martedì 31 dicembre 2019

Incertezze permanenti.


          

            Non saprei. Difficile scegliere qualcosa se non sei abituato. Così resto perplesso, e ogni giorno vado avanti soltanto per abitudini, mantenendo una stretta monotonia nei comportamenti, generalmente disinteressandomi di tutto quello che non conosco, e frequentando sempre le medesime persone. Ho un fratello che vive con la sua famiglia poco lontano dalle mie due stanze scalcinate in affitto, così una volta o due alla settimana vado da lui a pranzo o all’ora di cena, per mangiare con loro qualcosa di buono che in genere prepara sua moglie, perché normalmente, da solo come sono, non mi va di cucinare a casa mia, mettere in mezzo pentole e piatti, scegliere ingredienti e tutto quello che serve; preferisco acquistare un paio di panini imbottiti o dei tranci di pizza ad un bar poco lontano, e mangiarmi quelli davanti al televisore in funzione.
            Mio fratello mi impone di cambiarmi i vestiti per andare da lui: mettermi una camicia pulita dopo aver fatto una doccia e cose del genere, perché sa che per me torna facile lasciarmi un po’ andare, ed un paio di volte che mi sono presentato con l’alito di vino ed i vestiti un po’ trasandati, non ha avuto tentennamenti nel mandarmi via, senza neanche aggiungere troppe parole, perché forse non c’era proprio bisogno di spiegare un bel niente. Lo so che mi vuole bene, e vorrebbe che me ne volessi anche io, che mi curassi di più, che mi dessi un contegno; però da qualche anno io ho perso la fiducia nelle mie capacità, e così lascio spesso che tutto rotoli in avanti senza preoccuparmi di niente. Certe volte lui mi mette dentro una tasca anche qualche soldo, ma di nascosto a sua moglie, che al contrario mal mi sopporta e non vorrebbe che lui facesse così.  
            Ho un furgoncino a tre ruote, e con quello giro al mattino per tutte le zone dove fanno i mercati, recuperando tutti i pianali di legno che trovo, e quando faccio il pieno li porto in un posto poco lontano dove mi pagano sempre qualcosa, specialmente se la merce che scarico è ancora in uno stato accettabile. Tiro avanti in questa maniera, anche se non può durare in eterno questo modo di sopravvivere, e certe volte chiedo a qualcuno se abbia bisogno per caso di un lavoratore, anche se fare domande del genere mi costa moltissimo. Vorrei non pensare, per questo certe volte nella solita bettola alzo un po’ il gomito, perché così mi si annebbiano le idee e tutto sembra procedere per il verso giusto, tanto che anche la mia tristezza congenita in quelle serate scompare. Poi mi dispiace, perché dopo è anche peggio di prima, e penso a mio fratello che non vorrebbe mai vedermi così.
            Nel quartiere mi conoscono tutti, ma a parte qualcuno che si ferma qualche volta a parlare con me, il resto della gente si limita a salutarmi senza concedermi mai una gran confidenza, forse perché ho un aspetto un po’ minaccioso, penso io; o forse perché hanno pena di uno come me, che si trascina in questa maniera senza mai decidersi a niente. Già, perché in fondo il mio problema è proprio questo: decidere. Magari di andarmene via, imbarcarmi sopra una nave mercantile o andarmene all’estero; oppure di restare, ma cambiando vita, e forse accettare un aiuto concreto e sostanzioso da mio fratello, come certe volte mi ha ventilato, ed impegnarmi seriamente in qualcosa che mi possa davvero aprire il futuro. Però non è facile, e certe volte alla sera, quando mi basta sdraiarmi sul letto rigirandomi alla meglio in una coperta ancora vestito come mi trovo, per non dover fare i conti con le lenzuola e tutte le altre cose, mi ritrovo a chiudere gli occhi e a dormire soltanto per qualche minuto, perché poi inizio a pensare, e questi pensieri mi danno il tormento, paiono un’ossessione, proprio come qualcosa da cui vorrei in tutti i modi sfuggire; e l’angoscia qualche volta mi prende e mi porta lontano, fin dove finalmente non ho più bisogno di decidere, o di mettermi in ghingheri per stare con gli altri.   

            Bruno Magnolfi

martedì 24 dicembre 2019

Come gli altri.


     

            “Non mi sento bene”, dico a tutti i colleghi che in questo momento sembrano contenti di essere quasi arrivati alla fine dell’orario di lavoro. In quattro si voltano verso di me, mi scrutano, mi chiedono qualcosa, ed io intanto mi accascio leggermente sulla mia scrivania. Qualcuno mi solleva delicatamente la testa, gli altri si accostano e fanno delle domande, cercano probabilmente di capire se io sto solo scherzando o se davvero sono preda di un improvviso malessere. Mi rimetto a sedere in maniera composta: “adesso passa”, dico senza convinzione; “però vorrei andare in bagno a bagnarmi la faccia”. Mi aiutano, mi sorreggono, mi aprono la porta, poi mi lasciano solo davanti allo specchio del lavandino. Osservo riflessa di fronte a me un'espressione sinceramente assai sofferente, anche se non avverto particolari dolori in nessuna parte del corpo.
            Esco dal bagno, torno verso la mia scrivania, e i miei colleghi, forse per paura che dica chissà cosa, non mi pongono neppure delle domande, lasciando casomai che sia io a spiegarmi, sempre che abbia intenzione di dire loro qualcosa. Invece non dico niente, mi limito ad aprire un cassetto, guardare che cosa c’è dentro e poi chiedere un bicchiere d'acqua da bere. Qualcuno va a prenderlo nel corridoio, dove c’è una macchinetta per queste cose, poi torna, lo appoggia sul piano del tavolo, un altro mi chiede se forse sia il caso di telefonare a casa mia, magari per non andarmene via da solo al momento del termine dell'orario della giornata.
            "Provo un'uggia", dico come a me stesso; "qualcosa che mi lascia senza alcuna forza, anzi senza volontà, come se non mi fosse più possibile fare niente". Gli altri mi guardano con sopportazione, ripongono con metodo tutte le loro cose, poi, con i cartellini elettronici già pronti in mano, iniziano ad uscire. Per ultima una collega mi chiede se mi vada di scendere con lei in ascensore, magari per sorreggermi e per vedere se ce la faccio a tenermi in piedi e ad uscire da là. La ringrazio, impugno la mia borsa, mi lascio tenere sottobraccio fino in corridoio, poi mi fermo, le dico che non ha importanza, “adesso sto meglio; tu vai pure, io ti seguo tra cinque minuti”.
            Così torno a sedermi da solo mentre il palazzo di uffici si svuota. Vado con calma vicino ad una finestra ed osservo tutti quanti che si salutano mentre sono ormai sulla strada e si avviano verso le loro macchine o i mezzi pubblici. Potrei rovesciarmi sul pavimento e restare qui penso, almeno fino a quando il personale delle pulizie non arriva più tardi anche in questa stanza. Oppure potrei infilarmi in un armadio per i documenti, uno di quelli più grandi, e restare là dentro tutto il tempo che serve, almeno fino a quando il personale in divisa potrebbe venire a controllare il palazzo.
            Non ho più intenzione di essere ancora uno come tutti, trascorrere la giornata chino su queste scrivanie davanti ad un terminale elettronico, e poi tornarmene a casa compiendo lo stesso tragitto di sempre e trascorrere la serata come tutte le altre serate, esattamente uguali a quelle che trascorrono sicuramente tutti i miei colleghi. Ci deve essere un corto circuito da azionare penso, qualcosa che se viene messo in moto tutto comincia ad andare in un’altra maniera, una maniera che nessuno di noi avrebbe mai immaginato fino ad un attimo prima. Ho bisogno di uscire dal ruolo che svolgo, dalle azioni che compio, dalle cose di sempre, da tutto ciò che mi fa essere una persona qualsiasi, senza distinzioni di sorta. Devo pensarci molto seriamente, devo trovare una via d’uscita da questo tremendo percorso che a volte appare del tutto inarrestabile. Infine esco anch’io da questo palazzo di uffici, proprio come già hanno fatto gli altri.

