mercoledì 28 ottobre 2020

Tirannia della quotidianità.

     

 

            Ho fatto un elenco dettagliato di tutti i miei impegni, e li ho messi poi in fila con grande  precisione; ma adesso che li posso osservare con calma non ne sono molto contento. Mi paiono di un numero esorbitante, una serie infinita di piccole e stupide cose, certe volte persino in contraddizione tra di loro per natura o per scopo, tanto che in questo momento mi sento portato quasi ad ignorarle completamente. Forse è proprio questo inconsciamente a cui aspiro: essere a conoscenza di tutti questi impicci a cui dovrei proprio far fronte, per provare poi il gusto sottile di evitarli uno per uno. Già, perché continuo a darmi delle giustificazioni per non fare una cosa oppure quell'altra: dimenticarmi di un appuntamento, o magari anche di una scadenza, evitare di tagliare la barba per più giorni, oppure persino tralasciare di riempire il mio frigorifero di generi alimentari, ed in questa maniera, quando questo succede, mi viene spesso di tirare un sospiro di sollievo, come se una forza estranea a me stesso, oppure il semplice caso, dico io, fosse stato capace di  alleggerirmi di qualcuno tra tutti i miei compiti. E’ inevitabile sentirsi stufi di tutte queste cose da fare, credo, così aspiro continuamente a disinteressarmi di qualsiasi faccenda, tanto che alla fine vengo considerato, da chi mi conosce,  un tipo lunatico con il difetto della sbadataggine, e proprio per questo forse lasciato in disparte il più delle volte.

            Però non mi interessa, formulo a voce alta; tiro avanti come ho fatto sempre, ed anche se mi ritrovo un po’ troppo spesso da solo, giro per il mio quartiere quasi senza avere una meta, lasciandomi prendere praticamente ogni giorno da quanto maggiormente mi va sul momento. Così certe volte mi ritrovo a curiosare presso alcuni rigattieri che accumulano nei loro bugigattoli un sacco di cianfrusaglie per lo più inutili o inservibili, ma per me assolutamente affascinanti. Confronto i tanti soprammobili, le lampade da tavolo, gli orologi ormai fermi da appendere alle pareti, le piccole specchiere da camera, ed anche se alla fine non compro quasi mai nulla quando vado a girellare là in mezzo, però mi perdo volentieri dietro al pensiero di un’oggettistica inutile, e certe volte anche assurda. E’ la mia personalità che mi porta ad essere in questa maniera, almeno credo, ed io non mi sento certo nella condizione di oppormi alla mia natura.

            Perciò quando un vicino di casa che conosco da sempre suona il mio campanello per avvertirmi di avere ereditato da poco un piccolo baule in legno pieno di vecchi libri che non sa neppure valutare, io mi precipito nel suo appartamento, e comprendendo immediatamente la preziosità di quella roba, gli offro subito una certa somma per acquistarla e portarmela a casa. Lui naturalmente vuole ancora più soldi, così andiamo avanti a discutere per una buona mezz’ora, ma alla fine accettiamo ambedue un compromesso, e lui mi aiuta volentieri a trasportare il piccolo baule nelle mie stanze. Quando infine chiudo la porta dietro le sue spalle, sento di essere almeno per un momento una persona felice: non mi interessa più niente di prepararmi il pranzo, riordinare la casa, oppure cambiarmi d’abito: voglio soltanto star qui su una sedia a leggiucchiare questi testi polverosi e ingialliti, assaporando tutto il gusto di qualcosa che difficilmente, se non ci fosse stata questa strana combinazione, avrei mai potuto avere tra le mie mani. Sono libri, annuisco tra me; piccoli e vecchi condensati di una grande cultura, credo; nomi di scrittori ormai tutti spariti, però sicuramente importantissimi, e soprattutto elementi imparagonabili al vuoto di queste giornate composte soltanto da obblighi e da impegni, soggette soltanto alla tirannia delle cose da fare per forza.

 

            Bruno Magnolfi 

          

           

domenica 25 ottobre 2020

Inutili tentativi.

