giovedì 30 aprile 2020

Nulla da dire.


          

            Lei è lì, non l’avevo neanche mai vista prima, saranno dodici o quindici metri dalla panchina dove sono seduto, seduta su di un’altra identica panchina messa di fianco, al margine del camminamento intorno ad una piccola vasca rotonda per i pesci rossi, nei giardinetti pubblici di questo quartiere. Nessuno dei due indossa protezioni, quindi non mi posso avvicinare o sedermi accanto a lei, forse potrei solamente chiederle qualcosa da lontano, ma ogni frase che in questo momento mi viene alla mente mi pare così scontata o addirittura banale da lasciarmi privo di qualsiasi fonema, incapace di pronunciare anche una sola parola, mostrandomi però come se già il mio riserbo e questo silenzio convinto, potesse assumere in qualche modo un certo valore ai suoi occhi. Lei legge un libro, ma si ferma ogni tanto, osserva qualcosa intorno a sé e poi qualche volta incrocia il mio sguardo, tanto che sto pensando di farle un sorriso, oppure una smorfia di simpatia, giusto per tentare di smuovere questa penosa e insopportabile sospensione. Ma non mi decido a fare un bel niente, restando qui semplicemente seduto, immobile, a guardarla ogni tanto, fino al momento in cui lei, chiuso il libro, si alza con calma per andarsene via.
            Il viottolo di ghiaia che subito prende è quello che porta alla strada asfaltata fuori dal giardinetto, varcando un pesante cancello di ferro battuto, ed io penso che devo fermarla in qualche maniera prima che giunga a superare quel passo, non perché ci sia una ragione precisa per farlo, quanto per una specie di traguardo che in questo momento mi pongo. Così affretto la mia camminata dietro di lei, e già il rumore dei sassolini sotto alle scarpe sono un indizio evidente del fatto che la sto seguendo, ma non aspettandomi certo che lei potesse girarsi verso di me, la chiamo nella maniera più stupida che mi possa venire alla mente: “signorina”, le fo con un tono che sembra già tolto dalla buffa recitazione di un attore del cinema, però lei si ferma, si volta, mi guarda, ed attende con rassegnazione il resto del mio debole darle disturbo. Mi blocco a distanza di sicurezza, con un gesto le faccio presente che non ho la protezione, lei sorride leggermente della mia evidente goffaggine, poi: “non l’avevo mai vista da queste parti”, le dico.
            Lei ha molta pazienza, sorride, osserva qualcosa da qualche parte togliendo il suo sguardo dalla mia sciocca espressione, non mostra però desiderio di andarsene subito, ma neppure la volontà in ogni caso di avviare una pur semplice conversazione con me, lascia soltanto che la nostra distanza in qualche maniera si faccia maggiore, forse per quei modi che ho avuto assolutamente inadatti, forse perché ritiene quanto le ho detto una sciocchezza da niente. Trascorre un secondo infinito, poi due o anche tre, ed in questo stallo lei muove il suo libro da una mano a quell’altra, come indecisa se lasciarmi così senza aggiungere niente, oppure scagliare contro di me una parola secca, che non lasci alcun dubbio. Abbasso lo sguardo; “sono uno sciocco”, le fo, tornando ad essere per un momento un po’ meno affettato. “E’ così difficile sentirsi naturali in questo momento, che si riesce alla fine ad essere unicamente impacciati. Parlo soltanto per me, mi pare ovvio”. Lei mi concede uno sguardo di un attimo, poi torna a voltarsi e a riprendere la propria via, ma dopo due passi si ferma di nuovo, a cinque o sei metri da me, in sicurezza: “non è molto che abito da queste parti”, mi dice con una voce meravigliosa. “Può anche darsi che accada di incontrarci di nuovo”.
            La lascio andare, lei supera il pesante cancello spalancato, prende da una parte senza girarsi, e sparisce così alla mia vista. Chissà, penso io, forse potremo davvero tornare a incontrarci; o magari è persino meglio che questo non debba accadere. Non so, rifletto con calma; in qualsiasi caso va bene così: non avevamo niente da dirci quest’oggi, e può darsi che neppure incontrandoci ancora riusciremo davvero a trovarli, gli argomenti di conversazione più adatti.

