domenica 13 ottobre 2019

Avanti comunque.


          

            Mio fratello gemello, come lo chiamo io: l’immagine di me dentro il piccolo specchio incorniciato che possiedo da sempre, che spesso mi ha aiutato nella mia solitudine, suggerendo comportamenti, idee, scelte; ormai si è fatto quasi un pensiero inerte, un semplice elemento della mia giornata che ancora resiste e che forse mi osserva sopra al piano di un mobile dentro l’appartamento, ma non produce più impulsi, opinioni, critiche, come faceva una volta. Forse mi sento più libero dal suo giudizio tagliente, ma in ogni caso di me ho maturato negli ultimi tempi una coscienza maggiore, una più forte fiducia nelle mie potenzialità, ed anche una necessità di considerare meno gli oggetti che mi circondano, a vantaggio magari delle persone.
            La mia collega mi ha telefonato, qualche tempo fa, e così finalmente ci siamo visti un pomeriggio per andarcene in un caffè della zona. Abbiamo parlato, come è naturale, senza svelare troppe cose della nostra diversa intimità, divertendoci a conoscere qualcosa di noi senza per questo approfondire eccessivamente i tanti aspetti. Poi sono tornato al lavoro, dopo la lunga malattia che mi ha costretto al riposo forzato, ed ho scoperto di essere stato trasferito al piano superiore nel palazzo della pubblica amministrazione, e di avere così nuovi colleghi, quasi tutte donne, e di non avere più niente a che fare con l’archivio e con quei faldoni polverosi che odiavo.
            Non è cambiato molto, a dire la verità, però si è modificato quel tanto che basta per farmi stare meglio: non ho grandi rapporti umani neppure adesso con gli altri impiegati, considerato che sono rimasto uno che se ne sta volentieri per i fatti propri; ma almeno adesso non sento parlare continuamente e soltanto di calcio, come avveniva costantemente al piano inferiore. Le ragazze che si trovano a questo piano sono gentili, educate, anche premurose, non fanno dei capannelli continui attorno alle macchine per il caffè, ed anche se le vedo spesso chiacchierare lungo i corridoi o nelle varie stanze, lo fanno con garbo, senza sentire mai la necessità di alzare la voce.  
            Con la mia collega del cuore ci salutiamo qua dentro con normalità, come fossimo assolutamente chiunque, in modo da non destare sospetti, anche se sono sicuro torneremo a vederci uno di questi giorni. Mi piace avere un rapporto preferenziale con lei senza che gli altri sospettino minimamente qualcosa, è come avere un alleato segreto, un doppio spessore nella giornata. Dentro la mia cartella proseguo a portare il mio specchio, ma mi basta sentirne la presenza là dentro per stare tranquillo, e non provo il bisogno di tornare a guardarlo o di saggiarne la superficie.
            Ci sono dei momenti durante la giornata di lavoro, in cui mi chiedo ancora a cosa possa portare quello che faccio, però non ho quasi più la preoccupazione di sentirmi del tutto inutile, un impiegato qualsiasi che si è ritrovato tra questi uffici quasi per caso, senza avere nemmeno una motivazione qualsiasi per occuparmi delle cose a cui devo dar seguito. Comunque, anche se non sono del tutto contento del mio lavoro, in ogni caso sto diventando sempre più un impiegato come lo sono tutti gli altri, indifferenziati, spersi tra queste scrivanie e i corridoi, e pronto a scambiare e a parlare degli argomenti comuni, quelli che a lungo andare sembrano essere sempre gli stessi, che legano tra loro però tutte le ore dei giorni e dei mesi che trascorriamo qua dentro, e che alla fine sono l’unico vero collante che riesce a tenere insieme tante diverse persone, forse con poca individualità, ma comunque piegate alla necessità di mandare avanti le cose.

            Bruno Magnolfi

venerdì 11 ottobre 2019

Cambiamenti in corso.