 

 

            "Mi sento confuso", le fo sottovoce senza guardarla, tanto per prendere tempo. "In questo momento non saprei neppure prendere le più piccole decisioni". Continuiamo a muoverci in macchina lungo certe strade secondarie fuori città, e intanto, mentre guardiamo l'asfalto davanti a noi, cerchiamo di parlare a ruota libera intorno a tutti gli argomenti che ci vengono a mente, anche se personalmente proseguo ad evitare di buttare là delle affermazioni avventate che non sono del tutto sicuro in seguito di poter mantenere come vere. Lei guida la sua auto con calma, ed osserva con attenzione ogni particolare delle case coloniche e della vegetazione che ci sfilano accanto, alla pari di come si sta mostrando estremamente interessata sia ad ogni parola che dico, sia alla maniera con cui dico le cose. "Potremmo fermarci a bere qualcosa lungo il prossimo paese", le fo tanto per alleggerire, e lei per un po' non risponde, quasi riflettesse sulla decisione migliore da prendere. "Va bene", afferma alla fine con un certo sussiego; perciò, senza neppure dire altro, rallentiamo lungo un centro abitato, alla ricerca del luogo più giusto per fare quello che abbiamo deciso, ed alla fine arrestiamo la macchina.

            Su un tavolino all'aperto di un locale alla buona ci lasciamo servire un panino imbottito tagliato in due parti, e naturalmente anche una birra ciascuno. "Penso che oramai si debba prendere una decisione", dice lei senza guardarmi, come fosse assorbita da ben altre cose. Lo so, lo sento, che lentamente stiamo arrivando al punto essenziale della giornata, così cerco di essere divertente toccandomi la fronte più volte come fossi perplesso, e spiegando che in questo momento non saprei proprio decidermi su quale parte prendere delle due metà di quell'appetitoso panino. Lei taglia subito corto, e addentando la sua parte di merenda senza alcuna incertezza, dice che dobbiamo mollarci, non c’è più alcun motivo per restare ancora insieme a prenderci in giro. “Non sono d’accordo”, le fo subito senza spiegare il motivo di una frase del genere, che mi è soltanto tornata a mente dopo aver visto qualche sera fa una vecchia pellicola del cinema passata in televisione. “Il fatto è che abbiamo ancora troppe cose in comune”, le dico buttando giù un sorso generoso della mia birra.

            Lei chiede del bagno, così si allontana lasciandomi a meditare sulle prossime mosse. Non so se in questo momento posso fare a meno di lei, rifletto. In fondo ci sono le tante abitudini che ho maturato in questi ultimi due o tre anni: passare da casa sua verso sera, quasi all'ora di cena ad esempio, e poi fingere di farle un favore ogni volta che resto a dormire da lei. Oppure improvvisare entusiasmo per un'uscita verso un cinema o anche a teatro, quando proprio non ho niente di meglio da fare. Qualcuno deve pur stendere la tovaglia sul tavolo se vogliamo mangiare, ho sempre pensato. Il mio barcamenarmi ogni tanto con qualche lavoretto in ambito culturale, si sa, non mi permette di fare dei grandi gesti. Così ho sempre lasciato che lei pagasse i conti del nostro vedersi, considerato che possiede dei bei depositi in banca, e lei di questo non si è mai lamentata, a dirla tutta.

            Poi torna, dice che ha preso una decisione, non vuole più neanche vedermi, almeno per qualche tempo. "Hai ragione", dico subito cercando di essere convincente. "Non ha senso trascinare le cose senza un vero motivo". Lei mi guarda, forse le dispiace già di essere stata affrettata, ed io mi volto a guardare qualcosa, disinteressandomi della sua eventuale espressione di leggera sorpresa, poi mi alzo dal tavolo e pago quanto abbiamo appena consumato, lasciando persino una mancia. "Andiamo?", le fo poi con indifferenza, e lei si alza a sua volta, ma lentamente, come non riconoscesse del tutto i miei modi di fare. Saliamo in macchina, io stendo le gambe e fingo di riposarmi, lei guida nervosamente fino a quando non arriviamo. "Allora ti saluto", le fo senza guardarla ma assumendo un'espressione leggera e facendole quasi un sorriso. Lei non dice un bel niente, però mi guarda adesso con grande intensità. Mi chiamerà tra una o due settimane al massimo penso, e poi ricominceremo alla stessa maniera di prima. Certe cose non si annullano mai, inutile persino tentarle, rifletto.