            Bruno Magnolfi  

domenica 22 dicembre 2019

Argine a tutto.


         

            L'acqua che scorre in questo punto si vede subito che ha molta forza, anche se con questo buio serale di pioggia continua e sottile riesco soltanto a vedere l'onda schiumosa che forma il ruscello vicino alla strada, al margine della quale sto fermo in questo momento, senza provare nessuna particolare tensione. Conosco questo luogo, so perfettamente che più a valle il canale impetuoso si allarga, la corrente rallenta, la profondità tende subito a moltiplicarsi, e non ci sarebbe per me, o per chiunque cadesse nell'acqua da queste parti, nessuna possibilità di salvezza. Lasciarsi andare è solo questione di un attimo, la sensazione sgradevole dei vestiti che ti si bagnano addosso ed impediscono qualsiasi movimento, della corrente che ti trascina velocemente, e della lotta del tutto umanissima che l'istinto di sopravvivenza ti costringe a intraprendere, mentre provi ad intrattenere una impari lotta con la forza della natura.
            Posso sorridere pensando alla meccanica dei fluidi, alla sua complessità, ai gorghi che si formano per mille diversi motivi là in mezzo, ma alla fine rimane soltanto un piccolo passo, però di grande demarcazione, tra un prima ed un dopo. Potrei scivolare, camminando sul margine bagnato e fangoso, così da non prendermi direttamente alcuna responsabilità per quanto accaduto: un incidente, potrebbero dire in paese domani, un'imprudenza essersi avventurato in quel punto senza nessuna illuminazione, proprio in una serata di quel genere poi. Muovere all'impazzata le braccia e le mani, tentare di volgere la faccia e la bocca spalancata verso l'aria, spingere con i piedi qualcosa che non è minimamente capace di darti una spinta: sentirsi immergere dalla furia del liquido, la mancanza impellente di aria, dei polmoni che ne reclamano adesso, che ne hanno bisogno in questo istante preciso, sempre di più, sempre più ora, fino al respiro terminale di acqua fangosa, che riempie ogni parte dove non era mai giunta fino a questo momento, quello terminale, e che immediatamente ti stordisce, ti fa perdere i sensi, ti uccide in un attimo, senza che si possa fare più niente. Acqua nei polmoni e dentro la pancia, la stessa esatta maniera di andarsene come, per volontà o per disgrazia, è già capitata a tantissimi altri.
            C’è un albero qui accanto, ed io lo abbraccio come un amico mentre proseguo a guardare l’acqua che scorre. Mi tengo a lui come fosse la mia ultima possibilità di salvezza. Chiudo gli occhi, in fondo che cosa mai importa continuare a pensare qualcosa che tra un attimo non avrà più alcun valore, immaginando forse che esista un fermo immagine tale da farti immortalare i tuoi ultimi istanti con tutte le riflessioni che lasci a chi sopravvive, pronto a chiedersi se c’erano dei veri motivi per affrontare un rischio del genere, oppure se il rischio faceva già parte di tutto il progetto. A nessuno interessa ragiono, come non interessa la fine che scegli, come la scegli, oppure se è lecito sceglierla; o se invece sei destinato ad accoglierla in un momento qualsiasi, quando magari non sei ancora preparato per questo, e la tua completa sorpresa rimane un elemento tra gli altri: destino, purtroppo, che tanto domani dovremo soltanto dimenticare, più lentamente o più in fretta. Resta l’albero a dirlo, su questo argine.

            Bruno Magnolfi

giovedì 19 dicembre 2019

Volontà soffocata.



            Lo so che è colpa mia. Oramai mi avete convinto: se le cose proseguono ad andare così la responsabilità non può che continuare a ricadere sopra di me. E nonostante io sia sicuro che per tutto ciò che succede tante giustificazioni si troverebbero facilmente se soltanto si avesse la volontà di cercare i motivi ispiratori, non ho comunque più intenzione di combattere ancora, e accetto già da adesso quello che da ora in avanti verrà deciso. Non riesco più a difendermi da tutti gli attacchi che ricevo, ed anche se forse potrei, non ho più la voglia di rigettare le accuse che mi vengono mosse. Perciò ho deciso di abbassare la testa, come probabilmente tanti hanno già fatto prima di me, ed accettare in silenzio tutto quello che verrà deciso nei miei confronti.
            Così esco dal supermercato dove lavoro da parecchi anni come magazziniere, ed invece di salire sull’autobus come in genere faccio, mi dirigo semplicemente a piedi verso il mio appartamento, che dicendo la verità rimane anche piuttosto distante, ma che stasera intendo raggiungere con tutta la calma che serve, disinteressandomi perfino della cena, nonostante l’ora, e tentando, con il moto costante delle mie gambe lungo il tragitto, di farmi passare il dolore allo stomaco che mi porto dietro oramai da più di un giorno. Sul marciapiede incrocio qualcuno che ride, ragazzi che scherzano di chissà che cosa, e per certi versi sento di invidiare chi riesce come loro ad avere dentro se stessi la leggerezza che emanano in questo momento, poi però non resisto e mi infilo dentro una birreria dove tutto in un attimo sembra assumere un contorno diverso.
            Mi siedo nel mezzo al bancone in un posto lasciato libero, scambio un veloce saluto con il tizio di fronte a me che adesso sfrega con energia una spugna sul piano e poi serve le birre e i panini alle persone presenti, quindi ordino qualcosa che leggo alle sue spalle, sulla parete, pubblicizzata con grandi immagini sopra a dei nomi caldi ed appetitosi. A fianco a me un tizio mi dice che chi mangia qualcosa in un posto del genere probabilmente ha qualche problema, ed io gli sorrido, perché in fondo siamo tutti in balia di una stessa corrente. Mi spiega che è appena stato mollato da una tizia che non gli ha neppure fornito una spiegazione plausibile, e che improvvisamente lui si sta sentendo perduto, come se non si fosse mai reso conto di aver delegato a lei per un tempo lunghissimo, tutta la sua capacità di rientrare nell’alveo delle persone normali. Così adesso si sente fuori da tutto, incapace persino di riacquistare un ruolo sociale.
            Mi fa bene ascoltarlo, mi porta subito lontano da tutti i problemi che ho, perciò ci offriamo l’un l’altro diversi giri di birre, fino al punto in cui tutte le cose diventano semplici, e non c’è più bisogno di parlare parecchio per capirsi perfettamente e senza problemi. Infine lo saluto, esco da questo locale con il cuore un po’ alleggerito, e riprendo pur con un certo fastidio la strada per tornarmene a casa. Cammino, mi guardo attorno, osservo le luci serali e le macchine che corrono chissà verso dove: domani sarà una giornata del tutto simile a questa penso; però i miei pensieri saranno diversi, prometto. Sarò un po’ più simile agli altri probabilmente, a tutti coloro che riescono a galleggiare senza grossi problemi, perché ho già deciso in partenza che se qualcuno in ogni caso mi vuole così, non sarò certo io ad oppormi alla sua volontà.  


            Bruno Magnolfi
          

        

mercoledì 18 dicembre 2019

Bastare a se stessi.


