mercoledì 28 marzo 2018

Semplici variabili.




Tutti proseguono più o meno a sostenere che io adesso dovrei assolutamente uscire da qui, anche perché secondo loro non ci sarebbe proprio niente di cui preoccuparsi, anche se io pur limitandomi ad ascoltare in silenzio quelle loro voci che neppure mi giungono in modo molto rassicurante, resto comunque fermo dietro alla porta serrata di questo spogliatoio in cui mi sono volontariamente venuto a rinchiudere, e dove cerco in qualche modo di prepararmi per mettere insieme tutti i pensieri che potrebbero tra non molto tornarmi necessari. Devo sostenere un esame, devo affrontare una serie di quesiti, devo anche fidarmi di chi fra non molto vorrà sapere praticamente tutto di me, della mia preparazione, come minimo, dei miei modi generali di essere e di mostrarmi con gli altri. Ma io non mi sento del tutto pronto, questo è il punto: non ritengo proprio di essere all’altezza di quello che tutti tra un attimo vorrebbero sapere da me.
Scopro improvvisamente, guardando il piccolo specchio appeso sul muro, che la mia faccia appare incomprensibilmente come imbrattata qua e là in un modo casuale da una specie di densa vernice bianca, e se questo da un lato mi sembra oltremodo strano, dall’altro non riesco neppure a rendermi conto del motivo per cui io la veda così, considerando peraltro che quel viso che adesso mi appare sotto questa pomata non sembra neppure essere il mio. Apro una valigetta rigida in cui ho rinchiuso ultimamente parecchie delle mie cose, ma scopro soltanto adesso che ogni oggetto di uso comune che ho sistemato là dentro, a cui magari mi sento legato in varie maniere e per diversi motivi, da ora in avanti mi sarà probabilmente del tutto inutile.
Qualcuno bussa ancora alla porta spiegando con due parole che oramai mancano soltanto pochi minuti all’inizio, ed io allora mi alzo subito in piedi sollevandomi dallo sgabello su cui sono rimasto seduto forse per un tempo persino troppo lungo. O prima o dopo dovrò uscire da qui penso, le uniche variabili che mi sembra da prendere in considerazione è che io abbia davvero voglia di affrontare questo benedetto esame oppure no. Prendo ancora un po’ di tempo come fermando qualsiasi riflessione, infine faccio scattare l’apertura della porta, gli altri sembrano tutti improvvisamente acquietati, e nessuno di loro in quell’attimo fa girare per primo la maniglia. Lancio un’ultima occhiata allo specchio che mi osserva dallo spogliatoio, e mi accorgo con un certo piacere che le chiazze di bianco sono praticamente sparite, e che la metamorfosi della mia faccia in sostanza è già completamente avvenuta.
Esco, qualcuno mi guarda con meraviglia e forse anche con qualche sospetto, ma io percorro risoluto tutto il corridoio e mi presento immediatamente alle autorità che trovo sedute come immaginavo al loro tavolo. Nessuno dei presenti ha niente da dirmi, ognuno di loro osserva con attenzione solo le carte che si trova davanti, e dopo qualche preliminare l’esame può pure iniziare. Va tutto bene penso, mentre cerco di concentrarmi per rispondere alle loro domande; ma la parte essenziale dell'esame mostra delle difficoltà sostanzialmente a portata di mano, gli argomenti sono piuttosto semplici, ne riconosco immediatamente i fondamenti, sono del tutto superabili, non mi pare ci siano grossi problemi: probabilmente in questa fase posso proseguire ad essere una persona, riuscirò rapidamente a voltare anche questa pagina penso, ed in breve tempo diverrà facilmente tutto più tranquillo e disteso, esattamente come volevo fin dall’inizio.

Bruno Magnolfi

martedì 20 marzo 2018

Maschera vera.