 

          Bruno Magnolfi


           

lunedì 19 ottobre 2020

Spirito marcio nel corpo.

 

          

            Adesso, anche in questo preciso istante, io mi sento finalmente sicura di quello che sono. Ho fatto tutto ciò che potevo per migliorare la mia situazione, anche se rispetto agli sforzi e alle grandi risorse che ho impiegato in tutto questo tempo, alla fine ho ottenuto un risultato che qualcuno giudicherebbe piuttosto modesto. Ma questo non ha troppa importanza, ciò che conta per me è aver preso coscienza della mia situazione, di come sono fatta, dei miei limiti, delle mie capacità. Anche se tutto questo è qualcosa che tengo assolutamente celato dentro me stessa. Continuo a girare per casa dando ogni tanto uno sguardo fuori dalla finestra di cucina, perché vorrei uscire, certe volte, incontrare delle persone, sentirmi libera di respirare l’aria di questi giorni. Ma non posso. Devo resistere rinchiusa tra queste mura ed accettare quanto la sorte mi ha destinato. Vedo che ci sono degli individui fuori dai vetri che girano lungo i marciapiedi senza neppure rendersi conto di quello che hanno. Io posso solo attendere che qualcosa succeda, per poter cambiare la mia situazione.

            Torna mio fratello, chiede se io abbia già preso le pillole, gli fo subito un cenno affermativo con la testa, poi abbasso lo sguardo, mi osservo le mani, stringo la striscia di stoffa che tengo annodata alla vita sopra la mia vestaglia da camera, e lui mi guarda per un lungo momento, forse riflettendo che mi sono fatta ancora più magra di com'ero neppure troppo tempo più addietro. Sono nervosa, irascibile, muovo gli occhi in tutte le direzioni, stringo con forza, alternandola ogni poco, ognuna delle mie mani nell'altra, e brucio rapidamente dentro me stessa tutto quanto mi risulta possibile. Nel pomeriggio però arriverà finalmente l'infermiera, questa specie di tuttologa calma e piacevole che cerca di farmi parlare, di pormi delle domande senza mai insistere, di allontanare i miei pensieri dagli argomenti verso cui autonomamente tendono a rifugiarsi quasi in continuazione. Lo so che sono malata, lo sanno tutti, e difatti tutti si adoperano per tenere la mia situazione sotto controllo, però io adesso ho piena coscienza delle mie condizioni, e lascio perciò a tutti coloro che desiderano occuparsi di me, che lo facciano in maniera completa, abbandonandomi a loro in modo quasi totale, senza suscitare ulteriori preoccupazioni a nessuno.

            Nessuno tra chi mi circonda crederebbe mai che il mio corpo tenta ogni giorno di liberarsi dello spirito da cui è abitato. C’è un’occlusione che non ne permette il passaggio, ed anche se quando mi ritrovo da sola apro la bocca per quanto mi riesca possibile, tutto quanto resta imprigionato dentro di me, incollato all’interno, fermo chissà dove, tra gli organi, in mezzo alle vene, tra le viscere e la pelle rugosa. Vorrei tanto abbandonare una volta per tutte questa sensazione che sinceramente mi opprime, questo sentirmi ingabbiata da una sofferenza continua che non so mai addebitare a nulla di realmente preciso. In ogni caso so cosa io sono, ed anche soltanto per questo mi ritengo fortunata: guardo le persone che camminano fuori dalla mia finestra socchiusa, ed alla fine invidio soltanto la parte di loro che tenta di essere libera, non riuscendoci affatto, ignorando del tutto di avere proprio come me uno spirito avvelenato che dall’interno di ogni corpo li opprime. Ne ho pena, ecco tutto, non riescono a rendersi conto di come stiano realmente le cose.    