         

            Ormai trascorro da sola quasi tutto il mio tempo. Non voglio dire che siano diventate carenti le occasioni per stare con gli altri, è soltanto che spesso non sono d'accordo con le cose che mi vengono dette quando sono insieme a loro, e non riesco ad essere così accondiscendente da sorridere a tutti e dire sempre di sì. Preferisco non dare occasioni per intavolare polemiche, e quindi evitare di fornire costantemente la mia opinione su di una cosa o sull’altra, perché soprattutto mi sembra sacrosanto continuare a pensare quello che voglio, senza dover giustificare in qualche modo le mie azioni oppure le mie parole. La solitudine non mi spaventa, anzi ritengo che formi una qualità della giornata addirittura superiore a qualsiasi altra possibilità. Non parlo in casa a voce alta come mi hanno detto a volte fanno altri solitari come me, però cerco sempre di confrontare i miei pensieri con coloro che mi immagino abbiano opinioni diverse dalle mie. Perciò rifletto molto, qualche volta fino a rimanerne confusa.
            Quando vado dal medico per farmi prescrivere qualche medicinale, generalmente lui mi invita a raccontargli la maniera in cui trascorro le mie giornate, così il dottore alza gli occhi dai suoi ricettari, mi guarda da dietro gli occhiali di metallo dorato, e poi mi fa qualche domanda per verificare se riesco ancora a rispondere in una maniera che tenga conto dell’ambito sociale, oppure se sono già passata a far parte della categoria degli appartati, quelli che parlano soltanto di se stessi, dei loro mali, dei propri guai o delle proprie speranze, e vivono in una sfera isolata, separati da tutti. Normalmente sorrido per fargli capire che ancora resisto: leggo il giornale, sono curiosa di ciò che avviene, mi interesso della vita che scorre nelle città e nelle strade. Riesco ogni volta a rassicurarlo insomma, ed anche se lui per sicurezza prosegue a prescrivermi delle pillole che dovrebbero stimolare la mia attività relazionale, sono convinta davvero di non averne bisogno, e per questo motivo non me le faccio mai dare dalla mia farmacista.
            Quando proprio mi va, arrivo fino al centro anziani a vedere cosa stanno facendo, ma generalmente mi metto da una parte ad ascoltare i discorsi di chi è lì presente, e alcune volte mi invento che ho un’infiammazione così fastidiosa dentro la bocca che non mi permette neppure di parlare, così nessuno mi chiede più nulla, ed io me ne posso stare tranquilla. Secondo me loro dicono sempre le medesime cose, ed io quasi sempre mi annoio così tanto da sbadigliare vistosamente, anche se non vorrei. Quando saluto tutti e me ne torno verso il mio appartamento, sento di aver perso soltanto del tempo passando da lì, e in ogni caso sono quasi felice di ritrovarmi per strada da sola, con le mani sprofondate dentro al cappotto, e con la testa piena di tutti i pensieri che voglio. Forse non dovrei neanche dirlo, ma certe volte credo proprio di sentirmi al di sopra delle persone che frequentano quel centro anziani: è tutta brava gente, questo è certo, però a loro manca oramai la capacità di sapere davvero guardarsi all’interno; sentire le cose, provare ancora emozioni, mettere in dubbio i propri stessi pensieri, ed alla fine, proprio come al contrario riesco a fare io, essere autonomi, tanto da riuscire a bastare a se stessi.   

            Bruno Magnolfi

domenica 15 dicembre 2019

Voci di corridoio.

      

            "Le sento, le ho sentite anche stamani, mentre stavo a casa da solo", dico con una certa irruenza al medico che prosegue a guardarmi con espressione dubbiosa, come se io fossi capace di esprimere soltanto delle sciocchezze. "Sono qui, dentro di me, queste voci, e sembrano di persone che ogni volta continuano a parlare tra loro, tanto che io non riesco neppure a comprendere quello che dicono. Bisbigliano, gemono, sfottono, fanno delle pause, poi una di loro a volte sembra persino iniziare a cantare, come le tornasse naturale allungare le vocali ed intonare qualcosa. Sembra ogni volta un gruppo di svariate persone riunite insieme chissà per quale motivo, ma non si riferiscono mai a me direttamente, perché è come se si intrattenessero l’un l’altro in una stanza diversa, una stanza lontana, in fondo ad un corridoio. Poi ridono, scherzano, prendono in giro, e di nuovo mi fanno innervosire, come sapessero che io le ascolto. Alla fine però smettono, si acquietano tutte, e non si fanno più sentire per chissà quanti giorni".
            Mi alzo dalla sedia dove il dottore ha detto di sedermi per spiegare con calma i miei sintomi; in fondo non volevo neppure venire fin qui a parlare di quello che spesso mi accade, perché già lo sapevo che ciò che sto tentando di spiegargli non sarebbe mai stato creduto. E poi so benissimo che non c’è alcuna cura messa a punto magari da qualche illuminato studioso per una malattia di questo genere, semplicemente perché non si tratta di una malattia, è soltanto la verità di ciò che mi accade ogni tanto, senza che io possa impedirlo. Il medico prosegue a guardarmi in una strana maniera, mi chiede di tornare a sedermi, poi prende appunti, sembra pensieroso, e ad un tratto fa intervenire una sua silenziosa assistente. Le dice di preparare un certo medicinale, e poco dopo la donna, certamente un'infermiera, torna dal retro dello studio con una siringa già pronta. Lui viene verso di me, mi guarda, poi mi preme l'ago in un braccio, senza darmi alcuna spiegazione, ed alla fine mi fa sdraiare sopra al lettino accanto ad una parete.
            Avverto stanchezza, un ronzio nelle orecchie, un brusio piuttosto confuso che non è affatto quello a cui sono ormai abituato, ed improvvisamente ho quasi voglia di prendere sonno, di chiudere gli occhi e di lasciarmi andare ad un assopimento leggero. Invece il medico bruscamente torna a chiedermi le stesse cose di cui abbiamo precedentemente parlato, mi dice di ripeterle, di spiegarle ancora una volta, perché adesso, afferma lui, saranno più vere. Allora riprendo a parlare di quelle voci e di quella stanza lontana, del canto e delle risate, ma mentre dico tutto questo, mi sembrano sempre più oscure queste vicende, quasi una storia inventata, tanto che mi prende il dubbio sensato che tutto quello che dico non sia mai accaduto davvero.
            Chiudo gli occhi mentre continuo a parlare, e la stanza del medico improvvisamente mi pare come allontanarsi, e la mia voce confondersi, mescolarsi con quelle di altri, tanto che alla fine mi trovo a bisbigliare, lasciare andare dei gemiti, fare una pausa, e forse vorrei anche sfottere come si merita questo dottore, per poi alla fine allungare qualche vocale mettendomi a cantare a bassa voce, tra me, quasi ridendo. Al mio interno però avverto una pausa, un momento di silenzio in cui tutto sembra sospendersi come per prendere tempo. Quando infine torno ad aprire gli occhi e ad alzarmi, non c'è più nessuno dentro lo studio, la porta della stanza è stata spalancata, ed il corridoio appare deserto. Così, lentamente, prendo e me ne vado; che tanto non avrei neppure dovuto venirci qua dentro.


            Bruno Magnolfi
           

        

giovedì 12 dicembre 2019

Divise per secoli.

           