            Bruno Magnolfi   

domenica 26 aprile 2020

Testardamente felice.


         

            La donna si siede, attende un momento in silenzio, osserva il velo leggero di polvere sopra il piano del tavolo, poi si decide a telefonare. “Sono da sola”, dice a qualcuno che le risponde da una diversa e lontana città. “e forse comunque è anche giusto così; di fatto non ne soffro, come a tanti succede, ed anzi mi sembra questa per me una buona occasione per riflettere a fondo sui diversi argomenti delle mie giornate”. Poi riaggancia, si alza lentamente da dove si trova e va diretta in cucina, come per occuparsi di qualcosa che purtroppo non sa neppure lei cosa sia. Ci sono delle verdure già pronte dentro al suo frigo; può usarle come contorno ad un semplice uovo fritto in un tegamino, ed in questa maniera anche il problema della sua cena sembra presto risolto. Non c'è niente di cui doversi preoccupare davvero, visto che ognuno in questo momento può ritirarsi dentro al suo nido ed affrontare la propria giornata nel chiuso delle mura di casa. Lei è consapevole del proprio isolamento derivato da questo periodo, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi, anche se in verità è proprio quello che le sembra di avere continuamente desiderato.
            “Ma non è andata sempre così”, vorrebbe dire ora al telefono. “C’è stato Armando per quasi due anni, anche se è successo oramai parecchio tempo fa, ed io mi sono sentita in quei momenti una persona diversa, completa, del tutto una donna. Certo, ho le mie colpe: molte volte non mi sono tirata fuori da me stessa, lo so; spesso anzi ho cercato ancora di coltivare la mia individualità, i miei interessi, i miei desideri. Ma non potevo concedermi tutta, è evidente, dovevo pur lasciare qualcosa per me, conservare in qualche maniera le mie idee, i miei pensieri, le mie piccole manie. Forse l’ho spaventato, il mio Armando, ecco; l’ho fatto però quasi inconsapevolmente, tenendogli testa forse su troppe cose, opponendomi alla sua personalità qualche volta, giocando quasi sempre con lui a braccio di ferro”. Probabilmente sono proprio questi gli errori che si continua a pagare per il resto degli anni, senza renderci conto sul momento che la partita è troppo importante per farla decidere da una scenata o da qualche parola sfuggita di bocca. “Adesso lo so, anche se è tardi”.
            Poi stende la tovaglia prendendola dal cassetto sopra al piccolo tavolo di fronte ai fornelli, piegandola precisamente in due parti, con attenzione, che tanto non serve utilizzarla completamente sul piano per una sola persona. Sistema i piatti, le posate, il bicchiere, il tovagliolo, infine apre il gas per accendere il fuoco. E’ rimasto del pane da ieri, adesso può scaldarlo nel forno, ci vuole una brocca d’acqua sul tavolo, la boccetta dell’olio, la saliera, poi tutto è pronto, anche se non le sembra di avere più voglia neppure di mangiare. “Non sono da sola”, potrebbe dire al telefono; “ci sono i ricordi con me, le presenze nella mia mente di tutte le persone che ho conosciuto”. Infine torna nell’altra stanza, vorrebbe adesso qualcosa che attirasse un po’ della sua attenzione: un compito qualsiasi, un interesse, una voglia, un elemento qualunque per rompere questa monotonia, questo andamento usuale e un po’ assurdo per tutti, specialmente per lei.
            Infine torna in cucina e si siede: è tutto pronto, ogni cosa al suo posto così come le piace, può cenare con calma, riflettere ancora su tutto quanto, incontrare di nuovo se vuole i frutti della sua memoria. Torna ad alzarsi, come in preda ad una specie di improvviso pensiero profondo, prende il telefono e torna a chiamare la stessa persona di prima, lontana da lì, però l’unica persona a cui può ancora dire alcune delle sue cose. “Sono felice”, dice all’apparecchio senza neppure spiegarsi. “Non so per quale motivo, e forse può apparire anche a te del tutto incomprensibile; però è così, e tu devi crederlo, devi saperlo, devi fartene una ragione, senza bisogno di chiedermi ancora il perché, come sia mai possibile nella mia solitudine. In questo modo; così”.

            Bruno Magnolfi   

venerdì 24 aprile 2020

Armonie celesti.