            

            Mi hanno telefonato in questi giorni scorsi alcuni colleghi dall'ufficio, naturalmente anche per chiedere notizie sulla mia salute, ma soprattutto per avere qualche informazione aggiuntiva su quanto stavo portando avanti ultimamente sul mio posto di lavoro. Sembra, a detta loro, che presto sarò definitivamente sostituito, ed io sospetto che ci sia già una persona che abbia occupato il mio posto in modo irrevocabile, e che per me al mio rientro verranno riservate altre diverse attività e mansioni rispetto a quelle che ho rivestito in tutti questi anni. Non so se sia una notizia positiva, mi spaventa dover imparare qualcosa di nuovo, occuparmi di argomenti che esulano del tutto dalle mie assodate abitudini. Per adesso comunque il dottore dice che non posso rientrare in ufficio, e che per un tempo ancora da definire devo cercare di dimenticare il lavoro, e pensare a tutt'altro. Però non ho molti argomenti a cui dedicarmi, e le giornate da trascorrere in casa con le pantofole ai piedi mi sembrano a volte interminabili.
            Mi sono reso conto che ci sono pochissime cose che mi legano al mio posto in pubblica amministrazione, se non le consuetudini, ed anche per quanto riguarda i colleghi, nessuno di loro posso considerare diversamente da una conoscenza puramente occasionale, anche se con alcuni ho lavorato insieme per tanti lunghi anni. Però tutto ciò non mi interessa neanche molto in questo momento. Dovranno cambiare molte cose, continuo a ripetermi quando mi guardo allo specchio per tagliarmi la barba; molte di più di quelle che mi vengono prospettate. Dovrò cambiare comportamento, inserirmi nelle nuove funzioni lavorative con uno spirito completamente rinnovato, ed affrontare i colleghi e le attività con un atteggiamento totalmente diverso.
            Nella serata poi mi sono deciso ad uscire di casa, considerato che per una malattia come la mia non si applica il protocollo della visita fiscale con gli orari di rispetto, e quindi posso considerarmi molto più libero, anche se dovrei tenermi il più possibile a riposo. Mi è venuta voglia di farmi un giro a piedi, e così ho preso un mezzo pubblico fino alla piazza principale della mia città. Mi sono guardato attorno, e mi pareva quasi di avere la possibilità di incontrare da un attimo all’altro qualcuno di mia conoscenza, ma non è stato così. Ho vagato a lungo senza una meta precisa, poi sono entrato in un caffè, e mi sono seduto ad un tavolino. Nell’alveo delle indicazioni riguardo la mia sindrome, ho ordinato al cameriere una camomilla, e mi sono lasciato subito avvolgere dal caldo della tazza e dal vapore che emanava la bevanda.
            Quando è entrata nel locale la mia collega di lavoro con alcune sue amiche, subito è venuta verso il mio tavolo, e mi ha stretto la mano sorridendo con sincerità, anche se forse avrebbe addirittura voluto darmi un bacio affettuoso. E’ la stessa con cui avevo fissato un appuntamento, qualche tempo fa, tirandosi indietro proprio all’ultimo momento, forse per paura che altri impiegati venissero a sapere della faccenda. Mi ha chiesto della mia salute, mi ha fatto i suoi auguri migliori, poi mi ha chiesto più sottovoce il mio numero di telefono di casa, ed il permesso per chiamarmi, dettagli che le ho fornito con immediatezza. Forse qualcosa inizia già a cambiare, ho pensato; e dopo cinque minuti sono uscito da quel bar per tornarmene a casa.


            Bruno Magnolfi  
   

       

giovedì 10 ottobre 2019

Cambio di alcuni dettagli.