            "Sono una moglie", immagino di dire con voce ferma in mezzo agli individui che mi circondano. "So stare al mio posto, anche se ci sono persone che fanno di tutto per scardinarmi da questo ruolo". Forse non c'è alcuna necessità di ribadire ogni giorno quello che siamo, penso poi in un secondo momento, magari mentre sbrigo qualche faccenda casalinga. Eppure mi sento orgogliosa di quello che sono, indipendentemente dal fatto che la maggior parte delle donne vivano la mia stessa condizione. Lavoro, mando avanti la casa, mi sento certe volte il perno attorno a cui ruota tutta la mia famiglia. Però non mi basta, vorrei che qualcuno riconoscesse il mio ruolo, vorrei che qualcuno oltre ai miei familiari mostrasse gratitudine per quello che faccio.
            Un impulso mi muove in ogni momento: la necessità perenne di fare. Certe volte non ha neppure troppa importanza ciò di cui decido di occuparmi in un preciso momento; però va fatto, è indiscutibile, e questo principio vola più in alto di qualsiasi stanchezza o mancanza di volontà. Poi mi ritrovo nel solito negozio di generi alimentari cercando di organizzare la cena di un giorno qualsiasi, e dopo qualche sorriso di convenienza con qualche conoscente, un’altra donna, in apparenza proprio come posso essere io, ma forse soltanto più giovane di me, e forse con delle aspirazioni diverse dalle mie, e magari anche con qualche idea nella testa differente da quelle che ho io, subito dopo che è stato servito un cliente, spiega a tutti che “adesso è il turno della massaia”, guardandomi in un modo vagamente sprezzante, quasi con un velato disgusto.
            Non capisco cosa possa esserci dietro ad un’espressione del genere; cioè non comprendo se questa donna veda in me ciò che lei non vorrebbe mai essere: forse una potenziale nemica quindi; oppure se la definizione troppo precisa dei compiti che crede io stia rivestendo, le divenga motivo, nei miei riguardi, per dare su di me e su tutte coloro che mi assomigliano, un giudizio definitivo di disarticolazione dal genere femminile. “Le donne devono far altro”, potrebbe pensare lei in questo momento, “che preoccuparsi della famiglia, o del proprio marito, oppure di altri che non siano esattamente se stesse”. Rifletto, mentre completo gli acquisti che ho in mente, ma agisco con vero disinteresse per ciò che ho appena avvertito.
            Immagino che per qualche donna da ora in avanti la vita femminile debba essere molto diversa da quello che è stata fino quasi ai tempi attuali: che si siano aperti cioè degli orizzonti che non lasciano più alcuna possibilità di interpretare questo ruolo da parte di coloro che ancora credono si possa tirare su una famiglia in termini sufficientemente tradizionali. “L’argomento è spinoso”, vorrei dire a chi ancora mi ascolta; “però è proprio da qui che passa il futuro, perché nessuno strappo improvviso potrà concedere una nuova verità”. Il tema è aperto, penso improvvisamente; però non credo che una sciocca contrapposizione possa portare qualcosa di buono né all’una né all’altra categoria femminile. Per questo, uscendo con tutta calma dal negozio di generi alimentari, adesso, alla ragazza di prima, passandole vicino, dico soltanto: “tocca a te adesso, mia cara amica; tu che sei diversa, moderna, portatrice di nuove notizie; a me non resta altro che sperare nella nostra futura coesione; perché è soltanto così che potremo sconfiggere quel che ci ha tenuto divise e distanti per secoli”.


            Bruno Magnolfi   
           

          

martedì 10 dicembre 2019

Precipizio.

         

            "Si sta consumando lentamente", dico con una voce appena sussurrata a questa nostra vicina di casa che oggi è passata a vedere come possono andare le cose dopo il lungo periodo di ospedalizzazione di mia moglie. "D'improvviso tutto diventa una sciocchezza, al confronto”, le dico; “ed in certi momenti sembrano venire a mancare perfino le forze per continuare ad andare  ancora avanti". Non voglio commuovermi, penso trattenendomi, anche se ne avrei una gran voglia. D’altra parte appare evidente come tutto quello che era l’andamento normale di una casa, di una famiglia, di tutte le abitudini consumate nel giro di tanti anni, degli stessi comportamenti maturati tra noi due, ed anche quei semplici pensieri messi a punto giorno dopo giorno come una vera strategia di esistenza, adesso siano completamente infranti, finiti, spazzati via da qualcosa che è come un incubo a cui però non resta che adattarsi. La vicina mi stringe la mano senza parlare, e poi se ne va, mesta, triste, come già si immaginava di dover essere, fin dal momento in cui aveva suonato il campanello alla porta.
            Resto da solo a guardare gli oggetti di sempre, nel silenzio dell’appartamento ammalato, foderato di un sottile dolore che non c’era fino a qualche settimana più addietro, e che adesso è diventato l’elemento più forte, più invadente, prevaricatore di ogni altro aspetto. Mi guardo attorno, ed anche se niente è stato cambiato o spostato, tutto comunque ha ormai assunto una colorazione diversa e uniforme, come a mostrare una patina di irrealtà purtroppo vera. Preparo del caffè, controllo le scatole dei medicinali in primo piano, guardo l’orologio da muro inflessibile, mi dedico a togliere della polvere immaginaria da sopra il piano della credenza in cucina, tanto per occupare le mani e la testa in una sciocchezza qualsiasi, qualcosa che mi riporti a dei gesti consunti, usuali, e verso quella normalità per cui adesso pagherei qualsiasi cifra.
            La sospensione che avverto è pressoché insopportabile. Il mio respiro, le mie dita, il passato che torna prepotente a dirmi com'erano le giornate soltanto l'anno scorso, o quello prima, o durante un tempo che nei pensieri diventa lungo e indefinito, per certi versi: tutto adesso mi arriva addosso insopportabilmente, proprio come un corpo estraneo e nemico in mezzo ad un organismo ancora vivo. Questa forse la sensazione più forte, quella di affrontare i prossimi giorni e le prossime ore con la coscienza che tutto sarà caratterizzato da attimi differenti, e che si dovrà modificare leggermente tutto il percorso, a seconda dei passi successivi che il male richiede. Infine torno in camera da letto, e lei è lì: apre gli occhi, mi guarda, sa cosa penso, conosce benissimo cosa io possa avere in mente durante questi momenti. Io la guardo, sorrido, dico qualche sciocchezza, anche se è soltanto una maschera di cortesia, e lei distoglie lo sguardo quasi cercando di nascondere il pallore oramai assunto dalla sua faccia.
            “Mi dispiace”, dice poi con grande presenza di sé, forse vergognandosi per la situazione che è andata così rapidamente franando. Le prendo una mano, vorrei dirle chissà cosa, ma non ha alcuna importanza: sono qui, penso; sarò con te quando le cose precipiteranno.


            Bruno Magnolfi
       

      

lunedì 9 dicembre 2019

Mai più.



            "Non ci sto", dico sottovoce agli altri di getto, senza neanche aver capito del tutto quanto propongono. Generalmente parlo poco, resto in compagnia con questi ragazzi quasi più per abitudine che per una voglia effettiva, perché sinceramente la cosa che a me in assoluto piace di più è quella di rimanermene in giro da solo, e non sentire sempre l'obbligo di star qua e rispondere alle loro battute spiritose, anche se il più delle volte quando mi parlano mi limito a guardare altrove e ad alzare le spalle con disinteresse. Anche stasera forse non vorrei proprio stare con loro, ma non ho proprio alcuna alternativa, anche se in ogni caso mi piacerebbe proprio anche stavolta che tutte le cose scorressero come sempre accade, senza tanti intoppi, quasi come respirare o guardarsi attorno, insomma come se non ci fosse assolutamente niente da decidere, soltanto lasciarsi andare alle chiacchiere e alle battute nel corso di un paio d'ore o tre, proprio come accade tutte le altre volte, e soprattutto che nessuno avesse voglia di mettere in mezzo delle proposte strane, poco convincenti, forse inaccettabili.
            Perciò dico in questo modo, e già che ci sono mi alzo dalla sedia sul retro di questo locale per uscire dalla porta ed andarmene, ma qualcuno mi dice subito che non posso levare le tende proprio adesso, quando ci aspetta qualcosa di importante: devo rimanere, mi spiegano ridendo, non ho alcuna scelta. Lascio che dicano quello che vogliono, intanto che osservo la punta delle mie scarpe, e perdo tempo cercando di capire che cosa desiderano di preciso da me, senza guardare nessuno, solo ascoltando quello che dicono, anche se è tutto confuso. Poi salgono tutti sopra le macchine, ed uno mi dà una leggera spallata come per rompere l’incertezza che mi è rimasta legata addosso, e così mi ritrovo col sedermi sul sedile posteriore di un’auto stretto insieme a degli altri. Ridono, dicono che ci sarà solamente da divertirsi, ma io sento soltanto la voglia di andarmene, magari di tornarmene a casa alla svelta, per conto mio. Fanno fischiare le gomme sopra l’asfalto, perché sembra che si vada tutti di fretta verso un locale che non ho mai sentito, e che forse un locale non è, ma soltanto un modo di dire, o qualcosa del genere.
            Si girano un sacco di strade e qualcuno si è messo pure a fumare delle sigarette pestifere che si passano tra tutti. A me viene soltanto da tossire per tutto quel fumo e loro continuano a ridere, dicono che stasera è una serata speciale, e che si va fuori città. Su una curva la macchina sbanda, sento tutti che urlano, l’altra macchina dietro probabilmente per evitarci va fuori strada, ed io mi volto a guardare nel preciso momento in cui la vedo rovesciarsi coi fari che scoppiano e il fumo. Si scende di corsa, io sono confuso, resto da una parte, non so proprio che fare, gli altri tirano fuori i ragazzi mentre nel buio la macchina rovesciata sembra prendere fuoco. Qualcuno telefona per dei soccorsi, ma io me ne vado, prendo di corsa lungo la strada e vado via, torno a casa, non volevo neppure venirci stasera. Poi mi fermo, è buio, ho paura, torno indietro, ho voglia di piangere, trovo quello che avevo accanto e lui mi dice di stare tranquillo, andrà tutto bene. D’accordo, penso senza rispondere niente, siamo una squadra, bisogna restarcene insieme anche quando i momenti si fanno difficili. Però non c’è niente di bello nel fare le cose da idioti, continuo a pensare; e da ora in avanti non ci andrò più in quel locale con questi ragazzi.