          

            Abito in un cascinale isolato, dove la strada sterrata giunge e non prosegue, tanto che dalla mia nascita in avanti sono sempre stato qui, dapprima con i miei genitori, e poi da solo. Me la so cavare abbastanza bene in ogni attività, e so badare a me stesso per tutto quello che possa servire per mandare avanti i miei mestieri, per cui mi risulta difficile sentire il bisogno di qualcosa di diverso, magari allontanarmi un po’ da questi paraggi, o addirittura andarmene del tutto da questa piccola vallata, cosa questa che non mi è mai neppure passata per la mente. Il silenzio comunque è l’elemento preponderante da queste parti, spesso anche durante la giornata, per esempio quando lavoro nel campo accanto a casa, oppure al momento in cui mi occupo semplicemente dei miei animali; però ci sono delle volte, generalmente durante alcune strane nottate in cui non riesco subito a lasciarmi andare al sonno e alla stanchezza, che avverto distintamente giungere fino a me il suono della terra. Non è un rumore forte, piuttosto si manifesta come una specie di respiro profondo emesso sembrerebbe da una bestia gigantesca. Naturalmente è necessario che non ci sia del vento a confondere le mie orecchie, e che non si facciano sentire gli animali selvatici che abitano nel bosco qua vicino. Però quando tutte queste condizioni si presentano, ecco che quel suono arriva, giunge fin qua da chissà dove, ed alla sua maniera cerca di parlarmi, come per tenermi compagnia.
            Oggi poi non sono stato bene: mi è presa come una spossatezza per me del tutto inusuale, così mi sono sdraiato sopra al letto, e sono rimasto nella mia camera abbastanza a lungo, senza riuscire a decidermi se occuparmi di qualcosa, come sarebbe stato mio preciso dovere, oppure no. Ho pensato molte volte nel passato alla maniera migliore di comportarmi in situazioni simili a questa, però ho quasi deciso che se il dolore in questi casi non mi diventasse proprio del tutto insopportabile, lascerei che la natura facesse con tranquillità tutto il proprio corso, mollando ogni cosa e rispettando i tempi ed il volere di ciò che mi dovesse capitare, senza cercare niente e neanche nessuno. Invece oggi è giunto, mentre stavo qui a riflettere qualcosa in mezzo a tutte le altre mie preoccupazioni, questo solito grandioso suono della terra, come da tempo ormai l'ho appellato e come già tante altre volte ho avuto modo di ascoltare. Qualcosa dentro di me ha subito come accelerato ogni mio comportamento, e mi ha spinto a muovermi senza tanti indugi, scrollandomi di dosso qualsiasi debolezza per recarmi almeno fino al paese più vicino, e lì cercare al più presto la maniera di farmi aiutare da qualcuno. Ho seguito con naturalezza quel consiglio, e così pur con fatica ho messo in moto il mio furgone, ho ingranato la marcia e nonostante una certa difficoltà nell'attenzione e nei movimenti, ho fatto quello che mi veniva fortemente suggerito.
            Ma è stato già lungo la strada bianca, mentre guidavo con calma sul percorso di questi chilometri solitari, cercando di osservare bene il piano viario avanti a me, e lasciando dietro le ruote una gran nuvola di polvere, che le cose sono iniziate rapidamente a migliorare, tanto che quando alla fine sono giunto proprio davanti alle prime case, mi sono reso conto di non avere ormai bisogno proprio di niente, tanto più che in giro non c’era neanche un’anima viva. Allora mi sono fermato nell’unico negozio aperto del paese, e quando sono entrato mi sono fatto incartare dal tizio che conosco, una bottiglia di ottima acquavite, senza dirgli niente di particolare, limitandomi soltanto a lasciargli un semplice saluto di circostanza, mentre lui continuava a guardarmi in modo strano, quasi fossi un fantasma. Appena ho preso la strada per tornare indietro ho bevuto subito un sorso alla salute della mia amica terra, quella che mi ha dimostrato quanto il suo aiuto sia sempre più fruttuoso, e poi ho guidato senza fretta fino a casa, fermando il mio furgone sullo spiazzo davanti alla mia porta. Sono tutti ammalati, ho pensato rientrando nelle mie semplici stanze: non riescono a comprendere che l’unico aiuto vero che possono ricevere è quello che può portarti soltanto chi hai sempre rispettato, e che mai ti tradirà, se lo metti sempre al centro di tutti i tuoi pensieri.

