venerdì 26 aprile 2024

Senza riferire niente a nessuno.


            Oggi sono uscito da casa nella tarda mattinata, quasi contrariamente alle mie abitudini, e nonostante fossi stato in piedi tutta la notte per lavorare nel solito albergo come portiere di notte, adesso mi sentivo bene, pressappoco in perfetta forma. Volevo fare degli acquisti di varia natura, e per questo motivo mi sono infilato subito nel grande mercato rionale coperto, alla ricerca di quanto mi serviva. Ho scorso lungo i molti banchi disposti in perfetta fila, ed ho apprezzato i mille colori delle merci esposte, soprattutto quelli della frutta e degli ortaggi. Poi mi sono accorto, con la coda degli occhi, che c’era un ragazzo che mi seguiva, e quando mi sono voltato per guardarlo meglio, mi sono reso conto che era la mia solita ombra, io stesso, cioè quello che ero io quasi quarant’anni fa. Mi sono fermato per osservarlo, e lui mi ha osservato scrupolosamente da una distanza di diversi metri, restando fermo anche lui, ma con un’espressione sopra la faccia uguale a quella di colui che adesso non si sta affatto divertendo, continuando ad inseguire, per così dire, il proprio futuro. <<Paolo>>, gli ho detto allora; <<Credevo ti facessi vedere soltanto nel caso in cui fossi da solo; ma qui siamo in mezzo ad un sacco di gente, che cosa cerchi di fare, di dimostrare che sei vivo, che sei in carne ed ossa, che hai la capacità di camuffarti da persona, anche se sappiamo bene noi due che sono soltanto le mie memorie che riescono a farti manifestare?>>. Come sempre lui ha alzato le spalle guardando qualcosa vicino a sé, poi ha atteso che io riprendessi a muovermi tra i banchi per sfilarmi dietro di nuovo. Quando sono tornato a voltarmi, comunque, era già sparito, anche se qualche cliente del mercato mi stava osservando, avendo notato il mio parlare da solo.

            Mi sono fatto riempire dai negozianti un paio di buste di verdure appetitose, ho pagato quanto dovuto, poi ho ripreso la via verso casa, sicuro che non sarei rimasto a lungo da solo. Già salendo le scale condominiali per giungere al mio piccolo appartamento, lui era là, dietro di me, con la sua solita indifferenza. Poi ho aperto l’uscio ed ho lasciato che Paolo entrasse con me, senza trovare niente da dirgli. <<Ti sei ridotto piuttosto male>>, ha fatto lui dopo un po’; <<Mi pare che tu non sia riuscito a fare molta strada, nonostante lo sgomitare incessante>>. Con calma ho iniziato a sistemare gli acquisti, senza guardarlo, poi ho subito messo sul fuoco qualcosa, ed infine ho replicato sottovoce che la colpa di tutto questo era soltanto la sua, con quei suoi modi da ragazzo solitario, incapace di stare con gli altri e di chiedere anche una minima cosa a chi lo aveva avuto vicino nei suoi anni di ragazzo. <<Forse>>, fa poi lui senza accusare il colpo; <<In ogni caso io ho sempre manifestato una mia personalità, senza mai arrivare a dei compromessi con gli altri. Credo sia un valore essere capaci di questo, e tu oggi dovresti esserne orgoglioso, piuttosto che cercare delle responsabilità nel tuo passato>>. Annuisco, tanto su questo tema non avrò mai la possibilità di avere una sua approvazione.

Mi muovo per la cucina cercando il coperchio per una pentola, e mi accorgo che lui è già andato via. Sono convinto che non riuscirò mai a liberarmi di questa sua presenza, e soprattutto di questa sua continua insistenza nell’infondere in me il senso di colpa che io vorrei almeno condividere in parti uguali insieme a questo ragazzo. È come se lui mi spingesse ad accollarmi tutte le responsabilità possibili, laddove io da tempo mi sono ormai rassegnato a vivere delle giornate normali, senza aspirare a niente di particolare, accontentandomi semplicemente di quello che ho. Perciò me la prendo con lui, con i suoi strani desideri di riscatto, quasi avesse bisogno di venire a istigare dentro di me la possibilità di una vendetta nei confronti di tutto quello che lui ha dovuto accettare e subire a testa bassa, nei suoi anni lontani da ragazzo sbandato quale era. Secondo lui, dovrei sentirmi irritato da tutto ciò che sta adesso intorno a me, e non dovrei in nessun caso accettare tutto ciò senza almeno un moto di ribellione, subendo quel che mi è toccato di portare avanti. Non lo so, forse una parte di me prosegue adesso a dargli ragione, ma nel complesso non credo sia il caso di inacidirsi troppo se le cose sono andate in una certa maniera.

