mercoledì 27 maggio 2020

Privi di possibilità.


           

            Ho provato, lo giuro, ho provato con tutte le mie forze, e così mi sono spinto fuori da casa proprio come facevo un tempo, percorrendo da solo con calma quasi tutto il corso del paese a piedi, per poi andare a fermarmi al solito circolino, giusto per scambiare due chiacchiere con qualche conoscente, come ho sempre fatto nel passato. Ed in questi giorni in cui il peggio sembra ormai alle nostre spalle, ho ritrovato ancora là dentro i soliti figuri, le medesime persone, gli stessi tizi di sempre, a bere e a ridere proprio come facevano qualche mese fa, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi stagione, esattamente come prima che si diventasse tutti dei soggetti ad alto rischio. Però a me è preso subito il tremore, la paura, il terrore folle di essere contagiato, di ritrovarmi senza respiro dentro il reparto dei soggetti gravi, senza neppure troppe possibilità di cavarmela; allora mi sono guardato attorno ed ho visto che ero l’unico a provare questa sensazione, e che non pensavo affatto le stesse cose di tanti altri che hanno già preso a comportarsi con grande indifferenza per quello che è accaduto, battendosi delle gran pacche sulle spalle e parlandosi l’un l’altro anche da vicino, spesso persino senza niente sulla bocca per proteggersi.
E poi non vorrei mai diventare anche una cinghia di trasmissione per chissà quant'altra gente che neppure conosco, ho riflettuto: parenti, amici, vicini di casa, sconosciuti qualsiasi; così ho preso e sono tornato a rinchiudermi da solo nel mio appartamento, senza attardarmi neanche un momento insieme agli altri, ed anzi evitando perfino quei saluti amichevoli di tutti i tiratardi del circolino, e poi le loro chiacchiere e anche le bevute senza freni. Adesso sto male però. Non so se sia la suggestione che mi è stata provocata da quegli sconsiderati che non si preoccupano mai di nulla, o se effettivamente la malattia abbia già iniziato il suo corso dentro al mio organismo. Però respiro male, ho la fronte sudata, forse ho la febbre, e non so neppure se sia il caso di rivolgermi a qualcuno che se ne intende, oppure rimanere in casa da solo nell’attesa che le cose vadano avanti in modo naturale, senza minimamente ostacolarle. Se ho sbagliato qualcosa, adesso devo pagare, questo è ciò che penso. Anzi, inizio a credere sempre di più che il male sia ciò che meritiamo tutti, dopo esserci approfittati in ogni dettaglio di ciò che la nostra umanità ci ha permesso fino ad ora.
Siamo indeboliti, questo è il punto, prede di qualsiasi microrganismo voglia attaccarci, incapaci di opporre alla forza della malattia una resistenza adeguata. Perciò adesso mi sdraio sopra al mio letto, osservo il soffitto per qualche attimo ed infine chiudo gli occhi, ad aspettare con pazienza che tutto lentamente si compia. Ma ad un tratto suonano alla porta, e mi scuoto rapidamente dal torpore che mi è preso, rimettendomi in piedi ed andando velocemente ad aprire. Davanti a me ci sono ora delle persone che non conosco, vestiti completamente di tute e maschere protettive, e dicono che devono campionare tutti gli appartamenti della zona, per cui indagare, analizzare, fare degli esami, prelevare saggi, tutto ciò che serve per comprendere meglio quello che sta accadendo. Li faccio accomodare, dico che sto male, che forse se ci fosse una cura per me sarebbe assolutamente ciò che ci vorrebbe: “altrimenti sono spacciato”, dico loro, “senza possibilità di andare avanti”. Mi fanno stendere, girano nel mio appartamento, uno mi osserva anche se non troppo da vicino, dice che ci vuole un intervento specifico per il mio caso, ed è proprio una fortuna che siano capitati loro con le strumentazioni giuste. Fanno anche qualche telefonata, mi impongono di stare fermo e di chiudere gli occhi senza affaticare nessun muscolo, fino a quando dicono che se ne vanno, e che tra poco comunque arriveranno i medici, c’è da stare più che tranquilli.
Dopo un paio d’ore senza che niente sia successo, mi alzo per fare due passi e bere un bicchiere d’acqua, e mi accorgo subito che il mio piccolo appartamento è stato completamente svaligiato, ripassato da mani esperte da cima fino in fondo, portando via qualsiasi oggetto di valore. Siamo tutti spacciati, penso adesso, non posso proprio avere altro che mi gira nella mente.