            Bruno Magnolfi


        

mercoledì 4 dicembre 2019

Sempre imparare.


         

            Spalanco la porta del mio appartamento, poi la richiudo a chiave alle mie spalle, quindi con tutta calma prendo le scale condominiali e scendo giù per i tre piani che mi separano dalla strada. Appena fuori dal portone del palazzo mi guardo attorno lungo il marciapiede deserto, accendo meccanicamente una delle mie sigarette, quindi prendo alla mia destra, senza una meta particolare da raggiungere. Sono sicuro che qualcuno mi sta osservando da qualche finestra che si affaccia sulla strada, ma non me ne preoccupo, bado ai fatti miei, non ho alcun interesse nel tenere un comportamento ritagliato su ciò che il vicinato si aspetta da me.
            Sono una persona nota, di me parlano a volte le riviste illustrate, e in genere dicono che sia uno schivo, uno che difficilmente intrattiene dei rapporti sociali con chi conosce superficialmente. Non è del tutto vero, però mi piace che si pensi anche questo di me, non ci trovo niente di male e mi fa essere poco propenso ad interviste e a chiacchiere sparse. Oggigiorno dobbiamo assumere tutti un comportamento che corrisponda ad un personaggio, e seguire con fedeltà i binari che ci siamo scelti, senza deragliare mai dalla linea diritta che precede il nostro cammino. Ciò che sta dietro a questa facciata poi non è troppo importante, e alla fine essere vagamente enigmatici porta soltanto un maggior interesse da parte della gente comune.
            Inforco il mio paio di occhiali scuri perciò, e senza fretta raggiungo il caffè più vicino, dove il cameriere mi serve la solita colazione nel tavolino più in angolo, quello che si nota di meno. Sfoglio un giornale, controllo il mio telefono portatile, mi guardo attorno con circospezione. Ad un tratto arriva questa ragazza, bella, interessante, solare nei suoi modi e nella cortesia con cui saluta il barista. Si fa servire qualcosa al bancone mentre scambia qualche frase di circostanza, conservando sulla faccia lo stesso sorriso con cui è arrivata dentro al locale.
            Scrivo rapidamente un biglietto sopra un pezzo di carta che trovo dentro le tasche, dico al cameriere di consegnarlo alla ragazza, così lei si volta, mi guarda, ma non si decide a raggiungere il mio tavolo. Forse non mi avrà riconosciuto, penso io, e allora con fatica mi alzo e vado lentamente verso di lei, appoggiandomi quindi al bancone e togliendo gli occhiali, tanto per farle intendere chi si trova davanti. Ma lei mi getta uno sguardo sfuggente e poi basta, come se non fosse per niente interessata a conoscere una persona come posso essere io.
            Le dico subito che trovo simpatici i suoi modi di fare, tanto per solleticare il suo amor proprio, ma lei sembra perdere persino quel sorriso che aveva conservato fino adesso. Le dico che è strano non mi abbia ancora riconosciuto, ma lei chiede ancora qualcosa al barista con disinteresse per ciò che le dico. Pago la mia consumazione e naturalmente anche la sua, tentando di uscire da una situazione piuttosto antipatica in cui mi sono andato a cacciare, ma lei rifiuta il mio gesto, e poi dice che ha un conto aperto con quel caffè, per cui non ce n’è alcun bisogno.
            Saluto di circostanza e poi via, me ne torno per strada, si vede che non è la giornata più adatta per fare nuove conoscenze, ma mentre giungo alla porta vetrata la ragazza mi chiama da dietro, così aspetta che mi volti, mi guarda un momento, poi mi restituisce il biglietto che le era stato consegnato dal cameriere. “Non sono il tipo di ragazza che ha immaginato”, mi dice con voce naturale. “E so distinguere bene chi mi interessa rispetto a coloro che cerco di non frequentare”. Poi si volta e torna dentro al locale. Va bene, dico tra me; forse devo rivedere qualcosa nei sistemi con cui cerco di agganciare qualche ragazza. C’è sempre da imparare d’altronde.

            Bruno Magnolfi  

martedì 3 dicembre 2019

Ancora persone.

        

            Non ho niente da nascondere, dico quasi a me stesso mentre noto che dei ragazzi si sono avvicinati al mio giaciglio improvvisato, in questo angolo nascosto della piazza. Un tempo le cose andavano bene, vorrei quasi dire loro; avevo una casa e anche un lavoro, e tiravo avanti come tutti. Poi le cose si sono imbrogliate, ma questa storia l'ho raccontata ormai già troppe volte per poter essere ancora del tutto vera, o per non essere stata modificata dai miei falsi ricordi e dall'orgoglio che ancora tengo dentro, nonostante tutto. Non so cosa faccio, ogni giorno per me si completa il medesimo percorso, non modificato da chissà quanto tempo, tanto che tutto oramai è persino un'abitudine, senza alti né bassi, e neppure giornate di festa o diverse dal solito, a parte i dolori alle gambe che certe volte non mi permettono neppure di allontanarmi da questa piazza.
            Probabilmente vorranno frugarmi sotto al pastrano penso, vedere se tengo dei soldi nascosti, controllare che non sia uno di quei furbi che hanno un mucchio di quattrini da qualche parte e per non spenderli continuano a fare una vita da perfetti idioti. No, vi sbagliate, vorrei quasi dire a questi fottuti che vengono qua a svegliarmi mentre sto per conto mio rincantucciato in questa tana, con i miei stracci e la mia poca roba che trascino sempre dietro in ogni giorno. Lasciatemi in pace, non c’è niente che possa interessarvi, gli direi con il mio modo di bofonchiare probabilmente incomprensibile, ma con dei gesti che non possono essere fraintesi. Andatevene via, che qui non c’è niente che possa interessarvi.
            Mi giro sul fianco dando la schiena alla strada, e torno a coprirmi con la mia coperta, fino sopra la testa. Non dovete scocciarmi, dico adesso tra di me, anch’io ho i miei diritti sacrosanti, e se decido di starmene qua per conto mio in questa serata fredda e senza desideri, vuol dire che così deve essere, e che a voi non deve interessare proprio un bel niente. Quando mi piazzo a dormire sui cartoni, per me il mondo se ne va da un’altra parte, e la mia solitudine mi porta dove vuole, magari verso dei posti molto migliori di questo, anche se in ogni caso a voi non deve fregare proprio nulla. Siete dei ladri penso, dei miserabili peggio di me, che almeno non faccio male a nessuno, e cerco soltanto di starmene per conto mio a rimuginare sulle mie disgrazie e ad immaginarmi magari qualcosa di migliore per me, qualcosa che possa accadere forse domani.
            Questi però non se ne vanno, anzi mi toccano, dicono qualcosa tra loro che neanche capisco, tanto che sto per scocciarmi per davvero, e posso anche prendere la bottiglia di vetro che ho lasciato qui accanto, e romperla sul muso di qualcuno di questi, se non se ne filano fuori dai piedi e anche alla svelta. Mi chiedono pure qualcosa con le loro vocette da stronzi, ma non ho certo voglia di ascoltare questi loro discorsi: non ho niente qua sotto, non sono certo uno di quelli che hanno messo da parte dei tesori e se li portano anche dietro, non ho nulla se non quello che già vedete e che non fa gola proprio a nessuno. Mi giro, quelli mi guardano, chiedono qualcosa, se sto bene, se ho bisogno di una mano. Allora mi tiro su, forse ho sbagliato personaggi penso, così quelli mi versano qualcosa di caldo dentro una tazza, e me la porgono. Va bene penso, così va molto meglio, perché dobbiamo aiutarci qualche volta, darci una mano l’uno all’altro, altrimenti non riusciamo più neppure a immaginarci ancora di essere delle persone.