Mi trovo a riflettere, qualche volta, a quello che avrei potuto tentare di fare qualche anno addietro, quando tutto era ancora possibile; ma non si può certo vivere di rimpianti, e se in questo momento non trovo più l’entusiasmo per affrontare delle nuove avventure ed intraprendere dei diversi percorsi di vita, mi pare tutto estremamente normale. Ma questo ragazzo non si accontenta che io sia così, e forse è possibile che dentro alla sua testa prosegua come a ribollire qualcosa, qualcosa che sta ben radicato tra i suoi pensieri, e credo che lui non abbia mai riferito a nessuno.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 22 aprile 2024

Dalla parte avvantaggiata.


            La mamma ha detto che mio padre è stato trattenuto in Germania per delle ragioni amministrative. Non ho domandato niente, non mi è proprio parso il caso di chiederle altro, anche perché mi è sembrato già tutto chiaro, pur non comprendendo completamente quelle parole, fidandomi a naso del suo tono di voce rassicurante. Un paio di volte mi è capitato di entrare all’interno del rimorchio vuoto dell’autocarro di mio padre, e mi è parso assolutamente enorme, ho pensato perfino che si sarebbe quasi potuto giocare là dentro una partita al pallone, in quattro o cinque. Lui mi ha detto che veniva riempito ogni volta di ogni genere di pianali di merci e di scatoloni, e poi toccava alle sue capacità di guida portare tutta quella roba in giro per il mondo. Mi è sempre apparso incredibile che una persona da sola riuscisse a far spostare e a far marciare quell’enormità, ma poi ho visto qualche volta mio padre che faceva delle piccole manovre con il suo autocarro, e alla fine tutto mi è sembrato quasi normale, anche se ovviamente difficilissimo. Infine, lui è tornato a casa, ha detto a me e alla mamma che erano state trovate delle persone dentro al cassone del suo autocarro, e che lui era stato incolpato di traffico dell’emigrazione clandestina, che non so bene cosa possa significare, anche se mio padre in ogni caso è riuscito a dimostrare di non sapere nulla di quella gente.

            I miei compagni di classe hanno iniziato in questi giorni a darsi di gomito soltanto nel vedermi arrivare, e a nessuno di loro comunque è presa più la voglia di ridere in mia presenza, come certe volte era accaduto, forse perché all’improvviso, quanto successo a mio padre, pur innocente, ha proiettato la nostra famiglia in un mondo del malaffare da cui resta doveroso prendere le distanze. Ma più che scansarmi, i compagni hanno iniziato ad avere per me una specie di strano rispetto, quasi che fossi stato riconosciuto, una volta per tutte, come uno che sa stare al mondo, e che non ha paura di superare le regole del normale comportarsi. Non mi sono dato delle arie per questo, ed ho continuato a tenere il comportamento di sempre, anche perché tutta questa fase non è durata neppure molto tempo. Mio padre poi ha ripreso a trasportare le merci con il suo autocarro, proprio come aveva fatto da sempre, ed io mi sono chiesto diverse volte in che maniera fosse possibile per gli emigranti farsi portare in giro per tutte quelle strade infinite, rannicchiato tra degli scatoloni fetenti dentro un rimorchio. Mi sono svegliato di soprassalto nel sonno con un senso di claustrofobia, certe volte, ed ho iniziato ad apprezzare ancora di più l’aria libera da essere respirata.