Bruno Magnolfi

mercoledì 20 maggio 2020

Dure parole.


          

            “Forse era addirittura meglio prima”, dico io. “Non che davvero andasse bene sentirsi obbligati a stare chiusi ognuno in casa propria, però era quello il momento di ritrovare alcuni valori individuali, ripensare con calma le proprie cose, e soprattutto evitare questa socialità falsa che adesso ha già ripreso ad imperare”. Attorno a me tutti mi guardano con sospetto, probabilmente qualcuno vorrebbe addirittura screditare con una semplice battuta quello che sto dicendo, però tutti si trattengono, mi guardano, sanno che per certi versi le mie parole non sono mai delle sciocchezze. “Bisogna stare bene con se stessi”, aggiungo, “piuttosto che mostrarsi in giro con il vestito migliore”. Poi me ne vado, nessuno ha avuto niente da dire, forse non c’è nessun interesse nel mettersi in contrasto con uno come me. Sono stato sindaco di questa piccola città, quasi quattro mandati addietro, ed in quella manciata di anni mi sono reso conto che la mentalità della gente è sempre l’elemento più difficile da affrontare e da cambiare.
            In ogni caso non ho certo rinunciato a dire a tutti la mia opinione, ed anche se oramai mi faccio vedere in piazza solo in qualche giornata particolare, ogni volta incontro sempre qualcuno che mi chiede un parere. Riflettere, questo credo sia l’elemento che sfugga più di tutto alle persone. Poi, mentre torno a casa con le mani sprofondate nelle tasche, mi chiedo a che cosa possa servire parlare con i miei concittadini, spiegare loro quello che penso, vedere sulle loro facce i soliti dubbi di ogni volta, quelli destinati a chi è sempre stato un po’ contro corrente, sciolto dalle logiche politiche e di potere. Si vive un periodo storico così particolare che basta alzare la voce e dire qualcosa di stringente per farsi seguire da qualcuno, ed oramai così deve essere fatto sia da parte di chi è onesto, che da parte di chi onesto quando parla non lo è, perché ambedue resterebbero senz’altro indietro comportandosi diversamente.   
            Quindi rientro nel mio appartamento, mi siedo alla scrivania per godere appieno della mia intimità, e metto giù rapidamente qualche appunto sulla carta per la costituzione faticosa di un mio diario, qualcosa che vuole tenere memoria di questi giorni, di questi pensieri, di questo sentire diffuso che si respira tra le persone. Ma questo pomeriggio non trovo neppure una parola giusta da aggiungere a quanto ho già scritto nei giorni appena trascorsi, così mi fermo, lascio tutto da una parte e poi torno ad uscire di nuovo, con la scusa di andarmene dal tabaccaio a comprarmi delle sigarette che peraltro fumo raramente. Ma sul portone incontro un tizio che ho già rivisto qualche volta, ma con il quale non ho mai parlato. Mi ferma: “non va bene quello che hai detto oggi”, mi fa. “Ci sono delle cose che non hai compreso”, aggiunge sottovoce; “o che forse non hai mai voluto prendere in considerazione”. Lo guardo con interesse, cerco di capire verso dove voglia andare questo suo discorso, e lui, che capisce il mio dubbio, mi respinge dentro l’ingresso del condominio.
            “Devi pagare”, mi fa, senza darmi neppure una qualche motivazione. Tira fuori un lungo coltello, forse per mostrarmi che non scherza, e lo fa con calma, guardandomi, senza un briciolo di esitazione o di perplessità. Improvvisamente mi rendo conto che le cose stanno precipitando molto più seriamente di quanto potevo immaginare, e forse vorrei anche dire qualcosa, cercare di far ragionare in qualche modo questo strano tizio che neppure conosco, ma alla fine decido di restare in silenzio, forse per paura, o per rendermi perfettamente conto delle sue intenzioni, o anche nella semplice attesa della sua prossima mossa. Lui si abbassa leggermente, come rendendosi conto all’improvviso di qualcosa, ma poi mi sferra una coltellata dolorosissima in una coscia, come per mostrarmi la concretezza del suo progetto. Cado a terra, mi esce ovviamente del sangue, ma non è una ferita grave, e lui invece se ne va, aprendo il portone e sparendo senza fretta.

            Bruno Magnolfi  

venerdì 15 maggio 2020

Odioso ostentatore.