           
            Fermo, sotto ad una pioggia leggera ed invischiante, proprio identica a quella che sta venendo giù insistentemente negli ultimi giorni, sotto ad una giacca forse persino troppo larga, che in ogni caso a quell’epoca non era affatto della sua taglia, con l’espressione come sempre enigmatica, senza alcuna definizione di stato d’animo, lui mi appare davanti ancora una volta, appena provo a lasciare la mente andarsene dietro ai ricordi e ai pensieri senza controllo. Ecco, questo è tutto ciò che rimane di maggiormente importante di quel periodo estremamente confuso, forse proprio come deve essere il groviglio convulso della giovinezza, quel momento zeppo di idee e di voglie che molto probabilmente in seguito non troveranno una vera risoluzione.
            Dicevo dentro di me: si deve pur trovare una maniera, anche se erano soltanto parole a cui nessuno avrebbe mai davvero creduto, forse neppure io. Eppure si andava avanti, si cercava davvero di fare, di mettere insieme i pensieri, di dargli uno spiraglio di verità, disegnando i progetti sul niente, perché sapevamo che li avremmo comunque tenuti sempre in memoria, e non ci sarebbe stato bisogno di altro per renderli veri. Via, via da qui, da queste cose inutili che ci sbarrano soltanto la strada, che ci rendono simili a chi non ci piace, a chi ci vorrebbe costringere ad essere soltanto identici a loro: mummie di idee e di necessità, che invece noi volevamo vive, libere, forti del nostro semplice sentirsi forti, senza bisogno di altro. 
Tu c’eri sempre, eri con me, davanti, alle mie spalle, intorno ai pensieri ed ai sogni da cui mi sentivo coronata. Imperfetto, certo, da migliorare, da cambiare completamente forse, però lì, come un mito da rincorrere senza avere più fiato. Poi fu sufficiente uno scossone; neppure: una semplice incomprensione, una superficialità lasciata senza spiegazioni, quasi per un moto di opinioni date come scontate, di pareri buttati nel mezzo e poi sostenuti ma quasi per semplice indolenza. Quel piccolo pertugio che si fece appena in un attimo più grande, fino a diventare un vero allontanamento, qualcosa che non avremmo mai creduto possibile fino a pochi giorni più addietro. Forse allora tu mi cercasti, ma sicuramente sbagliando i tempi; ed io a mia volta forse ti cercai, ma lo feci inevitabilmente nel momento sbagliato.
Una semplice nuvola di vapore di tutte le cose non dette e non fatte, e poi via, verso argomenti senz’altro più radicati nei nostri rispettivi retroterra, senza quei voli pindarici che in seguito abbiamo dovuto separatamente ridurre a stupide sciocchezze di gioventù, che non avrebbero proprio portato mai da alcuna parte, che non ci avrebbero permesso mai di trovare davvero la strada, che non sarebbero stati mai in nessun caso gli spiriti guida a cui affidare, dopo appena una porzione di tempo, le nostre vere esistenze.
Ed adesso eccoti lì, che fa forte impressione saperti navigato in chissà quali mari in tempesta, con la tua espressione rimasta esattamente la stessa, ed una faccia da schiaffi che non potrebbe essere stata mai, per tutto questo tempo e per tutti i problemi che il nostro separato percorso abbia certo dovuto affrontare, qualcosa di diverso da quella che eri riuscito a costruire sopra al tuo viso: una maschera vera, meravigliosa.

Bruno Magnolfi

domenica 18 marzo 2018

Medicina mentale.




Certe volte mi sento proprio stanco della monotonia di queste giornate che mi appaiono tutte così simili l’una all’altra da non riuscire a tenerne a mente neppure una. Le cose da fare per la mia figura professionale sono sempre all’incirca le medesime, non c’è mai alcuna possibilità di poter sbagliare: farsi trovare da qualsiasi paziente arrivi concentrato ma in assoluta tranquillità di fronte all’elaboratore elettronico dentro allo studio medico asettico e attrezzato, lasciare che una delle infermiere con i guanti in lattice, dopo aver verificato tutti i dati e la prenotazione, lo inviti a stendersi sopra al lettino coperto di carta opportunamente sistemata, e poi attendere per qualche attimo che vengano svolti tutti i preliminari dell’esame, spiegare a lei qualche ulteriore indicazione sulle poche differenze che si possono trovare dentro ai fogli che consulto stampati dai colleghi, ed infine avviare il programma elettronico del macchinario, tanto da dovermi alzare finalmente da dietro la mia scrivania e passare alle solite domande di rito dirette all’ammalato, contemporaneamente a dei minimi palpeggiamenti doverosi sul suo ordinario corpo teso. Certo che i pazienti sono sostanzialmente tutti diversi uno dall’altro, qualcuno estremamente timoroso, altri al contrario strafottenti, e poi c'è anche chi mostrando qualche pregressa patologia si fa forte delle proprie piccole esperienze, mostrando di averne passate talmente tante da snobbare tutto ciò che sta avvenendo e non meravigliandosi ulteriormente più di nulla.
Mi annoio, questo è il punto, pur sapendo perfettamente che sto aiutando magari decine di persone a non morire, o ad alleviare notevolmente quei loro dolori che spesso tutti dicono di avvertire, o anche mitigare soltanto le generali sofferenze di cui parlano, trovando spesso soluzioni rapide ed efficaci per indicare le cure più opportune da iniziare subito dopo questi miei diretti esami clinici. Poi però arriva questo tizio, sembra in sostanza uno qualsiasi, però si vede subito che sta proprio nei guai, che la sua situazione sanitaria non è neppure la cosa più antipatica che lui sta aspettandosi dal suo presente. C'è altro dietro al suo sguardo, si avverte in concreto persino nel rispondere a me solamente a monosillabi, e poi si vede immediatamente dopo, mentre evidenzia quanto non abbia quasi alcuna fiducia in colui che in questo momento si sta trovando proprio di fronte, manifestandogli in sostanza una completa indifferenza, perché probabilmente vorrebbe soltanto essere oltre, dimenticare in fretta tutto quanto, lasciarsi alle spalle questi anonimi camici bianchi che vede camminare in giro, ed avere in fretta un’altra buona possibilità per tirarsi fuori da tutto, dai suoi guai, probabilmente, o anche dal suo corpo che desidera tanto sanificare, e forse ritrovarsi all’improvviso senza avere più nessuno tra tutti quei problemi che lo assillano in questa sua ultima fase.
Scrivo svelto una diagnosi mentre mi rimetto dietro all’elaboratore: lui si riveste, Renai si chiama, ed anche se adesso appare così sfuggente, mi sembra di conoscere il tipo di persona, perciò svolgo soltanto questo mio ruolo stampando i codici risultati dalle macchine, ed elargisco ai fogli una sola semplice occhiata, poi vado ad infilarli dentro alla busta di colore giallo. Arrivederci, dico, anche la nostra conoscenza finisce adesso; avanti il prossimo.