Adesso, mentre vado a prendere servizio come sempre nell’albergo dove lavoro, mi pare che la mia famiglia non abbia detto quella volta tutta la verità. Forse c’era stata della connivenza da parte di mio padre nel far varcare il confine a quei clandestini, o forse lui a quell’epoca era stato costretto da qualcuno, magari da qualche forza oscura, a nascondere quella gente dentro al suo rimorchio. Mio padre ora non c’è più da molti anni per poter discolparsi, e mia madre sta dentro ad una casa di riposo, avendo perso del tutto la propria memoria. Il dubbio perciò mi rimane, anche se mi sembra abbastanza normale che al giorno d’oggi si possa vivere persino sul confine della legalità. Il mio presente, invece, forse proprio per questo, è fatto di nulla, ed io che sono già stato una volta e a lungo in prigione, non posso commettere degli altri errori; perciò, mi accontento di quello che ho, senza pretendere altro. Quando è stato il mio momento, anche io ho cercato di mettere assieme un po’ di soldi, senza guardare in faccia chi mi stesse attorno: ma in seguito ho pensato che quella non fosse per nessuno una strada minimamente corretta, restando comunque un modo di vivere alle spalle degli altri.

 Quando sono stato in galera, ho conosciuto da vicino dei veri clandestini che nella loro vita hanno anche attraversato delle frontiere e delle nazioni nel tentativo di migliorare la propria esistenza, la maggior parte delle volte non riuscendo affatto nell’impresa. A nessuno ho mai detto ciò di cui era stato incolpato mio padre tanti anni prima, ma questo senso di colpa nei loro confronti è sempre rimasto dentro di me, anche se riconosco quanto mio padre probabilmente non avesse avuto un vero ruolo attivo nella faccenda. Nell’albergo dove lavoro da anni come portiere di notte, giungono spesso dei turisti stranieri, e a me capita di guardarli in qualche caso anche con un certo sospetto, come fossero un insieme di individui fortunati, capaci di girare in qualsiasi paese del mondo senza dover dare conto a nessuno dei loro spostamenti. Le tante popolazioni delle nazioni, rifletto a volte, sono divise in molti settori diversi, chiaramente, ed essere nati e vissuti nella parte più fortunata, è senz’altro qualcosa che pone facilmente su un piano di privilegio, anche se non si può certo disprezzare obbligatoriamente chi non sta dalla parte più avvantaggiata.

 

Bruno Magnolfi

sabato 20 aprile 2024

Per poco tempo.


            Mio padre, questo fine settimana, non è tornato a casa. La mamma sembra tranquilla, non ha fatto cenno alla sua assenza, ma io immagino che ci siano dei problemi a cui adesso lei non vuole minimamente accennare. Stamani sono andato a scuola come sempre, ancora più rassegnato nel mio ruolo di bambino silenzioso e solitario, schivo, si sarebbe detto in seguito, praticamente un isolato, quasi al limite della patologia. Come al solito nessuno mi ha detto niente, ed io ho raggiunto il mio banco assegnato appena dopo il suono della campanella di inizio delle lezioni. La maestra ha fatto l’appello come ogni giorno, poi mi ha guardato a lungo, come desiderasse dirmi qualcosa, ma senza trovare la cosa giusta da dire, ed infine mi ha chiesto di accomodarmi davanti alla lavagna per scrivere là sopra qualcosa con il gesso. Alcuni numeri, qualche operazione matematica, cifre che gli altri intanto ricopiavano sui loro quaderni a quadretti. Poi mi ha fatto una domanda della quale non conoscevo la risposta, perciò sono rimasto in silenzio, imbarazzato, davanti a tutti che intanto già si davano di gomito. Ma lei ha detto di tornare a sedermi, dando poca importanza alla mia lacuna, e da questo semplice ed insolito comportamento ho capito che qualcosa stava seriamente cambiando.