          

            Mi stanno cercando. Mi sento braccato, come un animale in fuga, ed ho paura di commettere degli errori che portino rapidamente i miei inseguitori sulle mie tracce. Per questo mi sono infilato in questo scantinato buio e umido, per osservare la strada, in questo momento fortunatamente deserta, dalla grata di ferro che si apre al livello del marciapiede. Si stanno ammalando tutti in questo periodo, sostiene la radio; dicono che sono io che ho diffuso questa loro malattia, anche se sono sano, e devo per questo essere fermato, al più presto possibile, proprio per mettermi in condizione di non nuocere, qualcuno dice per isolarmi, altri per incenerirmi, per chiudere definitivamente con me. Non ho fatto niente di male penso, e se devo essere curato sono disposto a farlo, però la radio non dice così, ed io oramai ho paura di tutto. Hanno iniziato i miei vicini di casa a scansarmi incontrandomi, poi li ho visti a gruppetti che parlavano concitatamente tra loro, che telefonavano, che chiamavano probabilmente le forze dell'ordine, o chissà chi.
Così mi sono allontanato rapidamente da casa mia, ma non ho un luogo sicuro verso dove recarmi, così cerco di cambiare continuamente la mia posizione, fingendo ogni volta per strada di essere uno qualsiasi. In giro ormai non si vede quasi più anima viva, se non quelli con le divise che continuano a perlustrare ogni angolo. Sento dei rumori sopra di me, qualcuno dice: "l'ho visto qua". Parlano di me, non c'è dubbio, quindi devo trovare rapidamente un nuovo rifugio. Esco di corsa dallo scantinato e prendo velocemente lungo il viale. Nessuno sembra seguirmi, e a me non conviene certo andare troppo di fretta, attirerei subito l'attenzione di tutti. Così vado a sistemarmi sotto ad una piccola tettoia al margine di un giardinetto, riparato da un muro alla vista di chi sta transitando lungo la strada. La radio che ho nella tasca dice che va trovato al più presto colui che diffonde il bacillo infernale, e messo in condizioni di non nuocere a tutti quanti. Un giornalista ipotizza che gli untori, come dovrei essere io, siano ormai già una decina in questa città.
Passa una macchina con le sirene spiegate, la situazione sanitaria sta sfuggendo a qualsiasi controllo penso, e se agli ammalati inconsapevoli non viene fornita una via d'uscita efficace le cose d’ora in avanti saranno destinate soltanto a peggiorare. Ho fame, devo mangiare qualcosa, perciò entro in un supermercato qui accanto tenendo il bavero della giacca sul viso, in maniera che nessuno mi riconosca nel caso abbiano diramato per televisione delle fotografie. Si entra due o tre per volta, e tutti hanno la faccia coperta: sto tranquillo, metto velocemente i miei acquisti dentro al cestino e vado alla cassa. Nessuno mi dice qualcosa, pago i miei acquisti e poi esco. Ma la polizia è già lì che mi aspetta, con un paio di volanti messe accanto al largo marciapiede di fronte. Muovo la corsa alla mia destra, sento intimarmi qualcosa alle mie spalle, e dopo un secondo viene sparato un colpo di pistola, probabilmente in aria. Tremo, mi immobilizzo, le mie gambe non tengono, mi arrendo, non posso più ancora fuggire, e in un attimo gli agenti mi sono addosso, anche se nessuno di loro mi tocca. Intervengono subito alcuni infermieri coperti con degli scafandri, mi infilano un ago nel braccio e mi mettono rapidamente nelle condizioni di non reagire.
Mi portano via con un'ambulanza attrezzata, le sirene spiegate, una fretta maledetta, tutti che mostrano un nervosismo incredibile, fino a quando vengo tirato giù con una barella chiusa da plastica trasparente, e subito mi introducono in un reparto speciale, mi girano, mi auscultano, analizzano ogni cosa di me, fanno tutto quello che vogliono in pochi minuti, come dipendesse ogni cosa da quei risultati, da quegli esami, da quelle analisi composte da vetrini, reagenti, campioni, elementi di ogni natura. Non oppongo alcuna reazione, sono qui, sembro dirgli a tutti quanti, fate pure ciò che volete. Non ho niente, mi dicono dopo un po’; non sono positivo, posso anche andarmene via, dove voglio; anzi, mi dice un medico, devo immediatamente lasciare libero il luogo, perché adesso sono soltanto un intralcio, un ingombro, uno che oramai dà soltanto fastidio.

Bruno Magnolfi

lunedì 11 maggio 2020

Casa di riposo.


