venerdì 13 luglio 2018

Basta così.



Resto quasi imbambolato, quando a volte rifletto su quello che davvero vorrei fare. Occuparmi di persone deboli, dedicarmi agli anziani, a chi soffre, a tutti coloro che hanno bisogno di un po’ d’aiuto. Ecco, questa sarebbe la mia missione, il mio proposito di fondo, anche se poi ci sono intorno a me tante variabili che tentano continuamente di distogliermi da questi miei proponimenti.
Hai sempre la testa tra le nuvole, mi dicono ridendo certi amici qualche volta. Li lascio perdere, in fondo è vero quello che dicono: sono un tipo riflessivo, uno che cerca in ogni occasione la cosa migliore da fare, indipendentemente da quello che possono pensare tutti gli altri. Mi perdo spesso quando penso a ciò di cui potrei davvero occuparmi, ritrovandomi generalmente a non fare quasi nulla rispetto a tutto quello che ho cercato di mettere a punto.
Invidio profondamente chi riesce in un momento ad applicare alla realtà i propri pensieri; a me sfugge tutto di mano, anche se sono sicuro che le mie idee siano migliori di tante altre. Mi guardo attorno, medito la cosa più giusta da fare, poi mi richiudo quasi sempre nella mia intimità. Vieni con noi a divertirti un po’, dicono gli amici. Ed io vado con loro anche se continuano per tutto il tempo a prendermi in giro pur bonariamente. Loro hanno le ragazze, io invece no, non mi sento fatto per queste cose, preferisco sentir ridere gli altri attorno a me, e magari starmene tranquillo in un angolo, in perfetta solitudine.
Quando rientro a casa mia madre mi chiede sempre dove sia andato. A trovare gli ammalati in ospedale, le dico in certi casi anche se non è vero. Qualche volta ci sono andato sul serio, ma qualcuno di loro mentre mi avvicinavo ai letti mi chiedeva se per caso fossi un prete o qualcosa di quel genere, e questo a me un po’ dispiaceva. Perché non riesco a capire come non si possa lasciare che una persona qualsiasi si occupi degli altri, cerchi di portare compagnia, di dire a tutti una parola di incoraggiamento. Si può parlare, confidarsi, sentirsi meglio quando abbiamo intorno un po’ di compagnia.
Mia madre annuisce, lei è contenta che io faccia queste cose, e qualche volta andiamo insieme ad un centro anziani qua vicino. Si gioca a carte con loro, si parla del più e del meno, e tutti dicono a mia madre che ha proprio un bel ragazzo, ma che non dovrebbe portarlo in un posto come quello. Io li lascio dire, tanto so bene che sono discorsi fatti tanto per riempire i vuoti, perché a me piace stare al centro insieme a tutti quegli anziani. Quando veniamo via mia madre dice che dovrei pensare un poco a me, magari al mio futuro. Lo so, le dico, ci penso continuamente. Però in fondo sono contento: mi dedico agli altri qualche volta, non quanto vorrei fare, ma almeno un pochino, così nessuno può dire che non ho fatto niente. Perché la cosa peggiore, penso, è fregarsene di tutti, e ancora peggio incitare gli altri ad adottare il medesimo comportamento. Lo so che il mondo gira in questo modo oggigiorno, ma per me non ha alcuna importanza: non voglio certo cambiare il mio modo di essere, specialmente se per farlo devo allinearmi a quanto dicono sempre tutti gli altri. Sono fatto così, e dopo basta.


Bruno Magnolfi    

lunedì 2 luglio 2018

Rospi.



Non c'è nient’altro oltre questa stupida fila di baracche, dico al giornalista. Soltanto dei campi che sono stati abbandonati oramai da diversi decenni, e che nessuno tra coloro che abitano qua attorno ha avuto più la volontà di coltivare. Certe sere, una volta finito di mangiare, esco di casa con in mano una torcia, e faccio un giro tra i fossi e tra tutte le erbacce secche e polverose che odorano di paglia e spazzatura, tanto per rendermi conto una volta di più del silenzio che persiste in tutta questa zona, e anche del niente che sembra persino abbondare da queste parti. Quando rientro poi cerco sempre di serrare bene questa porta pur precaria com'è, poi a volte metto anche dei pannelli di lamiera alle finestre, ed infine cerco di dimenticare che là fuori prosegue ad esserci davvero tutto quel nulla che ho veduto poco prima.
Ci si affeziona a tutto, dice mia moglie qualche volta, forse anche per dare a me e a lei un certo incoraggiamento, ma io so che questo non è certo quello che fino a qualche anno fa avrei voluto per noi due. Stare al margine di qualcosa può essere sicuramente possibile se conservi la invidiabile capacità di non pensarci. Noi però in questo momento non possiamo proprio permetterci qualcosa d’altro. Prendo la mia bicicletta scassata ogni mattina, e già alle prime luci dell’alba faccio rotta verso quei palazzoni che si vedono laggiù sul fondo, dove inizia la città delle persone, quella in cui si riesce ancora a ridere e a sentirsi magari degli individui.  
Non me ne importa niente di quello che gli altri possono pensare di me, dico ancora al giornalista, io devo sopravvivere, è un mio istinto naturale, non posso lasciare che le mie attitudini vengano sopraffatte da una spossatezza che non può portare mai da alcuna parte. La sera con la mia torcia guardo i rospi che attraversano i viottoli di questo posto infame, e certe volte ne seguo anche i percorsi, come se mi portassero magari a scoprire qualcosa che al momento neanche posso supporre. Non ho bisogno di descrivere proprio niente della mia giornata, è tutto già definito nel concetto fondante degli ultimi del mondo, quelli che possono solo migliorare se mai un piccolo colpo di fortuna li aiutasse.
Per questo continuo a rovistare per delle ore dentro i cassonetti della spazzatura, e quando mi va con la mia bicicletta arrivo fino alla discarica a cielo aperto verso l’autostrada, per guardare anche lì in mezzo a tutto se mai ci fosse qualcosa di prezioso gettato via da chi magari ha persino troppo per potersi ricordare di gestirlo con un’attenzione più efficace. Cerco il ferro, il rame, qualche oggetto da recuperare, ma quando poi torno alla mia baracca invidio i rospi sul viottolo che non hanno i miei problemi, e non hanno certo bisogno di molto per tirare avanti. Lo può scrivere, dico al giornalista: quella delle persone come me è soltanto una sfortuna maledetta, una combinazione scalognata come quella di essere nati dalla parte sbagliata tra tutte quante le persone, anche se alla fine non voglio neppure lamentarmi; si fa l’abitudine anche alla miseria, dico ancora, e forse è quasi meglio che sia capitata ad un individuo come me, piuttosto cha a qualcuno con minori capacità di adattamento. Perché di un colpo di sfortuna come il mio si può perfino scoppiare qualche volta, e lasciar scritto poi che era impossibile vivere come i rospi.   


Bruno Magnolfi