            Alle spalle della mia scrivania c'è un armadio metallico, grigio, pieno di faldoni cartacei sistemati abbastanza in ordine, la cui prosecuzione naturale in ordine alfabetico si ritrova addossata al muro direttamente sul pavimento, visto che non c’era più spazio, accatastata alla meglio nell’attesa di nuovi scaffali a sorreggerne il peso. Ogni tanto, nel lavoro corrente che mi viene consegnato dagli impiegati che lavorano al pubblico, ci sono dei rimandi che mi impongono purtroppo di andare a controllare qualcosa tra i dati che trovo in quelle vecchie carte polverose, cosa questa che faccio sempre piuttosto malvolentieri, qualche volta indossando precauzionalmente anche dei guanti di gomma, vista la polvere. Non so cosa mi sia scattato stamani, e perché mai abbia perso completamente il controllo delle mie azioni, però all’improvviso ho rovesciato a terra una gran parte di quella documentazione mentre l’armadio era aperto, sfoderando un gesto repentino, nervoso, inarrestabile.
            Naturalmente sono intervenuti subito i colleghi, che mi hanno fatto sedere, una volta verificato con un certo spavento il tremolio nelle mani ed il pallore sulla mia faccia. E’ intervenuto persino il capufficio, attivato da qualcuno del piano, il quale non ha potuto far altro che constatare le condizioni di momentaneo ma grave disagio in cui stavo versando, visto che non rispondevo neppure alle domande che mi venivano rivolte, se non con dei semplici accenni; e così, considerato che non mostravo altri sintomi, si è deciso immediatamente di chiamare un taxi e di spedirmi al mio domicilio, a riposo, con il consiglio di consultare al più presto un dottore, naturalmente uno specialista di malattie del sistema nervoso.
            A me non è parso di sentirmi particolarmente esaurito, anche se è evidente come l’odio profondo per quei faldoni di documenti, affondi le sue radici in tutti questi anni, da quando mi ritrovo a doverli maneggiare; in ogni caso il gesto che ho compiuto quest’oggi, ripensando a tutto quanto ciò che è successo, mi è parso semplicemente liberatorio: “una scatto d’ira che coltivavo probabilmente da tempo, che tenevo nascosto persino a me stesso, ma nel quale riconosco alla perfezione i miei sentimenti. Certo, tutto questo non posso dirlo a nessun altro che a lei, caro dottore, perché i miei colleghi, e ancor meno i miei superiori, non potrebbero assolutamente comprendere una giustificazione di questo tipo. Certi materiali bisogna imparare ad amarli, dicono loro, perché sono semplicemente la base del nostro lavoro, ed è proprio nell’interno delle loro pagine che vive il senso profondo di ciò per cui siamo chiamati ad occuparci”.
            Il medico annuisce, prende appunti, cerca di mettersi nei miei panni per comprendere meglio la situazione; poi dice che sarebbe salutare per me un periodo durante il quale cambiare qualche mansione, occuparmi d’altro, magari sedermi in un ufficio diverso, un luogo che possa togliere dalla mia mente l’ossessione per quei faldoni. “Non sarà facile”, dico con sguardo basso; “in ogni caso se lei proprio mi prescrive una cura del genere, sarò costretto ad andare dal mio capufficio per fargli presente la sua volontà”. Il dottore perciò con poche parole verga sulla sua carta intestata quanto spiegato, poi mi prescrive qualche calmante, sottolinea alcune semplici raccomandazioni, poi se ne va. Sono a posto, penso; adesso non ho bisogno di altro.

            Bruno Magnolfi  

mercoledì 9 ottobre 2019

Doverose promesse.