        

            Non ci sono più state delle vere giornate di riposo, da quando è iniziato tutto. Ho continuato a dirmi da sola, quasi continuamente, che questo è soltanto il mio lavoro, e quelle che mi trovo davanti a me durante questi turni infiniti alla casa di riposo non sono neppure delle persone vere, perché non hanno niente di simile a me oppure ai miei colleghi: sono soltanto coloro di cui devo occuparmi, uomini e donne anziani come sono, spesso ammalati gravi, infermi, qualche volta alla fine, soltanto corpi, di cui noi del personale di assistenza ci dobbiamo prendere cura, così come è stato già previsto dai nostri protocolli di contratto, fino al possibile raggiungimento del loro ultimo momento, e dopo basta, senza neanche conservarne poi troppa memoria. Perché, se per esempio cominciassi a farmi prendere emotivamente da quelle loro espressioni, dalle piccole storie che certe volte qualcuno mi ha raccontato, da quegli occhi imploranti, dalle mani che spesso cercano di stringermi, non potrei mai più fare questo mestiere. Distaccata, ecco come devo essere, professionale, con lo sguardo sugli strumenti quando ci sono, per controllare che tutto vada bene, che non si verifichino delle dimenticanze nelle terapie, nell’ascolto dei loro lamenti, oppure in quel continuo accudire di ogni bisogno, di qualsiasi necessità; e poi rimanermene sempre lontana il più possibile da quel particolare modo di essere stato di ognuno di loro per tutti quegli anni che portano sopra le spalle, ed infine restare indifferente anche a quella personale maniera che molti hanno adesso nella semplice dimostrazione di aver addirittura vissuto per tutto questo tempo. 
            Non si lamentano sempre, molti di loro anzi non dicono quasi nulla, lasciano con distacco al personale che hanno più vicino, sempre pronto ad occuparsi di tutto al posto loro, il compito di fare qualsiasi cosa sia necessaria, qualsiasi cosa di cui se ne ravveda l’emergenza, e dopo basta. Non ti guardano nemmeno, in tanti casi, quasi fossero indifferenti, disinteressati sia di noi del personale, che di ciò che li circonda, come se anche loro si fossero in qualche modo già distaccati dal proprio corpo, ed adesso osservassero se stessi quasi da una diversa dimensione. Certe volte mi arrabbio con qualcuno di loro, cerca di scuoterlo, di fargli prendere coscienza di quello che sta succedendo, di quello che rappresentano, e della vita che ancora possono vivere se reagiscono, ma non ottengo mai assolutamente niente, e resto lì come una sciocca, a chiedermi come mai continuo a perdere del tempo, quando in questo luogo devo solamente lavorare.
            Giunge poi questa donna dalla pelle rinsecchita e tutta grinze a dirmi che loro sono soltanto tutti vecchi, e per questo sono deboli, fragili i loro organi, prendono i bacilli con facilità, quindi si ammalano, soffrono, patiscono lentamente cercando forse di pensare a tutto ciò che neppure si ricordano del proprio passato, e di quello che è stato negli anni precedenti, e così sono anche più soli, isolati da una reale incapacità a difendersi, facili prede di qualsiasi malattia voglia presentarsi. La guardo un attimo: “non si preoccupi”, le dico, “sono cose che sappiamo bene tra tutti i miei colleghi; noi facciamo il massimo, voi dovete soltanto fare la vostra parte, e lasciarci lavorare”. Lei mi guarda, forse vorrebbe soltanto reclamare qualcosa, farmi comprendere con le sue maniere lente che non è sempre stato così, che c’è stato anche un lungo periodo della loro vita in cui hanno provato delle emozioni, dei forti sentimenti, magari dando prova d’intelligenza e di indubbie capacità d’intervento nei campi più disparati, che fosse stato l’andamento della propria famiglia o le redini di una complessa società, e che adesso è rimasto tutto dietro le loro spalle fragili, e che non c’è più altro da fare. Mi fermo, resto colpita dalle sue parole, così le faccio una carezza, ma subito le dico con freddezza che non è certo torturandosi che le cose potranno migliorare. Poi esco, vado subito nello spogliatoio deserto, apro l’armadietto dove stanno le mie cose, e subito inizio a piangere come una sciocca, anche se lo so, lo so benissimo, che non dovrei mai farlo.       

            Bruno Magnolfi   

lunedì 4 maggio 2020

Chiazza di vita.