            Quando sono tornato a casa, dopo la scuola, ho chiesto alla mamma quale fosse il motivo per cui il papà non era tornato a casa dai suoi lunghi viaggi di lavoro con l’autocarro, ma lei si è limitata ad alzare le spalle e a non rispondere niente, come se non avesse delle notizie sicure su questo argomento. Ho subito immaginato che presto si sarebbe iniziato a parlarne anche tra i miei compagni, e questa situazione sarebbe diventata rapidamente un motivo in più per canzonarmi e prendermi in giro, così ho cercato di preparare già una risposta adeguata da dire. Nel pomeriggio sono andato nel negozio dei generi alimentari per fare alcuni acquisti per la mamma, ma nessuno mi ha chiesto niente. In seguito, ho fatto un giro fino alla piccola piazza di questo paese, e lì ho incontrato due compagni di scuola che si scambiavano delle figurine di giocatori di calcio. Hanno riso, vedendomi arrivare, ed io ho capito subito che già loro avevano chiaro che mio padre ormai non abitava più a casa nostra, così mi hanno voltato le spalle ancora ridendo, e se ne sono andati per i fatti loro. 

            Durante la notte, mentre stavo nel mio letto cercando di dormire, ho fatto incursione nel mondo dei grandi, piombando d’improvviso davanti a me stesso ormai adulto nel momento in cui lui sta svolgendo il suo lavoro di portiere di notte di un albergo, e dopo qualche minuto, in attesa che mi chiedesse qualcosa, gli ho fatto presente che mio padre era assente da casa. <<Non ricordo cosa fosse accaduto>>, ha spiegato lui, <<forse un semplice contrattempo con l’autocarro, un guasto, una merce non ritirata, qualcosa del genere>>, ed io ho annuito nel rendermi conto che neanche lui forse aveva desiderio di farmi preoccupare. C’era una donna, seduta nella caffetteria dell’albergo, una persona vistosa, abbigliata in un modo eccentrico, che mi ha lanciato comunque un gran sorriso, anche se non mi ha chiesto nulla. Quando mi sono svegliato, ho capito che non era proprio il caso di preoccuparmi, e che, se i miei compagni di classe avessero deciso di prendermi in giro una volta di più per questa faccenda di mio padre, io non li avrei assolutamente assecondati, limitandomi ad ignorare le loro battute spiritose. Il mio compagno di banco invece ha voluto strafare, e durante la ricreazione ha detto agli altri, con voce alta, che <<nemmeno suo padre vuole più stare con lui>>, mentre mi volgeva le spalle. Ho atteso che si girasse verso di me per esaminare la mia espressione, e a quel punto gli ho mollato un pugno sulla faccia, quel medesimo gesto che tenevo represso in me da tanto tempo.

            Naturalmente lui è andato a terra, e gli sanguinava anche leggermente la bocca, così ha iniziato immediatamente a piangere e a lamentarsi. È intervenuta svelta la maestra, ma visto che tutti avevano iniziato a dire che era stato solamente un incidente, lei ha fatto rialzare da terra il mio compagno di banco, si è resa conto che in fondo non c’era niente di grave, giusto un taglietto sul labbro, e così ha fatto a tutti una raccomandazione generica e basta, senza preoccuparsi di me. Non capisco perché tutti gli altri non abbiano immediatamente infierito contro di me, ma forse ciò deriva dal fatto che all’improvviso si sono resi conto che io, se lo desidero, posso essere diverso da chi risulta capace soltanto di incassare in silenzio quello che loro vogliono, e che, se proprio mi va, riesco anche a ribellarmi e a menare, se è il caso. Credo così di avere facilmente ottenuto una piccola forma di rinnovato rispetto, anche se, già me lo immagino, questa nuova veste non durerà molto tempo.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 18 aprile 2024

Troppo nervosismo.