Le giornate ultimamente sono tutte identiche tra loro. I medesimi gesti, le solite cose, le esatte parole da usare con le stesse persone. Ogni momento praticamente è la fotocopia esatta di un altro momento del giorno appena trascorso, ma con minori dettagli in evidenza, una risoluzione già più grossolana, approssimativa. Fingo indifferenza di fronte alla noia, e cerco di sorridere meditando intorno alle cose che già conosco, che rimando regolarmente a memoria. I miei colleghi di lavoro mi guardano, probabilmente avvertono nel mio sguardo sfuggente la sofferenza che ho fatto ormai propria, anche se poi inanellano qualcuna delle loro solite battute di spirito, e tutto per un attimo sembra come lasciato dietro le spalle, dimenticato.
Sto fermo alla mia scrivania, e mi pare impossibile accondiscendere all’obbligo di trascorrere tutte queste ore così, senza che nulla susciti almeno una briciola di vago entusiasmo. Gli altri naturalmente sono già davanti alle macchinette per il caffè a scambiarsi qualche superficialità senza alcun impegno di sorta, ed io proseguo a raschiare la carta dei documenti che devo trattare per puro mestiere, senza decidermi ad altro, se non guardare ogni tanto lo spicchio di cielo che si intravede da questa finestra: nuvoloso, sereno, grigio, piovoso, solare.
Quando poi esco dal palazzo dove sono allocati gli uffici, mi sembra tutto diverso nello spazio appena di un attimo, anche se poi l’andamento della giornata riprende rapidamente il suo corso ordinario con variazioni praticamente impercettibili. Tutti quanti noi strisciamo rapidamente il tesserino magnetico nella macchinetta, poi ci scambiamo giusto qualche saluto, ed infine nel parcheggio della pubblica amministrazione mettiamo in moto ognuno la propria automobile, lasciando altri allontanarsi a piedi o in modo ancora diverso.
Mi ferma un collega prima che esca da sotto la sbarra automatica, io abbasso il finestrino della mia utilitaria, e lui spiega rapidamente qualcosa che mi lascia perplesso. Mi chiede se posso dargli un passaggio, visto che stamattina lui ha portato la sua vettura in officina a revisionare, ma la sua domanda appare strana perché ci sono altri impiegati con cui generalmente lui si intrattiene in modo più amichevole di quanto faccia solitamente con me. Lo invito a salire, comunque, gli chiedo dove abbia bisogno di essere trasportato, e lui mi indica una strada effettivamente poco distante da dove abito io. Poi mi parla di un periodo poco felice, di difficoltà di tipo economico, di qualcosa che gli è andato storto ed anche altre cose del genere.
Continuo a guidare mentre ascolto con attenzione tutti i discorsi che il mio collega continua a sviscerare senza fermarsi, aspettando il momento in cui magari decida di smettere, e mi conceda la possibilità di affrontare un argomento meno pesante, ma quello insiste, seguita a elencare tutte le proprie sventure, ed alla fine mi chiede con decisione un prestito di denaro. Ancora prima che possa rispondergli, mi confida che per lui sarebbe una vera boccata di ossigeno, come si dice, ed io mentre fermo la macchina tenendo le mani ormai irrigidite attorno al volante, gli rispondo: “va bene, ma soltanto per una metà della cifra richiesta, perché non ho altri fondi che quelli”. Lui mi ringrazia, dice che già lo sapeva che ero il migliore, sorride, mi stringe la mano, poi se ne va, fissando per il giorno seguente la consegna dell’assegno promesso.


Bruno Magnolfi 



martedì 8 ottobre 2019

Quel che siamo.


      