          

            Sto male, inutile finga ancora con i miei familiari, e a dirla tutta anche con me stesso. Dopo pranzo mi sono subito chiuso a chiave nella mia camera, ad aspettare che accadesse qualcosa che pareva ormai impellente nel mio organismo, ma invece niente è parso mutare, se non che ho perduto poco per volta qualsiasi volontà di rialzarmi da questa sedia dove mi sono sistemato. Sono stanco, spossato, incapace di affrontare qualsiasi decisione, così per adesso resto qua, ad osservare il muro di fronte ai miei occhi, come se sopra questa superficie imbiancata ci fosse già scritto qualcosa sul mio futuro. Non c'è più niente che io desideri davvero, se non essere lasciato da solo ad osservare i contorni appena evidenti di questa diffusa macchia che vedo sulla superficie della parete sopra al letto. Potrebbe anche essere una semplice infiltrazione d'umido, oppure una sostanza di chissà quale natura sbattuta là sopra per malagrazia chissà quanti anni addietro: una bevanda, una boccetta d’inchiostro, un succo di frutta zuccherino, un bicchiere di vino o d'acquavite, qualsiasi cosa scagliata di proposito con forza contro questo muro, magari per una ben giustificata ragione, oppure per un’altra quasi del tutto insulsa, e ricoperta in seguito, per superamento delle cose, con alcune mani di vernice, e da qualche tempo però riaffiorata, a far lieve mostra di sé.
Bussano alla porta, mi chiedono dall'uscio semiaperto se adesso abbia voglia di cenare, oppure se ci sia qualcosa che desideri. Fo cenno che non ho voglia di nulla, che non stiano a preoccuparsi per me, forse con una pastiglia riuscirò più tardi persino a stare meglio. Resto solo, e sono sicuro non miglioreranno affatto le mie condizioni di salute: sento la gola chiudersi, il respiro farsi sempre più affannoso, le forze mancarmi persino per lo svolgimento di qualsiasi sciocchezza. Guardo la macchia: adesso mi sembra persino più evidente, come se desiderasse soltanto far parlare di sé, e di qualcosa accaduto in questa stanza quando vi abitavano tutt’altre persone, diversa gente, inquilini forse di passaggio, o magari antichi affittuari cacciati via in un giorno orribile per semplice e sofferta morosità. D’altronde questa abitazione risale ad una costruzione effettuata alla metà del secolo passato, chissà quante modifiche, tinteggiature, traslochi e spostamenti di mobilio ha già visto in tutto questo tempo. Mi corico sul letto, anche da qui vedo la macchia, sono convinto che porti con sé qualcosa di significativo, anche se in questo momento incomprensibile.
Se la guardo attentamente mi pare che assuma una forma persino riconoscibile, come a volte succede facilmente con certe nuvole, che sembrano profili, animali, espressioni, miriadi di cose che in poco tempo svaniscono nel cielo, così come sono nate. Ma in questo caso niente sembra mutare, se non le mie condizioni di salute che paiono velocemente peggiorare, tanto da farmi urlare aiuto, per quanto non abbia più neanche la forza di parlare. Accorrono i miei familiari, tenendosi a distanza per ciò che hanno benissimo compreso, e si coprono immediatamente le vie aeree così come è stato già raccomandato, telefonando ai medici, all’ospedale, a chiunque possa in questo tragico momento riuscire a soccorrermi. Sono pallido, dicono, emaciato, senza un briciolo di vitalità, come se tutto il mio organismo stesse rapidamente collassando. Attendo, con il respiro che mi manca, ed infine giungono i soccorsi, persone chiuse dentro scafandri protettivi, capaci di insaccarmi velocemente come un salame e di portarmi via, dove forse qualche cura adatta potrà ridarmi un filo si speranza. Infine mi issano rapidamente sopra una barella, mi intubano con l’aria di una bombola, mi infilano un ago dentro un braccio, ed iniziano con lo spostarmi dalla mia stanza, dal mio piccolo rifugio dove ho trascorso molti degli ultimi momenti fino adesso. Mi voltano, e proprio mentre stiamo uscendo dalla porta riesco ancora per un attimo ad aprire gli occhi affaticati e a dare un ultimo sguardo d’insieme alla mia camera. La macchia sopra al letto adesso non c’è più, nascosta, asciugata, riassorbita dal muro forse, ed ha scelto rapidamente di tornare a nascondersi sotto all’intonaco della parete; almeno fino a quando non riuscirò a ritornarmene qua dentro.

Bruno Magnolfi