            Bruno Magnolfi
           

         

mercoledì 27 novembre 2019

Destra e sinistra.

         

            In certi momenti mi sembra che tutto sia semplice, anche possibile, perfino senza troppo impegno. Ma questa sensazione dura sempre poco, sfortunatamente, e questi pensieri si trasformano rapidamente nella lenta realtà quotidiana. Lavoro sull’escavatore per parecchie ore al giorno, generalmente a preparare gli spazi per le fondazioni di grossi edifici, e smuovo la terra da una parte all’altra dei cantieri, lo faccio da così tanti anni ormai che a volte, come dice spesso il mio capo per spronarmi, mi sembra persino impossibile di avere spalato nella vita la quantità totale di una montagna intera, anche se è proprio in questo modo. Destra, sinistra, sopra, sotto, il camion è piazzato di là, fallo mettere più vicino, io mi muovo sui cingoli di qua, mi accosto il più possibile, le vibrazioni del motore che sono tutta la mia compagnia durante le ore, e la benna in cima al braccio meccanico che muove il materiale, poi scava, entra, scarica, fino a quando non abbiamo terminato. Poi si ricomincia.
            Quando spengo il mio mezzo e guardo quello che ho fatto in una giornata di lavoro, mi sembra quasi impossibile, poi torno a casa ed avrei voglia di muovere le braccia e le mani davanti a me come fossi ancora dentro la cabina: destra, sinistra, sopra, sotto. Le leve per azionare l’olio in pressione sono fredde anche se bruciano, agiscono soltanto dietro al mio comando, non hanno la coscienza dell’errore o del lavoro fatto male. Il mio capo dice che sono il migliore sopra al mio mezzo, ma io gli sorrido senza rispondere: al prossimo piccolo sbaglio che faccio, rifletto, sarò di nuovo uno che non vale niente, come succede in ogni occasione.
            Quando scendo dai cingoli e controllo le trincee, osservo le misurazioni che mi sono state date, allora mi sento nuovamente un uomo, con i piedi sopra la terra fresca, smossa, lavorata, ammorbidita dalla benna e dai miei pensieri che proseguono a dare una forma a ciò che per natura non ne avrebbe, trasformandomi da quell’automa che segue i disegni, i picchetti segnaletici, le quote previste, gli urli del mio capo e dei camionisti, in una persona con le mani, con le gambe, forse con una testa, come tutti. Rimetto gasolio, cambio la benna, mi fermo per una semplice manutenzione, ingrasso il braccio, poi richiudo il vetro della cabina e vado avanti.
            Dietro di me i ferraioli e i carpentieri già hanno iniziato a calare le armature dentro le fosse, e certe volte mi dicono qualcosa: due centimetri sul fianco, oppure troppo fondo, era meglio se stavi più aderente al primo progetto. Poi ci si scambiano i segnali: guarda di là, avvicinati qui, stai meno inclinato, tutte cose dette con il solo uso delle mani, mentre il motore prosegue con il suo forte ronzio incessante a coprire i fischi e gli stridori dei cingoli metallici che si muovono più avanti e poi più indietro, destra e poi sinistra, senza mai una vera fine.
            È il mio mestiere, dico a mia moglie qualche volta, ma sempre meno spesso. Lei annuisce, vorrebbe che lavorassi un po' di meno, che fossi più disponibile, meno nervoso quando torno la sera. Non è possibile, le dico, dalla mia attività dipende quella degli altri. Però forse ha ragione, ormai ho qualche anno, dovrei pensare a me stesso, alla mia salute, a tutto quello che ho tralasciato da sempre. E poi la mia testa quando resto fermo, inizia girare per proprio conto, come fossi ancora in cabina; e allora destra, sinistra, alto, basso, come se tutte le azioni meccaniche del giorno mi accompagnassero ancora, senza lasciarmi.


            Bruno Magnolfi
           

           

domenica 13 ottobre 2019

Avanti comunque.


          

            Mio fratello gemello, come lo chiamo io: l’immagine di me dentro il piccolo specchio incorniciato che possiedo da sempre, che spesso mi ha aiutato nella mia solitudine, suggerendo comportamenti, idee, scelte; ormai si è fatto quasi un pensiero inerte, un semplice elemento della mia giornata che ancora resiste e che forse mi osserva sopra al piano di un mobile dentro l’appartamento, ma non produce più impulsi, opinioni, critiche, come faceva una volta. Forse mi sento più libero dal suo giudizio tagliente, ma in ogni caso di me ho maturato negli ultimi tempi una coscienza maggiore, una più forte fiducia nelle mie potenzialità, ed anche una necessità di considerare meno gli oggetti che mi circondano, a vantaggio magari delle persone.
            La mia collega mi ha telefonato, qualche tempo fa, e così finalmente ci siamo visti un pomeriggio per andarcene in un caffè della zona. Abbiamo parlato, come è naturale, senza svelare troppe cose della nostra diversa intimità, divertendoci a conoscere qualcosa di noi senza per questo approfondire eccessivamente i tanti aspetti. Poi sono tornato al lavoro, dopo la lunga malattia che mi ha costretto al riposo forzato, ed ho scoperto di essere stato trasferito al piano superiore nel palazzo della pubblica amministrazione, e di avere così nuovi colleghi, quasi tutte donne, e di non avere più niente a che fare con l’archivio e con quei faldoni polverosi che odiavo.
            Non è cambiato molto, a dire la verità, però si è modificato quel tanto che basta per farmi stare meglio: non ho grandi rapporti umani neppure adesso con gli altri impiegati, considerato che sono rimasto uno che se ne sta volentieri per i fatti propri; ma almeno adesso non sento parlare continuamente e soltanto di calcio, come avveniva costantemente al piano inferiore. Le ragazze che si trovano a questo piano sono gentili, educate, anche premurose, non fanno dei capannelli continui attorno alle macchine per il caffè, ed anche se le vedo spesso chiacchierare lungo i corridoi o nelle varie stanze, lo fanno con garbo, senza sentire mai la necessità di alzare la voce.  
            Con la mia collega del cuore ci salutiamo qua dentro con normalità, come fossimo assolutamente chiunque, in modo da non destare sospetti, anche se sono sicuro torneremo a vederci uno di questi giorni. Mi piace avere un rapporto preferenziale con lei senza che gli altri sospettino minimamente qualcosa, è come avere un alleato segreto, un doppio spessore nella giornata. Dentro la mia cartella proseguo a portare il mio specchio, ma mi basta sentirne la presenza là dentro per stare tranquillo, e non provo il bisogno di tornare a guardarlo o di saggiarne la superficie.
            Ci sono dei momenti durante la giornata di lavoro, in cui mi chiedo ancora a cosa possa portare quello che faccio, però non ho quasi più la preoccupazione di sentirmi del tutto inutile, un impiegato qualsiasi che si è ritrovato tra questi uffici quasi per caso, senza avere nemmeno una motivazione qualsiasi per occuparmi delle cose a cui devo dar seguito. Comunque, anche se non sono del tutto contento del mio lavoro, in ogni caso sto diventando sempre più un impiegato come lo sono tutti gli altri, indifferenziati, spersi tra queste scrivanie e i corridoi, e pronto a scambiare e a parlare degli argomenti comuni, quelli che a lungo andare sembrano essere sempre gli stessi, che legano tra loro però tutte le ore dei giorni e dei mesi che trascorriamo qua dentro, e che alla fine sono l’unico vero collante che riesce a tenere insieme tante diverse persone, forse con poca individualità, ma comunque piegate alla necessità di mandare avanti le cose.