Bruno Magnolfi

sabato 10 marzo 2018

Battaglie perse.

           

            Mi sento solo mentre cammino lentamente verso casa, una volta terminate tutte le ore di lezione. Dietro di me sento ancora gli strepiti e le urla di tutti i compagni che ci vengono a studiare in questa scuola, e poi le loro risate nei corridoi, le parole forti, i discorsi fatti senza avere praticamente nessun senso, le loro argomentazioni certe volte buttate là come delle semplici provocazioni, o come certi possibili elementi di riappropriazione o di evidenza delle proprie diverse individualità. Tutto chiaro, tutto comprensibile. Percorro a piedi quasi sempre la stessa via quando esco da là dentro per tornare a casa, salvo ogni tanto girare per qualche strada alternativa, giusto per non sentirmi costretto lungo quel medesimo solito solco. Non ritengo di dover affrontare nessuna fase particolare del mio percorso da ora fino alle prossime settimane, nessun passaggio in cui magari dover esercitare tutta la mia capacità di comprensione e anche di analisi della realtà, eppure mi sento teso, sono proprio nervoso, come se qualcosa di incomprensibile stesse veramente per accadere, o come se io stesso all’improvviso fossi chiamato a prendere importanti decisioni.
           Sono diversi giorni che non esco con Cinzia, e non per un motivo preciso, ma soltanto per semplice indolenza, per la mia incapacità di essere propositivo, e qualcuno mi è persino venuto a dire, senza che avessi chiesto niente, che lei sta uscendo con alcuni amici suoi che io neanche conosco, nonostante tutto questo in fondo non abbia per me alcuna importanza, perché alla fine io e lei che pur siamo solidali su tante cose, ci sentiamo anche delle persone differenti, e non posso certo pretendere che il mio semplice sentire quotidiano sia adesso in qualche modo assimilabile a quella sua evidente sensibilità da imprendibile estroversa. E poi io sono sempre stato solo, inutile illudermi che la mia personalità possa cambiare in questo momento soltanto perché sono suo conoscente. Se fino a poco tempo fa riuscivo ad avere al massimo soltanto qualche scambio di opinione con la mamma, per esempio, adesso è venuto meno persino questo aspetto, e mi sento lontano anche da lei, dai suoi problemi, dai suoi modi sempre più nervosi di comportarsi verso di me.
Nel pomeriggio credo che mi rintanerò come sempre nella mia piccola stanza, a leggere, a studiare, forse a portare avanti qualche disegno, e tutt’al più a pensare alle mie cose, proprio come fossero le più importanti tra tutte quelle che mi passano vicino. Certe volte vorrei proprio perdermi tra gli altri, avere la capacità di dimenticare queste mie solite fissazioni, inventarmi quei gesti che maggiormente mi procurano piacere, come gli scorci di realtà che ho sempre voglia di definire sulla carta sotto forma di ritratto, e lasciarmi andare a quello che a tutti quanti darebbe sicuramente maggior soddisfazione, come fossi esattamente uno di loro, cioè un ragazzo qualsiasi, uno che abita la casa di una famiglia come tante, senza alcuna vera differenza.
Forse oggi pomeriggio potrei andare in biblioteca, a studiare per un po’ su quei larghi tavoli in mezzo a tutte le altre persone che normalmente la frequentano, e poi magari fermarmi qualche minuto nell’ingresso, ad ascoltare cosa si dice in giro tra i ragazzi che sono già degli universitari, per comprendere quali siano davvero gli argomenti forti in questo periodo che a me pare sempre più confuso. Potrei telefonare a Cinzia magari, e chiederle senza mezzi termini di mollare tutti i suoi stupidi amici del momento e di raggiungermi, come per uno slancio di rinnovati sentimenti l’una verso l’altro, e viceversa. Sorrido tra me mentre continuo a camminare: sicuramente non farò niente del genere, è più che evidente, ed il mio almeno per oggi sarà un normalissimo rimetterci tutto di persona, come perdere una qualsiasi battaglia senza neppure tentare di difendersi. Cambierò comunque, uno di questi giorni, ne sono già sicuro.