            Mio fratello dice certe volte che devo disinteressarmi maggiormente della vita degli altri, e concentrarmi piuttosto sulla mia condizione. Faccio un cenno affermativo con la testa in quei casi, perché so che lui non potrebbe comprendermi mai. Il suo spirito ha completamente occupato il suo corpo, e non è più padrone di sé, perciò lascia che tutto quello che osserva d’intorno assuma il suo stesso profilo. Anche le persone che si muovono lungo la strada ormai sono fritte: si tratta di rendersi conto che ognuno è chiuso in se stesso, così che l’unica via è quella di attendere che lo spirito marcio che prosegue ad opprimere tutti, lasci finalmente in libertà ogni corpo che abita, perché è soltanto in questa maniera che ci potrà essere davvero un futuro: ritrovarsi un bel giorno ognuno di noi del tutto cavo di ogni presenza maligna, e poi insieme riderne appieno.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 15 ottobre 2020

Professionista delle parole.

 

        

 

            Sono una persona normale, almeno credo. Ho cercato assiduamente anni fa di esercitare l’attività di giornalista, ma adesso invece scrivo per i miei ex-colleghi, tutti coloro che mi chiedono di preparare un pezzo su di un argomento oppure su un altro. Mi documento, preparo i materiali, le parole e le frasi salienti, poi li metto assieme curando la prosa. Un professionista, ecco quello che mi considero, e svolgo un mestiere in fondo paragonabile a molti altri. Generalmente preparo anche gli interventi che devono tenere certi individui davanti ad una platea di persone, e così cerco di immaginare il più possibile la situazione esatta che loro si troveranno di fronte, il genere di persone a cui parleranno, gli argomenti che si troveranno a trattare, il senso che per proprio desiderio vorranno dare al loro discorso, in modo da usare certi aggettivi invece di altri, ad esempio, o una certa dialettica al posto di un'altra, e così via. Però mi capita anche che venga richiesta una breve biografia di un certo tizio, o anche la descrizione dettagliata di qualche materiale che stanno per mettere in produzione, oppure di un apparecchio appena inventato, e perciò da magnificare. Tutto uguale per me, basta che le cose vadano avanti. Poi ultimamente arrivano per posta elettronica anche delle richieste da parte di scrittori di gialli e di narrativa più o meno noti, che chiedono con garbo il mio aiuto per qualche capitolo. Studio le situazioni, mi faccio descrivere i loro intenti, considero lo stile che vogliono dare alle cose, infine metto giù il pezzo, e generalmente risponde piuttosto bene alle loro aspettative.

            Mi trovo a domandarmi certe volte, ma sempre più spesso, che razza di presente stiamo vivendo, visto che non riusciamo più ad essere neppure autentici, e che crediamo senza battere ciglio ad esseri umani oramai abituati a pagare qualsiasi servizio, persino quelli più insospettabili. Tutto viene acquistato, non mi meraviglierei per nulla se mi arrivasse un giorno di questi la richiesta per delle poesie da mettere in un libro sotto al nome di qualche scrittore magari famoso. Non dobbiamo meravigliarci di niente mi dico, piuttosto cercare di galleggiare in qualche maniera, e probabilmente è quello che fanno anche certi narratori a corto di idee, che non sanno neanche più di che cosa parlare con i loro lettori. E forse questi ultimi sono i più ingenui di tutti, quelli che credono che ci sia ancora del vero dietro le parole dei politici, dei giornalisti, dei grandi letterati capaci di comporre centinaia di pagine di storie senza battere ciglio. Nessuno ne ha più davvero la voglia, questo è il punto saliente; perciò il mio mestiere è quello che serve oggigiorno: un amanuense contemporaneo con il gusto e la volontà a pagamento di mettere giù pagine e pagine pensate e sentite senza pensarle e sentirle davvero, applicandosi a mille diversi argomenti con il distacco di chi si sente completamente disincantato.

            Per questo credo di essere molto normale. Perché penso che in giro si stia continuando a trincerarsi dentro una bolla di accettazione incondizionata su qualsiasi argomento venga trattato, come se questo fosse dettato dall’anima pura ed eletta di qualche tizio ispirato, quasi perso nella ricerca di qualcosa di nuovo e di meraviglioso da dire, non sapendo che oramai è stato già detto tutto, e che veramente di nuovo, in ogni libro pubblicato di fresco, con ogni probabilità c’è soltanto la sua copertina; perché il resto è soltanto retorica.       