            Bruno Magnolfi

venerdì 11 ottobre 2019

Cambiamenti in corso.

            

            Mi hanno telefonato in questi giorni scorsi alcuni colleghi dall'ufficio, naturalmente anche per chiedere notizie sulla mia salute, ma soprattutto per avere qualche informazione aggiuntiva su quanto stavo portando avanti ultimamente sul mio posto di lavoro. Sembra, a detta loro, che presto sarò definitivamente sostituito, ed io sospetto che ci sia già una persona che abbia occupato il mio posto in modo irrevocabile, e che per me al mio rientro verranno riservate altre diverse attività e mansioni rispetto a quelle che ho rivestito in tutti questi anni. Non so se sia una notizia positiva, mi spaventa dover imparare qualcosa di nuovo, occuparmi di argomenti che esulano del tutto dalle mie assodate abitudini. Per adesso comunque il dottore dice che non posso rientrare in ufficio, e che per un tempo ancora da definire devo cercare di dimenticare il lavoro, e pensare a tutt'altro. Però non ho molti argomenti a cui dedicarmi, e le giornate da trascorrere in casa con le pantofole ai piedi mi sembrano a volte interminabili.
            Mi sono reso conto che ci sono pochissime cose che mi legano al mio posto in pubblica amministrazione, se non le consuetudini, ed anche per quanto riguarda i colleghi, nessuno di loro posso considerare diversamente da una conoscenza puramente occasionale, anche se con alcuni ho lavorato insieme per tanti lunghi anni. Però tutto ciò non mi interessa neanche molto in questo momento. Dovranno cambiare molte cose, continuo a ripetermi quando mi guardo allo specchio per tagliarmi la barba; molte di più di quelle che mi vengono prospettate. Dovrò cambiare comportamento, inserirmi nelle nuove funzioni lavorative con uno spirito completamente rinnovato, ed affrontare i colleghi e le attività con un atteggiamento totalmente diverso.
            Nella serata poi mi sono deciso ad uscire di casa, considerato che per una malattia come la mia non si applica il protocollo della visita fiscale con gli orari di rispetto, e quindi posso considerarmi molto più libero, anche se dovrei tenermi il più possibile a riposo. Mi è venuta voglia di farmi un giro a piedi, e così ho preso un mezzo pubblico fino alla piazza principale della mia città. Mi sono guardato attorno, e mi pareva quasi di avere la possibilità di incontrare da un attimo all’altro qualcuno di mia conoscenza, ma non è stato così. Ho vagato a lungo senza una meta precisa, poi sono entrato in un caffè, e mi sono seduto ad un tavolino. Nell’alveo delle indicazioni riguardo la mia sindrome, ho ordinato al cameriere una camomilla, e mi sono lasciato subito avvolgere dal caldo della tazza e dal vapore che emanava la bevanda.
            Quando è entrata nel locale la mia collega di lavoro con alcune sue amiche, subito è venuta verso il mio tavolo, e mi ha stretto la mano sorridendo con sincerità, anche se forse avrebbe addirittura voluto darmi un bacio affettuoso. E’ la stessa con cui avevo fissato un appuntamento, qualche tempo fa, tirandosi indietro proprio all’ultimo momento, forse per paura che altri impiegati venissero a sapere della faccenda. Mi ha chiesto della mia salute, mi ha fatto i suoi auguri migliori, poi mi ha chiesto più sottovoce il mio numero di telefono di casa, ed il permesso per chiamarmi, dettagli che le ho fornito con immediatezza. Forse qualcosa inizia già a cambiare, ho pensato; e dopo cinque minuti sono uscito da quel bar per tornarmene a casa.


            Bruno Magnolfi  
   

       

giovedì 10 ottobre 2019

Cambio di alcuni dettagli.




            Alle spalle della mia scrivania c'è un armadio metallico, grigio, pieno di faldoni cartacei sistemati abbastanza in ordine, la cui prosecuzione naturale in ordine alfabetico si ritrova addossata al muro direttamente sul pavimento, visto che non c’era più spazio, accatastata alla meglio nell’attesa di nuovi scaffali a sorreggerne il peso. Ogni tanto, nel lavoro corrente che mi viene consegnato dagli impiegati che lavorano al pubblico, ci sono dei rimandi che mi impongono purtroppo di andare a controllare qualcosa tra i dati che trovo in quelle vecchie carte polverose, cosa questa che faccio sempre piuttosto malvolentieri, qualche volta indossando precauzionalmente anche dei guanti di gomma, vista la polvere. Non so cosa mi sia scattato stamani, e perché mai abbia perso completamente il controllo delle mie azioni, però all’improvviso ho rovesciato a terra una gran parte di quella documentazione mentre l’armadio era aperto, sfoderando un gesto repentino, nervoso, inarrestabile.
            Naturalmente sono intervenuti subito i colleghi, che mi hanno fatto sedere, una volta verificato con un certo spavento il tremolio nelle mani ed il pallore sulla mia faccia. E’ intervenuto persino il capufficio, attivato da qualcuno del piano, il quale non ha potuto far altro che constatare le condizioni di momentaneo ma grave disagio in cui stavo versando, visto che non rispondevo neppure alle domande che mi venivano rivolte, se non con dei semplici accenni; e così, considerato che non mostravo altri sintomi, si è deciso immediatamente di chiamare un taxi e di spedirmi al mio domicilio, a riposo, con il consiglio di consultare al più presto un dottore, naturalmente uno specialista di malattie del sistema nervoso.
            A me non è parso di sentirmi particolarmente esaurito, anche se è evidente come l’odio profondo per quei faldoni di documenti, affondi le sue radici in tutti questi anni, da quando mi ritrovo a doverli maneggiare; in ogni caso il gesto che ho compiuto quest’oggi, ripensando a tutto quanto ciò che è successo, mi è parso semplicemente liberatorio: “una scatto d’ira che coltivavo probabilmente da tempo, che tenevo nascosto persino a me stesso, ma nel quale riconosco alla perfezione i miei sentimenti. Certo, tutto questo non posso dirlo a nessun altro che a lei, caro dottore, perché i miei colleghi, e ancor meno i miei superiori, non potrebbero assolutamente comprendere una giustificazione di questo tipo. Certi materiali bisogna imparare ad amarli, dicono loro, perché sono semplicemente la base del nostro lavoro, ed è proprio nell’interno delle loro pagine che vive il senso profondo di ciò per cui siamo chiamati ad occuparci”.
            Il medico annuisce, prende appunti, cerca di mettersi nei miei panni per comprendere meglio la situazione; poi dice che sarebbe salutare per me un periodo durante il quale cambiare qualche mansione, occuparmi d’altro, magari sedermi in un ufficio diverso, un luogo che possa togliere dalla mia mente l’ossessione per quei faldoni. “Non sarà facile”, dico con sguardo basso; “in ogni caso se lei proprio mi prescrive una cura del genere, sarò costretto ad andare dal mio capufficio per fargli presente la sua volontà”. Il dottore perciò con poche parole verga sulla sua carta intestata quanto spiegato, poi mi prescrive qualche calmante, sottolinea alcune semplici raccomandazioni, poi se ne va. Sono a posto, penso; adesso non ho bisogno di altro.