Bruno Magnolfi


mercoledì 7 marzo 2018

Urlo attenuato.




Più tardi devo per forza recarmi dal medico. Questo dolore continua ad andare e tornare, poi si calma, si fa risentire, e quando vuole si acuisce fortissimo e mi lascia quasi senza respiro. Mi sono rigirato nel letto mille volte tentando di prendere sonno, ma è stato inutile e stupido. Non posso certo andare in ufficio. Stamani giro per casa in pigiama cercando un luogo o una posizione che possa alleviare questa buia sofferenza, ma sono stremato, mi sento del tutto privo della possibilità di fare qualsiasi cosa abbia voglia. Mi rannicchio su di una poltrona, stringo forte le ginocchia contro di me, le tengo con le braccia e le mani, vorrei anche urlare per sfogo, ma voglio evitare di attirare l’attenzione del vicinato. Ho la fronte sudata, vorrei avere qualcosa davanti capace di prendere su di sé almeno una parte della mia attenzione, in modo da passare suppergiù almeno qualche minuto senza il pensiero continuo di questa piccola parte del corpo che sta combattendo con forza col resto, di questo grumo di aghi che sento all’interno di me mentre proseguono a torturarmi simultaneamente procurandomi un continuo ed insopportabile dolore, leggero forse, ma tremendamente sottile e costante.
Mi alzo, sbatto un pugno sul muro cercando come di provare una sofferenza diversa, poi mi riverso sul letto. Mi vesto, o almeno cerco di vestirmi approfittando dei brevi momenti in cui l’infido male si attenua; infine esco, chiudo la porta dell’ appartamento alle mie spalle e poi resto lì, sul pianerottolo, cercando di comprendere se possa riuscire con le poche forze che mi ritrovo, a raggiungere l’ambulatorio del medico, oppure se dovrò ad un certo punto chiedere aiuto a qualcuno, magari proprio lungo la strada. Scendo le scale con estrema cautela, i miei dolori paiono in una fase piuttosto attenuata, poi esco, respiro l’aria fresca e piacevole, guardo tutto quanto ciò che c'è attorno e d’improvviso sento le cose quasi sfuggirmi di mano, come se fossero queste le ultime volte in cui possa riuscire a godere persino di un pomeriggio qualsiasi.
Faccio dei piccoli passi, mi fermo guardando le vetrine di questi negozi, riprendo a camminare quasi senza espressioni sul viso, cerco di tenere le mani dentro le tasche, di dare un andamento naturale al mio corpo martoriato da questo invischiante dolore, che in questo momento non è poi così forte, però mostra con costanza la sua presenza, lasciando che ancora ne avverta una coda forse leggera, ma persistente. Poi sono all’ambulatorio. Entro, ci sono due o tre persone che attendono, parlo con l’infermiera e mi viene spontanea una smorfia di dolore. La donna si alza dal suo piccolo scrittoio, mi prende per un braccio, mi fa sedere, poi va a parlare col medico, dentro lo studio che intravedo dallo spiraglio della porta socchiusa. Trascorrono così cinque minuti, gli altri presenti mi guardano, un paziente esce dallo studio ed il medico dietro di lui si fa sulla porta, mi invita subito ad entrare, e appena dentro mi lascia sdraiare sopra al lettino. Mi guarda, mi tocca, mi chiede, saggia, ausculta, usa gli strumenti che ha lì disponibili, poi alza il telefono, chiede qualcosa a qualcuno, mi fissa degli appuntamenti, dice che il mio caso sembra essere urgente, poi scrive sul suo taccuino per le ricette una serie di farmaci da prendere iniziando da subito, o almeno al più presto possibile. Quando esco da lì con i fogli dentro la tasca sento di stare già meglio. Più tardi poi tutto si attenua.

Bruno Magnolfi