            Durante questi giorni grigi in cui non succede proprio niente, mi sento un po’ giù di morale, quasi depresso. Persino rimanendo in casa come sempre, mentre giro nervosamente tra le stanze del mio piccolo appartamento, mi pare in questi casi di non essere a posto, anzi, quasi fuori luogo, e mi sembra praticamente che le pareti si avvicinino maggiormente tra di loro, mi attanaglino, riescano a tenere il mio corpo in una assurda costrizione, e che lo spazio necessario persino per muovermi all’interno delle stanze, vada a ridursi poco per volta con il semplice trascorrere delle ore. Così, per respirare, apro le tende di una finestra, cerco la luce del pomeriggio, e mi soffermo ad osservare, attraverso i vetri, la strada che come sempre scorre sotto di me, quasi ritrovandomi a cercare con occhi incantati qualcosa di più largo, di più arioso, uno spazio che lasci finalmente vagare la mia vista, e che magari mi permetta di concentrarmi su qualche particolare maggiormente inusuale, qualcosa che mi incuriosisca e così mi conceda almeno il tentativo dello svago.
            Nutro generalmente grande invidia per quelle persone che osservo e che si fermano volentieri a parlare lungo i marciapiedi, intavolando grandi chiacchierate su chissà quali argomenti. Dalla mia finestra non riesco certo a sentire ciò che dicono, però vedo spesso le loro mani sottolineare con larghi movimenti le parole che in quel momento stanno usando; forse le lanciano, le amplificano, ne riescono a piegare il significato magari in un certo verso, oppure proprio in un altro. A volte qualcuno tra gli individui che noto, sembra quasi mostrare una specie di danza, fatta di gesti e di espressioni del corpo e anche del viso, ma soprattutto delle braccia e delle mani che spesso seguono traiettorie immaginarie e riescono a fluidificare qualsiasi frase, ogni periodo, fino probabilmente a sentire attorno ai loro movimenti, un’attenzione quasi completa da parte di chi ascolta, un interesse sempre crescente per i temi a cui chi parla riesce a dare corda, come se nient’altro fosse maggiormente importante in quei momenti di ciò che viene riferito.   
Sento un rumore alle mie spalle, non saprei: forse un oggetto nella mia cucina che è caduto penso, così vado a guardare, ma non trovo proprio niente fuori posto. Torno alla finestra ed il rumore si ripete. Qualcuno non vuole che io perda tempo ad osservare gli altri sulla strada penso; così torno a chiudere le tende e ad interessarmi di qualcosa che reputo presente dentro al mio appartamento. Mi cade subito lo sguardo sul mio piccolo specchio, incorniciato ed esposto sul ripiano. Lo prendo, ne osservo l'immagine riflessa, e mi rendo subito conto che non sono io adesso quello nella superficie lucida. Fingo indifferenza, però una sottile angoscia mi pervade, per cui prendo tutto l’oggetto e lo ripongo in fretta dentro un cassetto. Poi decido di uscire e farmi un giro.
Incontro alcune persone che avevo visto poco prima dalla mia finestra, perciò le saluto, quasi fossero certe mie vecchie conoscenze. Mi guardano subito in un modo strano, non hanno probabilmente niente da dirmi, anche se io mostro di essere disposto ad ascoltarle. Una vecchia mi dice buonasera, ed io le sorrido come normalmente faccio con tutti i miei vicini di casa quando mi capita di incontrarli. Ma la mia solitudine non porta a niente penso, perciò giro attorno all’isolato e poi ritorno deciso tra le mura del mio appartamento. Sul pianerottolo suono il campanello al mio dirimpettaio, gli chiedo se a lui vada tutto bene, e così ci mettiamo a parlare per un po’ di fatti consueti, giusto per non salutarci in fretta e basta. Quando poi giro la chiave del mio appartamento mi sento preoccupato: vado subito al cassetto dove ho riposto quel mio specchio, e con un certo timore lo tiro fuori per osservarne la superficie: è mia la faccia che adesso vedo riflessa, tutto è tornato come deve essere, penso, e tiro subito un sospiro di sollievo. In fondo ci vuole poco per riconoscersi davvero in ciò che siamo, rifletto; non c’è neanche bisogno di preoccuparsi troppo.

Bruno Magnolfi

domenica 6 ottobre 2019

Indifferenza motivata.


