modo. Soprattutto mi disturba ritrovare appena arrivato tutte le cose nella stessa esatta maniera di come le ho lasciate, come se i giorni che si susseguono fossero identici, come se per avere salva la vita si dovesse sempre e solo lasciarla nelle mani di una monotonia spesso del tutto insopportabile. Saluto i miei familiari, tolgo la giacca, vado in bagno, poi indosso vestiti e scarpe più comode, e spargo senza impegno qualche domanda tanto per sapere se ci siano delle piccole novità, anche se infine mi siedo davanti alle notizie della televisione, per cercare ancora un collegamento con la realtà che c’è fuori, pur senza neanche provare un vero interesse, e proseguendo comunque anche in questa maniera ad alleviare la situazione che sto respirando.
Forse tutti quanti viviamo questa medesima situazione penso, probabilmente dobbiamo soltanto assuefarci di più a quanto normalmente ci capita, senza mettere in mezzo un vero contrasto, anche se risulta difficile, anche se è complicato cercare di essere soddisfatti e tranquilli quando le cose non ci piacciono affatto. Naturalmente preferisco non pensare mai a queste cose, e così lascio che il tempo da trascorrere con la mia famiglia sia il più possibile vuoto di cose comuni, anche se sono contento di dare un senso con la mia presenza alle stanze di casa.
Mia moglie è molto pacata, sorride ma senza mai ridere veramente; è gentile, si vede che ci tiene molto alle persone che la circondano, anche se non riesce ad avere un vero scatto di entusiasmo per qualcosa che magari facciamo o che ci proponiamo di fare, così ogni argomento sembra sempre senza spina dorsale, e tutto ciò di cui ho voglia di parlare quando sono in casa diventa un elemento quasi banale, privo di un qualche interesse. Corrado, mi dice con la sua voce tranquilla; tu hai fatto esattamente quello che dovevi fare. Ed anche quando racconto che spesso al lavoro monto di nervi per le uscite stravaganti del mio capoufficio, lei non prende mai una vera posizione, lasciando che tutto rientri in un alveo di normalità.  
Mio figlio si chiama Francesco, e non fa mai altro che guardare verso il basso o da un’altra parte, come se non fosse per nulla interessato a ciò che lo circonda. Gli dico certe volte che le cose importanti sono là fuori, che lui dovrebbe avere più amici, cercare di uscire, inserirsi in qualche compagnia dove fanno davvero qualcosa, ma lui pare non ascoltarmi, e tutto quello che si limita a fare, anche da quanto mi dice mia moglie, è starsene nella sua cameretta a leggere libri, a studiare, o a perdere tempo da solo. Ho anche provato a portarlo con me, ad assistere a qualche partita o in qualche locale per vedere come se la sbriga con gli altri, ma mi sono reso conto che non sembra mai interessato da niente, e che diventa immediatamente come un ingombro che si fa trascinare da una parte a quell’altra senza dire se gli va bene oppure no.
Per questo per me la domenica è il giorno più buio della settimana: un vuoto completo da provare a riempire in qualche modo con qualcosa che normalmente mi sfugge, uno stupido giorno da far passare il più in fretta possibile, facendo anche in maniera in qualsiasi caso di dimenticarlo velocemente, proprio come se non fosse neppure arrivato.


Bruno Magnolfi