mercoledì 7 marzo 2018

Urlo attenuato.




Più tardi devo per forza recarmi dal medico. Questo dolore continua ad andare e tornare, poi si calma, si fa risentire, e quando vuole si acuisce fortissimo e mi lascia quasi senza respiro. Mi sono rigirato nel letto mille volte tentando di prendere sonno, ma è stato inutile e stupido. Non posso certo andare in ufficio. Stamani giro per casa in pigiama cercando un luogo o una posizione che possa alleviare questa buia sofferenza, ma sono stremato, mi sento del tutto privo della possibilità di fare qualsiasi cosa abbia voglia. Mi rannicchio su di una poltrona, stringo forte le ginocchia contro di me, le tengo con le braccia e le mani, vorrei anche urlare per sfogo, ma voglio evitare di attirare l’attenzione del vicinato. Ho la fronte sudata, vorrei avere qualcosa davanti capace di prendere su di sé almeno una parte della mia attenzione, in modo da passare suppergiù almeno qualche minuto senza il pensiero continuo di questa piccola parte del corpo che sta combattendo con forza col resto, di questo grumo di aghi che sento all’interno di me mentre proseguono a torturarmi simultaneamente procurandomi un continuo ed insopportabile dolore, leggero forse, ma tremendamente sottile e costante.
Mi alzo, sbatto un pugno sul muro cercando come di provare una sofferenza diversa, poi mi riverso sul letto. Mi vesto, o almeno cerco di vestirmi approfittando dei brevi momenti in cui l’infido male si attenua; infine esco, chiudo la porta dell’ appartamento alle mie spalle e poi resto lì, sul pianerottolo, cercando di comprendere se possa riuscire con le poche forze che mi ritrovo, a raggiungere l’ambulatorio del medico, oppure se dovrò ad un certo punto chiedere aiuto a qualcuno, magari proprio lungo la strada. Scendo le scale con estrema cautela, i miei dolori paiono in una fase piuttosto attenuata, poi esco, respiro l’aria fresca e piacevole, guardo tutto quanto ciò che c'è attorno e d’improvviso sento le cose quasi sfuggirmi di mano, come se fossero queste le ultime volte in cui possa riuscire a godere persino di un pomeriggio qualsiasi.
Faccio dei piccoli passi, mi fermo guardando le vetrine di questi negozi, riprendo a camminare quasi senza espressioni sul viso, cerco di tenere le mani dentro le tasche, di dare un andamento naturale al mio corpo martoriato da questo invischiante dolore, che in questo momento non è poi così forte, però mostra con costanza la sua presenza, lasciando che ancora ne avverta una coda forse leggera, ma persistente. Poi sono all’ambulatorio. Entro, ci sono due o tre persone che attendono, parlo con l’infermiera e mi viene spontanea una smorfia di dolore. La donna si alza dal suo piccolo scrittoio, mi prende per un braccio, mi fa sedere, poi va a parlare col medico, dentro lo studio che intravedo dallo spiraglio della porta socchiusa. Trascorrono così cinque minuti, gli altri presenti mi guardano, un paziente esce dallo studio ed il medico dietro di lui si fa sulla porta, mi invita subito ad entrare, e appena dentro mi lascia sdraiare sopra al lettino. Mi guarda, mi tocca, mi chiede, saggia, ausculta, usa gli strumenti che ha lì disponibili, poi alza il telefono, chiede qualcosa a qualcuno, mi fissa degli appuntamenti, dice che il mio caso sembra essere urgente, poi scrive sul suo taccuino per le ricette una serie di farmaci da prendere iniziando da subito, o almeno al più presto possibile. Quando esco da lì con i fogli dentro la tasca sento di stare già meglio. Più tardi poi tutto si attenua.

Bruno Magnolfi

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