            Bruno Magnolfi

sabato 18 aprile 2020

Soldato di difesa.

          

            Sto ben nascosto dentro alla mia tana, e sono sicuro che a nessuno verrebbe mai in mente di arrivare a cercarmi proprio fino qui. Là fuori forse sta accadendo chissà cosa, ma a me non interessa proprio niente dei problemi generali che dannano la gente: io mi rannicchio in questo buco ed esco soltanto quando servono qualcosa da mangiare, una volta o due al giorno, nella nostra sala comune. Dietro al muro e a questo paravento ben sistemato, quando i soliti curiosi transitano dal corridoio, non possono vedere dove sto, neanche se qualcuno di loro si affaccia al mio bugigattolo, e magari cerca di scansare con le mani quegli oggetti che ho messo a protezione di questa mia preziosa intimità. E’ buio dentro, non c’è nessuna lampadina da accendere. Comunque mi piace quando da qui sento le voci degli infermieri e degli inservienti che si incrociano dentro le sale di questo edificio odioso, tanto nessuno può sospettare del mio nascondiglio, visto che io mi faccio trovare sempre dove vogliono loro nelle ore pattuite durante la giornata. Poi torno a rifugiarmi subito nel mio luogo segreto, ed a nessuno passa per la mente di essere più scaltro di quanto sono io.  
            E’ un sottoscala oscuro e umido, lo ammetto, non è proprio un gran bel posto, ma è qui dove avevano piazzato una porticina piccola che neanche si può chiudere del tutto, un varco minuto che lascia entrare soltanto una persona, qualcuno che abbia proprio voglia di abbassarsi, ed anche se forse non serve a niente questo mio rifugio, per me è comunque il luogo più sicuro tra tutti quelli che ho trovato da quando sono qui. Mi ci sono sistemato poco per volta, con una vecchia sedia ed anche due sgabelli rotti, sui quali appoggio generalmente tutte le mie cose, specialmente il soldatino di legno verniciato che sta con me da tempo immemorabile. Lui adesso appare un po’ scrostato e consumato dal tempo, come è quasi naturale che sia, ma per me è rimasto sempre il solito, il mio portafortuna che non mi abbandona mai, e che spesso mi avverte quando c’è qualcosa che non va. Io sto nel buio della mia tana, e lui ecco che inizia a muoversi. “Che cosa c’è”, gli fo, tanto per sentire quali siano le sue ragioni. E lui mi parla di cose che in parte non comprendo, anche se alla fine si spiega in modo estremamente chiaro quando devo preoccuparmi di qualcosa.
            Se devo dire proprio la verità, è lui che mi ha indicato la prima volta questo nostro nascondiglio segreto, in questo meraviglioso sottoscala. “Devi infilarti in quel buco”, mi ha detto con le sue maniere dirette, un giorno che non sapevo proprio dove andare; ed io evidentemente gli ho obbedito subito, perché di lui mi fido, so per certo che non mi tirerebbe mai una fregatura. In questi giorni sento gli inservienti che parlano spesso di contagi, ed è per questo forse che si tengono alla larga da tutti gli ospiti di questa struttura dove mi hanno messo. Sono al sicuro, dico al mio amico soldatino, e lui sorride, sa che prenderà in ogni caso le mie difese, ed io so che su di lui posso contare, che mi difenderà comunque vadano le cose.
Poi arriva un infermiere, uno di quelli che si occupa generalmente dei casi gravi, e mi spiega subito che la mia cuccia va benissimo, e poi che devo stare là dentro il più possibile per non mescolarmi mai con gli altri. Lo guardo, ma non gli rispondo niente, continuo a mangiare in un angolo della sala refezione per conto mio, e poi appena ho finito mi alzo e vado a chiedere cosa ne pensi il mio prezioso amico in armi. “Ha ragione”, dice anche lui; “devi stare qui, fermo, senza cercare mai nessuno”, mi fa. Così io mi metto seduto sulla seggiola, tengo in mano il soldatino e lo guardo prima di rimetterlo in piedi accanto a me. Sono fortunato, penso: tutti hanno da affrontare un sacco di problemi, e si preoccupano continuamente di ogni cosa. Non io però, che sto sempre tranquillo al mio posto insieme al mio soldato, e non mi muovo, non mi faccio neanche vedere, perché ho soltanto da guadagnarci a comportarmi in questo modo.