            Al mattino, dopo le sette, una volta lasciate le eventuali consegne al personale che giunge a quest’ora per sostituirmi, mi sento leggero uscendo dall’ albergo dove svolgo il ruolo di portiere di notte, come se all’improvviso si aprisse per me una vera e nuova giornata tutta da inventare e da vivere, anche se poi non è del tutto così. Durante la notte appena trascorsa è tornata la donna che spesso vaga in questo quartiere, una prostituta, come lei stessa ama definirsi, anche se di un tipo eccentrico e un po’ particolare. Con i suoi modi eleganti e disinteressati, mi ha bussato leggermente alle vetrate, verso le tre, ed io naturalmente le ho aperto subito. <<Buonasera>>, mi ha detto nell’attesa che la invitassi ulteriormente ad entrare. E proprio come la volta scorsa, io ho lasciato che si accomodasse in caffetteria, nello stesso momento in cui mi sono prodigato a prepararle una calda bevanda. <<Sempre da solo; sembra un po’ triste>>, mi ha detto lei senza neanche dare troppa importanza a queste parole. Io le ho annuito con un debole sorriso, poi mi sono appoggiato al bancone nell’attesa che proseguisse a spiegarmi magari qualcosa di sé, ma in quel preciso attimo, dalla zona del ricevimento, ho visto arrivare Paoletto, il mio me stesso che certe volte si materializza uscendo dai miei ricordi d’infanzia. La donna si è voltata, probabilmente seguendo il percorso del mio sguardo, ma non ha visto niente, naturalmente, anche se io le ho subito spiegato come, stando sempre da solo, mi capitasse certe volte di parlare direttamente con i miei ricordi, al punto da visualizzare davanti a me la mia stessa persona, ancora immersa nei lontani periodi trascorsi. <<Ma è naturale>>, ha detto subito lei; <<altrimenti la solitudine diventa troppo opprimente>>, ha concluso.   

            Ma, subito dopo, Paolo si è avvicinato alla donna, e lei si è voltata, e lentamente gli ha detto di non preoccuparsi, e che si trovava lì soltanto di passaggio, <<giusto il tempo di prendere un caffè e salutare quest’uomo>>, ha spiegato con un sorriso, ed il ragazzo silenziosamente ha annuito, proprio come se conoscesse già questa persona, e non ci fossero assolutamente problemi addirittura nell’apprezzarne la presenza. <<Anche io vengo fin qui certe volte, ma soltanto per rammentargli gli errori in cui è incappato>>, ha detto lui con un tranquillo modo di fare e di parlare. <<E poi lui è uno che ancora tenta di dare a me la colpa di molte cose che gli sono accadute>>, ha aggiunto Paoletto, <<senza rendersi conto minimamente che non può continuare ad attribuire ad altri i suoi errori>>. Naturalmente io sono rimasto estremamente sorpreso da questa improvvisa presa d’atto dei suoi convincimenti, così, riprendendomi rapidamente dallo stupore, ho subito replicato: <<Ma no, ma vede signora, lui non sa di che parla, e forse non si rende minimamente conto di come stanno davvero le cose, perché appare oltremodo evidente che è stato il suo comportamento scellerato dei tempi della scuola a farmi proseguire in seguito lungo una china che più tardi non sono più stato capace di tenere in pugno, tanto che le cose in seguito sono andate via via solamente peggiorando>>.

            La donna non ha ribattuto niente, come se trovasse disdicevole dire qualcosa adesso contro di me, pur conservando un’opinione probabilmente vicina a quella di questo ragazzetto senza creanza, che intanto si era voltato di spalle, e sembrava quasi cercare la maniera migliore per andarsene in fretta. <<Certo>>, ho ripreso a dire tanto per rompere quel silenzio imbarazzante; <<ho sicuramente compiuto degli errori nella mia vita; però la genesi di tutto quanto deriva da allora, da quei modi di essere a cui in seguito sono stato costretto ad attenermi, almeno da un certo momento in avanti, anche per delle semplici ed evidenti ragioni di coerenza>>. Mentre dicevo così, però, mi sono accorto che a nessuno ormai interessava quello che stavo dicendo, tanto che il ragazzo, senza aggiungere altro, si era infilato nella saletta attigua sparendo alla vista, mentre la signora, come se avesse fretta di andarsene, si è alzata dallo sgabello della caffetteria, ed ha solo detto: <<grazie, per il caffè>>, guardandomi negli occhi con intensità, almeno per un attimo. Poi ha raccolto la sua borsetta, e si è incamminata verso l’uscita. <<Spero di rivederla>>, ho detto io rapidamente cercando la maniera per farle dire ancora qualcosa, o trattenersi un altro momento, ma lei ha sorriso, e poi se n’è andata.      