 

            Bruno Magnolfi

martedì 6 ottobre 2020

Sfortuna sfacciata.

 

       

            Le sorti della mia giornata paiono gingillarsi con me, e in qualche caso prendermi deliberatamente in giro durante tutte quelle volte in cui ritengo di aver quasi ottenuto dei risultati minimamente positivi dalle mie attività. Non so come sia, però mi sembra ogni volta sempre più difficile riuscire in quello che ogni volta desidero fare, che sia anche soltanto compiere delle piccole operazioni mondane, come può essere acquistare qualcosa, sostituire una lampadina fulminata del mio appartamento, preoccuparmi di pagare l’affitto, oppure cucinarmi un piatto di cui ho sentito tessere le lodi per la squisita bontà. Non mi riesce ormai quasi nulla, questo è il punto, perché laddove l’elemento casuale entra nel circuito delle possibilità, a me si riserva quasi sempre la soluzione peggiore, quella che mi fa persino rimpiangere di aver perso solo del tempo nel compiere quel tentativo. Non mi piace avere sfortuna, però capita ogni poco che le cose non vadano bene per me, non tanto a riguardo degli elementi importanti o delle attività fondamentali di una persona come posso essere io, bensì per le cose più piccole a cui devo badare, le stupidaggini quotidiane alle quali sto dietro, quelle sciocchezze a cui solitamente ognuno concede anche meno peso che ad altre, ma che quando si piazzano di traverso risultano poi le più difficili da digerire.

            Certe volte ho cercato di comprendere se ci fosse stato un nesso tra il mio modo abituale di comportamento e le minute sventure accadute ogni tanto nei miei tentativi di sentirmi una persona normale, ma non sono mai riuscito a trovare una relazione costante tra le due cose, tolto il fatto di immaginare spesso il risultato negativo ancora prima che questo si verificasse. Non so come si possa semplicemente accettare, ma di fatto quando qualcosa va storto - e si brucia una padella con dentro le uova, oppure scosto la tenda della finestra e viene subito giù il bastone a cui è stata fissata, vado a pagare una bolletta all’ufficio postale e c’è uno sciopero in corso o magari è appena avvenuta una cruenta rapina - mi domando se fosse stato possibile evitare quella piccola ulteriore calamità. Non trovo mai una risposta, ma vedo continuamente attorno a me persone appagate per quello che fanno, ogni volta con risultati per loro del tutto soddisfacenti. 

            Alla fine ho capito che probabilmente sono io che non riesco a fare le cose che fanno tutti, soltanto perché qualcosa si interpone immancabilmente tra me ed il raggiungimento del risultato che cerco, perciò non posso tentare di essere una persona normale, semplicemente perché in qualche maniera proprio non lo sono. Questa consapevolezza mi ha fatto tirare improvvisamente un grosso sospiro di sollievo. Non si tratta perciò di una particolare forma di sfortuna, di uno strano e personale malocchio, di una disgraziata iella cucita sopra di me, bensì di una mia predisposizione naturale ad essere sfortunato. Devo conviverci, è tutto qua. Devo soltanto alzare le spalle e tirare avanti come se tutto andasse ogni volta per il verso giusto, anche se non è vero.

            Così ho iniziato a guardare le cose in un’altra maniera. Oggi la mia vicina di casa ad esempio mi ha bussato alla porta e mi ha chiesto in prestito un apriscatole. Ovviamente mi sono offerto di aprirle direttamente le scatolette che le servivano, e lei con un gran sorriso mi ha invitato a casa sua per la cena. Niente di speciale, però è stato un inizio, qualcosa che comunque è andato a buon fine, e mi ha reso appagato dei miei comportamenti gentili e rilassati. Domani con indifferenza affronterò la giornata che mi si apre davanti, e farò tutto quello che serve per renderla nel miglior modo fruttuosa, senza paure, senza immaginare già in precedenza quanto di negativo si potrà forse verificare, considerato che manterrò un contegno neutrale in qualsiasi caso, non perché mi senta già rassegnato, ma soltanto perché predisposto a qualsiasi evenienza, ritenendomi quindi soddisfatto senza alcun dubbio, in un caso o nell’altro.

 

            Bruno Magnolfi