            Bruno Magnolfi
          

         

venerdì 10 aprile 2020

Brutte giornate.



"Sono solo", dico a voce alta tra le pareti dell'appartamento, dentro alle mie piccole tre stanze di questo palazzetto giallo e disadorno, costruito cinquant'anni fa nella periferia industriale cittadina, dove le fabbriche presenti, da quel momento in poi, si sono ritrovate costantemente in crisi, tanto da deprezzare pesantemente anche tutto questo nostro quartiere, e rendere appetibile per tutti andarsene via da queste strade e da queste abitazioni. L'affitto è modesto per fortuna, però starsene in casa in certi giorni è qualcosa che alla lunga lima i nervi in maniera quasi inverosimile. Avverto dei rumori dall'appartamento esattamente simmetrico al mio, che si apre di faccia alla mia porta, sopra al pianerottolo, e penso che il mio vicino stia mostrando in qualche maniera anche a me la sua presenza, la sua situazione presumibilmente simile alla mia, anche se lui abita con la moglie. Fino a qualche tempo fa c'era una ragazza che dormiva da me qualche volta, specialmente nei fine settimana, poi ci siamo litigati, non ricordo neanche bene quale sia stato il vero motivo, e così non ci siamo visti più.
Vorrei che qualcuno ora mi rispondesse subito che non è del tutto così come io credo, che non sono proprio solo, che tutti siamo insieme nella medesima situazione, e che c’è della solidarietà comunque che lavora come un collante tra di noi, anche se a me non pare del tutto vero questo aspetto, ed anzi credo che l’isolamento di adesso per tutti sia ancora più forte che in altri momenti, in questo tempo in cui ciascuno di noi cerca di costruire qualcosa come una corazza di protezione attorno a sé. Non mi interessa niente che dei vicini sentano le mie urla attraverso le pareti, e si figurino che a produrle sia il solito svitato del terzo piano, quello che abita da solo e spesso non saluta neppure quando ti incontra sulle scale. “Ci sono”, vorrei dire a tutti, “sono qua, non sono un fantasma privo di qualsiasi consistenza: ho i miei modi, il mio carattere, la mia maniera di comportarmi quando incontro il vicinato, come chiunque, come ognuno di voi, più o meno gentili, più o meno sociali nel vostro essere degli ordinari cittadini”.
“Sono solo”, riprendo ad urlare dopo un po’; “venite a vedere se non ci credete, è sufficiente vi mettiate ad origliare dall’esterno alla mia porta per rendervene conto, per capire che non riesco più a stare qua dentro senza fare niente, senza occuparmi di nulla che abbia un minimo di senso”. Mi siedo, sto in ascolto per sentire se per caso ci fossero reazioni, ma non avverto alcun rumore adesso, neppure quelli del vicino di fronte al pianerottolo. Allora apro l’unica mia finestra che si affaccia sulla strada, e da lì vedo che non c’è nessuno che gironzola a quest’ora, neppure per andare a fare acquisti. Così torno a chiudere i vetri ed a mettermi seduto.
Dopo un po' sento che qualcuno mi sta bussando con insistenza, così apro la porta e vedo che c'è il mio vicino di fronte a me ad una certa distanza sopra al pianerottolo, mentre mi chiede se per caso abbia bisogno di qualcosa. "Non lo so", gli dico confondendomi per la domanda; "stare da soli a volte sembra così  terribile". Lui mi guarda, dice che sono tempi duri, che ci vuole pazienza, che bisogna essere forti, poi se ne va, rientra lentamente nel proprio appartamento, ed intanto pensa sicuramente che sono sempre il solito, uno che non sa mai stare al proprio posto. Allora prendo una sedia e spacco un vetro della mia finestra, l’unica che si affaccia sulla strada, e poi mi siedo, aspetto che qualcuno si occupi di me, anche se adesso mi vergogno di essere così poco resistente ad un periodo di tempo che torna così difficile per tutti.