         

            Ad iniziare proprio da oggi, mio fratello gemello ha deciso di accompagnarmi fino al lavoro, almeno qualche volta. Se ne sta fermo sul sedile del passeggero dentro la mia utilitaria, e lascia che io guidi la macchina da casa mia fino agli uffici della pubblica amministrazione, senza provocarmi alcun nervosismo, anzi, spingendomi alla calma, come non ci fosse mai alcuna fretta, nonostante stamani io sia leggermente in ritardo. Non avevo mai preso in considerazione un’eventualità di questo tipo, però credo proprio che mi piaccia, perché è come avere uno sguardo maggiormente obiettivo su tutto ciò che si fa. Il modo di cambiare le marce dell’auto, le strade imboccate per muoversi all’interno della città, perfino le espressioni che si assumono guidando, magari proprio mentre qualche utente della strada mostra poco rispetto per tutti gli altri che gli si muovono attorno.
            Mi fermo al solito caffè per acquistare un giornale e consumare rapidamente la colazione. Lui sta con me, dentro la mia borsa portadocumenti, ed in qualche modo io so che mi giudica, che tende ad assumere un vago atteggiamento di critica, pur costruttiva, al minimo sospetto che stia per sbagliare qualche cosa. Mi sento forte con lui, è chiaro, è come se fossi sempre sorretto da una persona fidata. Potrei addirittura fare lo spaccone, dire al barista di prepararmi il solito macchiato, ad esempio, e cose di questo genere. Quando arrivo al parcheggio dell’amministrazione pubblica mi sento bene, talmente bene che resto in macchina col motore spento per almeno un paio di minuti, senza fare niente, solo per il gusto di assaporare la giornata prima di infilarmi dentro l’ufficio.
In ogni caso so che il tempo mi scorrerà meglio portando il mio gemello accanto a me, perché la sua presenza dentro la borsa è per me un elemento di tranquillità per tutto ciò che faccio. Striscio il tesserino magnetico e poi prendo l'ascensore, mentre qualche collega sta già parlando a voce alta lungo le scale, come se le sue parole fossero l'elemento fondante di tutta la giornata. Mi siedo alla mia scrivania e poi appoggio le mani sopra il piano. "Eccomi qua", mi sento di dire sottovoce alla borsa che staziona qua accanto; "una nuova giornata da trascorrere in questa stanza, una serie infinita di momenti da riempire di senso, cercando di recuperare almeno una parte di quell’entusiasmo che avevo nei primi giorni in cui sono stato assunto per questo lavoro".
Poi prendo la cartella, e l'apro con lentezza: dentro c'è il mio caro specchio avvolto con cura dentro una stoffa, ad evitare danni per qualche urto inaspettato. Guardo soltanto per un attimo il piccolo piano levigato dentro alla piccola cornice, e la mia faccia riflessa mostra un’espressione che vorrei definire di curiosità e di fiducia. Ripongo rapidamente tutto all'interno, non deve assolutamente succedere che a qualche collega venga la voglia di infilare il suo naso in mezzo alle mie cose segrete. Riprendo in mano le carte su cui stavo lavorando già il giorno passato e mi concentro su ciò che c’è da fare, ma dopo poco sento della confusione insolita provenire dal corridoio. Mi affaccio dal mio piccolo ufficio, e mi rendo conto che due impiegati si stanno prendendo a male parole, tanto che già qualcun altro si è avvicinato a loro per cercare di mettere fine alla discussione, e magari evitare, sia ai due che a tutti noi, dei guai anche peggiori.
Non c’è niente di sorprendente penso, la noia che imbeve questi uffici è capace di tirare fuori a chiunque i peggiori nervosismi, anche senza avere degli ulteriori motivi validi per farlo. Torno a sedermi e riprendo la mia cartella: guardo mio fratello di nuovo e so per certo che per me tutto è diverso; la coscienza di avere lui insieme a me, è capace di rendermi quasi un’altra persona, più equilibrata, più tranquilla, quasi indifferente a tutti gli altri.

Bruno Magnolfi

giovedì 3 ottobre 2019

Possibilità quasi insperate.