            Bruno Magnolfi  

mercoledì 9 ottobre 2019

Doverose promesse.



Le giornate ultimamente sono tutte identiche tra loro. I medesimi gesti, le solite cose, le esatte parole da usare con le stesse persone. Ogni momento praticamente è la fotocopia esatta di un altro momento del giorno appena trascorso, ma con minori dettagli in evidenza, una risoluzione già più grossolana, approssimativa. Fingo indifferenza di fronte alla noia, e cerco di sorridere meditando intorno alle cose che già conosco, che rimando regolarmente a memoria. I miei colleghi di lavoro mi guardano, probabilmente avvertono nel mio sguardo sfuggente la sofferenza che ho fatto ormai propria, anche se poi inanellano qualcuna delle loro solite battute di spirito, e tutto per un attimo sembra come lasciato dietro le spalle, dimenticato.
Sto fermo alla mia scrivania, e mi pare impossibile accondiscendere all’obbligo di trascorrere tutte queste ore così, senza che nulla susciti almeno una briciola di vago entusiasmo. Gli altri naturalmente sono già davanti alle macchinette per il caffè a scambiarsi qualche superficialità senza alcun impegno di sorta, ed io proseguo a raschiare la carta dei documenti che devo trattare per puro mestiere, senza decidermi ad altro, se non guardare ogni tanto lo spicchio di cielo che si intravede da questa finestra: nuvoloso, sereno, grigio, piovoso, solare.
Quando poi esco dal palazzo dove sono allocati gli uffici, mi sembra tutto diverso nello spazio appena di un attimo, anche se poi l’andamento della giornata riprende rapidamente il suo corso ordinario con variazioni praticamente impercettibili. Tutti quanti noi strisciamo rapidamente il tesserino magnetico nella macchinetta, poi ci scambiamo giusto qualche saluto, ed infine nel parcheggio della pubblica amministrazione mettiamo in moto ognuno la propria automobile, lasciando altri allontanarsi a piedi o in modo ancora diverso.
Mi ferma un collega prima che esca da sotto la sbarra automatica, io abbasso il finestrino della mia utilitaria, e lui spiega rapidamente qualcosa che mi lascia perplesso. Mi chiede se posso dargli un passaggio, visto che stamattina lui ha portato la sua vettura in officina a revisionare, ma la sua domanda appare strana perché ci sono altri impiegati con cui generalmente lui si intrattiene in modo più amichevole di quanto faccia solitamente con me. Lo invito a salire, comunque, gli chiedo dove abbia bisogno di essere trasportato, e lui mi indica una strada effettivamente poco distante da dove abito io. Poi mi parla di un periodo poco felice, di difficoltà di tipo economico, di qualcosa che gli è andato storto ed anche altre cose del genere.
Continuo a guidare mentre ascolto con attenzione tutti i discorsi che il mio collega continua a sviscerare senza fermarsi, aspettando il momento in cui magari decida di smettere, e mi conceda la possibilità di affrontare un argomento meno pesante, ma quello insiste, seguita a elencare tutte le proprie sventure, ed alla fine mi chiede con decisione un prestito di denaro. Ancora prima che possa rispondergli, mi confida che per lui sarebbe una vera boccata di ossigeno, come si dice, ed io mentre fermo la macchina tenendo le mani ormai irrigidite attorno al volante, gli rispondo: “va bene, ma soltanto per una metà della cifra richiesta, perché non ho altri fondi che quelli”. Lui mi ringrazia, dice che già lo sapeva che ero il migliore, sorride, mi stringe la mano, poi se ne va, fissando per il giorno seguente la consegna dell’assegno promesso.


Bruno Magnolfi 



martedì 8 ottobre 2019

Quel che siamo.


      

            Durante questi giorni grigi in cui non succede proprio niente, mi sento un po’ giù di morale, quasi depresso. Persino rimanendo in casa come sempre, mentre giro nervosamente tra le stanze del mio piccolo appartamento, mi pare in questi casi di non essere a posto, anzi, quasi fuori luogo, e mi sembra praticamente che le pareti si avvicinino maggiormente tra di loro, mi attanaglino, riescano a tenere il mio corpo in una assurda costrizione, e che lo spazio necessario persino per muovermi all’interno delle stanze, vada a ridursi poco per volta con il semplice trascorrere delle ore. Così, per respirare, apro le tende di una finestra, cerco la luce del pomeriggio, e mi soffermo ad osservare, attraverso i vetri, la strada che come sempre scorre sotto di me, quasi ritrovandomi a cercare con occhi incantati qualcosa di più largo, di più arioso, uno spazio che lasci finalmente vagare la mia vista, e che magari mi permetta di concentrarmi su qualche particolare maggiormente inusuale, qualcosa che mi incuriosisca e così mi conceda almeno il tentativo dello svago.
            Nutro generalmente grande invidia per quelle persone che osservo e che si fermano volentieri a parlare lungo i marciapiedi, intavolando grandi chiacchierate su chissà quali argomenti. Dalla mia finestra non riesco certo a sentire ciò che dicono, però vedo spesso le loro mani sottolineare con larghi movimenti le parole che in quel momento stanno usando; forse le lanciano, le amplificano, ne riescono a piegare il significato magari in un certo verso, oppure proprio in un altro. A volte qualcuno tra gli individui che noto, sembra quasi mostrare una specie di danza, fatta di gesti e di espressioni del corpo e anche del viso, ma soprattutto delle braccia e delle mani che spesso seguono traiettorie immaginarie e riescono a fluidificare qualsiasi frase, ogni periodo, fino probabilmente a sentire attorno ai loro movimenti, un’attenzione quasi completa da parte di chi ascolta, un interesse sempre crescente per i temi a cui chi parla riesce a dare corda, come se nient’altro fosse maggiormente importante in quei momenti di ciò che viene riferito.   
Sento un rumore alle mie spalle, non saprei: forse un oggetto nella mia cucina che è caduto penso, così vado a guardare, ma non trovo proprio niente fuori posto. Torno alla finestra ed il rumore si ripete. Qualcuno non vuole che io perda tempo ad osservare gli altri sulla strada penso; così torno a chiudere le tende e ad interessarmi di qualcosa che reputo presente dentro al mio appartamento. Mi cade subito lo sguardo sul mio piccolo specchio, incorniciato ed esposto sul ripiano. Lo prendo, ne osservo l'immagine riflessa, e mi rendo subito conto che non sono io adesso quello nella superficie lucida. Fingo indifferenza, però una sottile angoscia mi pervade, per cui prendo tutto l’oggetto e lo ripongo in fretta dentro un cassetto. Poi decido di uscire e farmi un giro.
Incontro alcune persone che avevo visto poco prima dalla mia finestra, perciò le saluto, quasi fossero certe mie vecchie conoscenze. Mi guardano subito in un modo strano, non hanno probabilmente niente da dirmi, anche se io mostro di essere disposto ad ascoltarle. Una vecchia mi dice buonasera, ed io le sorrido come normalmente faccio con tutti i miei vicini di casa quando mi capita di incontrarli. Ma la mia solitudine non porta a niente penso, perciò giro attorno all’isolato e poi ritorno deciso tra le mura del mio appartamento. Sul pianerottolo suono il campanello al mio dirimpettaio, gli chiedo se a lui vada tutto bene, e così ci mettiamo a parlare per un po’ di fatti consueti, giusto per non salutarci in fretta e basta. Quando poi giro la chiave del mio appartamento mi sento preoccupato: vado subito al cassetto dove ho riposto quel mio specchio, e con un certo timore lo tiro fuori per osservarne la superficie: è mia la faccia che adesso vedo riflessa, tutto è tornato come deve essere, penso, e tiro subito un sospiro di sollievo. In fondo ci vuole poco per riconoscersi davvero in ciò che siamo, rifletto; non c’è neanche bisogno di preoccuparsi troppo.

Bruno Magnolfi