            Sono rimasto a rimuginare tutto quanto per il resto della nottata, e quando alla fine del mio turno di lavoro è giunta la prima ragazza, un’impiegata del ricevimento, invece di augurarle buongiorno mi è uscito dalle labbra soltanto un bofonchiare insulso, di cui forse mi sono anche un po’ vergognato. La giornata che aspettavo, di fronte a me, è apparsa subito piuttosto compromessa, una volta uscito dall’albergo, ed anche se non avevo affatto voglia di farlo, mi sono messo a camminare senza una meta, cercando la maniera di farmi sbollire il nervosismo che d’improvviso sembrava essersi parecchio accumulato dentro di me.

 

            Bruno Magnolfi

lunedì 15 aprile 2024

Senza compromessi.


            Negli ultimi tempi, quando mi trovo da solo a tarda ora, praticamente senza avere niente da fare, qui al ricevimento dell’albergo dove svolgo il ruolo di portiere di notte, alcune volte mi impongo di camminare lentamente attraverso i vari ambienti del piano terra,  dove si apre il vasto ingresso, la caffetteria, una saletta per il tè, ed anche altri locali, con gli occhi sempre ben chiusi, cercando di ricordare perfettamente l’ubicazione dei mobili nello spazio, ed anche la struttura del resto, evitando naturalmente di sbattere contro qualcosa. Non so bene per quale motivo mi trovo a compiere questi esercizi, però mi sembra in questo modo di affinare ad esempio la sensibilità nei confronti dei più piccoli rumori che avverto, e poi anche di allenare la memoria, oltre allo sforzo di visualizzare dentro di me ogni particolare di questo luogo. E altrettanto naturale che io attenda, da un attimo all’altro, anche di sentire giungere d’improvviso, uscendo fuori come fa sempre da chissà dove, il mio piccolo amico che viene spesso a trovarmi, facendosi vivo come sempre dalla rassegna dei ricordi che conservo di quando ero piccolo. <<Ciao>>, gli dico subito appena lo sento arrivare, perché non ho neppure necessità di vederlo, tanto la sua presenza è forte; <<Stavo giusto cercando di concentrarmi al massimo, tenendo gli occhi chiusi, per avvertire la tua possibile presenza>>. <<Certo>>, fa lui, <<adesso sembra quasi che tu non ce la faccia più a startene da solo>>, mi dice con ironia.

<<Ma no>>, faccio io, <<non è per questo; è che ogni tanto ho voglia di rammentare i tempi della scuola, belli o brutti che siano stati>>. Lui mi guarda un momento, adesso che tengo i miei occhi spalancati, poi dice: <<Come se tu riuscissi ad essere nostalgico dei tempi andati, quando avevi la mia età>>. Rifletto un momento, in effetti non sono mai stato nostalgico, e se spesso mi sono ritrovato a riflettere su quegli anni è soltanto per cercare di comprendere meglio da dove sono cominciati i miei tanti errori. <<Come fai ad essere qui con me tutte le volte che lo desideri?>>, gli chiedo; <<e poi com'è possibile viaggiare nel tempo con questa facilità, tanto più che gli abiti che in questo periodo ti porti addosso, non mi pare di averli mai avuti, ad esempio>>. Lui sorride, poi fa una specie di giravolta su sé stesso, ed infine arriva la risposta: <<Io sono dentro di te, sei tu che mi chiami, è la tua mente che crede sempre di vedermi, ma sono soltanto i tuoi pensieri e i tuoi ricordi che compongono la mia figura e ciò che faccio, è soltanto questa la spiegazione giusta>>.