Impiego quasi un'ora per andare in ufficio a piedi. Però, in questo ultimo periodo, ho preferito spesso fare così, piuttosto che mettere in moto la mia utilitaria e farmi ancora prendere in giro dai colleghi, magari proprio mentre mi trovo nel parcheggio riservato a noi impiegati dell'amministrazione pubblica. Loro si comportano in questo modo giusto per farsi due risate alle mie spalle, considerato che la mia auto è vecchia e che di questo modello non se ne vedono quasi più in circolazione, ma a lungo andare quelle pungenti battute di spirito mi hanno quasi portato all'esasperazione. Avevo addirittura pensato di chiedere un prestito alla mia banca e di cambiare macchina, ma in fondo credo proprio che per ora non ne valga la pena.
La camminata in fondo mi distende i nervi, riempie un po' del mio tempo libero ed alla fine mi costringe soltanto ad alzarmi dal letto ogni mattina un po’ prima del solito. E poi mentre cammino rifletto. Così ho quasi deciso di chiedere un trasferimento. Non c’è niente che mi tenga incollato a questo posto di lavoro, perciò posso andarmene tranquillamente in un’altra sede dove magari riesco ad allacciare dei rapporti migliori con i colleghi che posso trovare.
Anzi, da quando ho maturato questo pensiero mi sento già piuttosto meglio: mi fa sentire quasi un'altra persona osservare i colleghi che perdono l’intera mattinata tra le macchinette per il caffè e le immancabili discussioni sul calcio; è come se io in questo momento mi sentissi in condizione di ridere in faccia a tutti quanti, di non provare più alcuna timidezza nei loro confronti, di essere capace di restare praticamente indifferente a qualsiasi battuta spiritosa riescono a pronunciare sul mio conto. Per questo motivo penso che tra qualche giorno tornerò ad andare agli uffici dell’amministrazione pubblica con la mia vecchia auto, mostrando agli impiegati che mi troverò d’attorno, quanto poco sia interessato ai loro stupidi commenti.
Per adesso cammino, certe volte mi sento stanco, ma incontrando molta gente lungo la strada, certe volte mi sembra persino di riconoscere qualcuno, qualche persona tra tutti quei passanti che rispetta i miei stessi orari e percorre lo stesso marciapiede su cui cammino io, naturalmente in senso inverso. C’è tra gli altri una donna di mezza età, una persona molto distinta, che ogni mattina incontrandomi finge costantemente di non guardare dalla mia parte, anche se io ho capito benissimo che desidererebbe solamente un pretesto per salutarmi magari con un bel sorriso. Ho pensato di farmi cadere qualcosa mentre cammino, ma sembra una scusa puerile. Perciò ho deciso che non ho bisogno proprio di alcun pretesto, ed una di queste volte semplicemente la saluterò, con la semplice cortesia di chi non ha secondi fini dentro la mente.
Lei potrebbe rispondermi con un normale buongiorno, riconoscendomi in colui che incrocia ogni mattina su quel marciapiede; oppure potrebbe addirittura soffermarsi un momento, come per dare il tempo a chi le si trova di fronte, di fare una formale presentazione, allungando due parole di circostanza. Decido che sarà in questo modo, perciò mi preparo, cammino con una maggiore lentezza ed attendo di vedermela arrivare davanti. Difatti eccola, vestita elegantemente come sempre, così scelgo la traiettoria più adatta, le vado quasi incontro, ed infine le dico semplicemente: “buongiorno”, con voce allegra; ma lei tira di lungo senza neppure guardarmi, forse immaginando che avessi lanciato il saluto a qualcun altro dietro di lei. Però non ha importanza, penso adesso; ci saranno sicuramente altre possibilità.


Bruno Magnolfi


martedì 1 ottobre 2019

Prospettive limitate.