Bruno Magnolfi


lunedì 6 aprile 2020

Modi differenti.


            

            “Sono scemo”, mi dico ogni volta che affronto con la solita determinazione qualcosa che magari neppure conosco, magari solo per il gusto di mettermi ad individuare quale sia il mio vero limite. Poi mi riprendo, e capisco quasi sempre di aver esasperato il mio egocentrismo, così cerco almeno di rientrare nei ranghi, e tento anche di dimenticare rapidamente tutte le mie brutte figure. Mi sento spesso per telefono con gli amici, e dico a loro che non sono certo il tipo che si fa fregare facilmente, così quando propongono qualcosa dico sempre di no, anche se poi mi lascio supplicare almeno fino a quando non acconsento, mostrando comunque ancora della ritrosia. Loro mi conoscono, sanno come prendermi, e ormai è diventato come un gioco comportarmi così.
            “Mi piacerebbe annullarmi”, dico qualche volta quasi per provocazione. “Mi sento ingombrante, con troppa personalità, incapace di tenere un basso profilo”. C’è una ragazza che non parla quasi mai quando siamo tutti in compagnia, ed io mi chiedo come faccia ad essere così, piena di pensieri e di riflessioni che non scambia mai con nessuno. Le offro una birra, tanto per tastare il terreno, poi le dico che per calmare un po’ il mio modo di essere ci vorrebbe che trovassi una ragazza, proprio una come lei. “Vedi Sonia”, le fo; “certe volte sento di avere molto da dare, e per questo motivo impegno tutto me stesso nel tentativo di far comprendere il mio punto di vista, il mio parere, le mie opinioni più varie. Non sono molto convinto delle cose che dico, però mi sembra che tutto questo sviluppi la discussione, offra ai miei amici la possibilità di trovare degli argomenti critici”. Lei mi guarda, non dice niente come suo solito, però elabora le cose dentro la sua testa.   
            “Va bene”, fa lei alla fine. Possiamo metterci assieme”. Io comprendo lo spirito di sacrificio da parte di una come Sonia, così mentre la guardo e sorrido, impongo a me stesso di provare a cambiare, almeno in parte, e di pormi il tentativo di assomigliare un po’ anche a lei. Le chiedo come mai a lei non piaccia parlare con gli altri, ma Sonia alza una spalla, si schernisce, ed infine dice che non è soltanto per timidezza, è anche per il gusto di ascoltare quello che tutti hanno da dire, dando per scontato che ci sia tutto da scoprire in ciò che pensano le altre persone. Rifletto, mi sembra un ottimo punto di vista, però mi pare che abbia molte più possibilità di confronto con la realtà uno proprio come me, piuttosto che una ragazza come è lei, anche se adesso non dico più niente. Più tardi ci sentiamo per telefono, e le dico che mi sembra quasi una sfida comprendere cosa lei nasconda dentro di sé, e questo mi piace moltissimo. Sonia non risponde niente, però in questo modo mi costringe immediatamente a riflettere su ciò che forse avrebbe anche potuto rispondere.
            “Sei misteriosa”, le fo a Sonia. “Però più ti conosco più mi piace la tua maniera di essere”. Dopo che ho riattaccato il telefono mi prende una specie di dubbio di base, così ricompongo il suo numero velocemente e la richiamo. “Forse siamo uguali”, le fo; “però anche se abbiamo sviluppato due maniere completamente diverse di confrontarci con l’esterno, quando parliamo tra di noi penso che ci capiamo al volo, e questo è quanto di più importante possa esserci”. Lei non risponde niente, sembra che elabori di nuovo tutte quante le parole che cerco di rivolgerle, come se dall’interpretazione di quello che le dico ne possano scaturire degli elementi fondanti per nuove riflessioni che Sonia si limita semplicemente a provocare in me, quasi fossi io alla fine quello che concretizza le idee, lasciando a lei il compito di esaminarle nel pensiero. “Devo lasciarti”, dice alla fine. Ed io le dico che va bene, non c’è problema, ci sentiamo più tardi. “Non parlavo della telefonata”, mi fa lei. “Non posso sopportare più i tuoi modi. Siamo troppo differenti”.

            Bruno Magnolfi