      

Sono io, dico al mio fratello rientrando. Poi mi muovo dentro la stanza per cercare qualcosa di cui non ho una memoria precisa, ma che so essere nascosto in uno degli angoli, anche se adesso non so ricordare quale sia. È come se precedentemente, in uno stato come di forte dormiveglia, avessi sistemato rapidamente le mie cose in diversi luoghi dentro il mio appartamento, quasi escogitando dei ripostigli momentanei per oggetti, ma di cui adesso non trovo più traccia all’interno della mia mente. Non ha importanza, dico a voce alta, prima o dopo tutto quanto spunterà di nuovo alla luce del sole, mostrando così che il corredo su cui può contare una persona quale io sono, è qualcosa che ognuno porta sempre con sé.
Mi rannicchio sopra una sedia nel tentativo di concentrare le mie residue energie, poi all’improvviso ho la coscienza esatta di essere osservato, anche se sono da solo. Il mio fratello gemello dentro lo specchio mi osserva con il suo occhio onnipresente, e per la prima volta sento che in qualche modo provo come la necessità di sfuggirgli.  In fondo ho tutto il diritto di starmene da solo rifletto; anche oggi ho trascorso una giornata di lavoro in ufficio immerso in una congerie di colleghi senza alcuno scrupolo, pronti a scherzare tra loro e a ridere di me per qualsiasi sciocchezza.
Mi affaccio alla finestra del mio appartamento: fuori le persone lungo la strada e i marciapiedi sembrano muoversi come ogni giorno, ognuna persa dietro alle proprie preoccupazioni. Vorrei che qualcuno dei passanti che camminano sotto di me si voltasse d’improvviso all’insù, e mi salutasse magari riconoscendomi. Potrei mettermi a parlare del più e del meno sporgendomi sul davanzale, spiegare che a me va tutto bene in questo momento, che mi piace osservare il traffico della serata, che in questo mio appartamento al terzo piano mi sento benissimo, è proprio la casa che va bene per me. Poi mi rendo conto che nessuno mi nota, nessuno si volta a guardarmi, e questa mia finestra è anonima, quasi come tutte le altre in questo quartiere.
Rientro, chiudo le imposte, torno a piazzarmi seduto nell’attesa che mi venga un’idea, che un’illuminazione mi indichi dove possa trovare quello che ho perso. Mio fratello gemello purtroppo è ancora lì, che mi guarda, ed io non ho quel coraggio che serve per prendere la cornice con tutto lo specchio e gettarla una buona volta fuori dalle mie stanze, giù dalla finestra, senza alcuno scrupolo. Non è semplice convivere con qualcuno che si limita a guardarti da una superficie lucida e chiara: certe volte vorrei sentire la sua voce, ascoltare le sue strenue opinioni, discutere, porgli qualche domanda e sentire quale risposta possa riceverne. Si fa presto a rinchiudersi dentro ad un piccolo oggetto e starsene lì, senza mai mettersi in gioco. Lo prendo allora, e volto lo specchio sul tavolo.
Che cosa mi importa ritrovare le cose di cui non so proprio che farne, rifletto. Vado a guardare in cucina per vedere se manca qualcosa, e così avere una buona scusa per uscire ed arrivare fino al negozio giù all’angolo. Nella credenza trovo così le chiavi di riserva della mia utilitaria. Sono inconfondibili, legate da un laccio di cuoio che forma una specie di nodo. Le ho sempre tenute in una cassetta di legno fornita di ganci e attaccata sul muro vicino alla porta di entrata. Qualcuno si diverte a spostarmi le cose rifletto; oppure sono io stesso che senza rendermi conto di niente, continuo a sistemare le cose in luoghi diversi dal solito.
Decido di uscire comunque, un po’ d’aria non può farmi che bene, ma quando sono con la mano sulla maniglia sento un forte rumore alle mie spalle; per un attimo mi guardo attorno stupito, poi riesco a rendermi conto di cosa stia succedendo: è il mio fratello gemello dentro allo specchio che si è proprio stufato di starsene lì, sopra al tavolo, senza alcuna prospettiva di fronte.

Bruno Magnolfi