Mi volto, non avevo compiutamente riflettuto ad una cosa di questo genere, credevo che questo ragazzetto che ho di fronte potesse quasi esistere di vita propria, non che fosse composto da quello che la mia immaginazione mi fa credere di lui. <<Va bene>>, gli faccio; <<e cosa sai raccontarmi di diverso da quello di cui sono già a conoscenza?>>. Lui ci riflette a lungo, sembra quasi cercare tra i suoi pensieri qualcosa che posso aver tralasciato quando avevo la sua età, ma che adesso potrebbe risultare importante, o addirittura decisivo. Invece dice semplicemente: <<Sono andato al piccolo parco dei divertimenti, poco lontano dalla scuola, giusto ieri pomeriggio, e mentre stavo sopra l’altalena a dondolarmi lentamente senza fare altro, ho sentito alle mie spalle un movimento, proprio in un attimo in cui immaginavo di starmene da solo. Diversi ragazzi dietro di me, in silenzio e senza dire niente neanche tra loro, hanno rapidamente iniziato a spingermi, tanto che l’altalena ha acquistato subito velocità, al punto che mi sono trovato di colpo nell’impossibilità di scendere. Ridevano, si eccitavano allo scherzo, e poi continuavano a spingere ad ogni oscillazione, tanto che oramai ero quasi sicuro che sarei caduto da un momento all’altro. <Chiedi pietà>, ha urlato uno di loro senza che io sia stato capace neppure di riconoscerlo, mentre intanto, pur volando altissimo, proseguivo a mantenere quel silenzio che credo sia la mia caratteristica. Poi ho deciso di gettarmi di sotto, anche per non sentirmi più schernito, tanto che mi sono spostato in avanti reggendomi soltanto oramai con le sole mani alle catene dell’altalena, ma è stato proprio allora che quei ragazzi probabilmente hanno avuto paura che mi facessi male sul serio, e che forse in seguito potessi denunciare a qualcuno l’accaduto, perciò sono scappati via, lasciandomi a volteggiare per un altro minuto o due, fino a quando sono riuscito a fermarmi strisciando i piedi a terra, e infine a scendere>>.

Io lo guardo con attenzione, non ho alcuna memoria di un particolare di questo genere, e penso che magari questo ragazzo se lo stia inventando, ma per non passare da sciocco gli dico che adesso che me ne ha parlato ho un vago ricordo di quel preciso pomeriggio. <<Nessuno voleva stare con te>>, gli dico in fretta, e lui mi guarda, con una strana smorfia sulla faccia, quasi un sorriso. <<Non mi importava niente di quegli idioti>>, fa lui, <<ed anche se complottavano sempre qualcosa contro di me, io cercavo di essere me stesso e basta, senza mai giungere a dei compromessi>>.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 11 aprile 2024

Proprio per questo.


            Non mi interessa tenere un comportamento sempre adeguato alla mia età ma che allo stesso tempo tenga conto della mia naturale crescita nei prossimi anni. Sono un bambino di quarta elementare, purtroppo senza un vero amico con cui scambiare qualche parola, e spesse volte mi trovo da solo, ad esempio durante il sabato e la domenica, quando mia madre insiste affinché io esca il più possibile da casa, anche se molte volte non so neppure dove andare. Gli altri compagni mi scansano durante il resto della settimana, dicono che sono uno di cui non ci si può mai fidare, anche se non credo sia vero. Ma a me non interessa, vadano pure a ritrovarsi nei soliti vari gruppetti per giocare con la palla, scambiare le figurine, o per parlare sottovoce seduti sui gradini di qualche casamento. Preferisco non avere nessuno intorno a me, piuttosto che dover adeguare il mio comportamento ai loro modi. Qualche volta comunque ho riflettuto su come saranno le giornate per me tra dieci oppure vent’anni. Probabilmente dovrò scoprire prima o dopo qualcosa che mi interessa per davvero, una vera passione insomma, e a quel punto saprò perfettamente come comportarmi, e intorno a che cosa impegnarmi a fondo, anche se per adesso è tutto un’immensa nebulosa.

Poi giunge la zia a farci una visita, e siccome mio padre non c’è perché sta in giro chissà dove con il suo autocarro, lei mi prende per mano e mi porta a fare un giro per il paese, noi due soli. Mi fa molte domande, sembra quasi che non abbia mai conosciuto prima un bambino come me, nonostante lei viva in una città grande, tanto che io, dopo le prime risposte, inizio già ad essere stufo di tutto questo parlare. Forse la zia si accorge che sta davvero esagerando e allora adotta un’altra tattica, ed inizia a correre per gioco, magari per vedere se anche io ne ho voglia. Dopo poco arriviamo in via delle matite, ed io le indico la mia scuola, anche se lei la conosceva già. <<Di pomeriggio è chiusa>>, le spiego, <<però a me piace qualche volta venire qui anche se non c’è nessuno>>. Lei mi lascia parlare adesso, ed io pur di non sentirla ancora tirare fuori le sue domande insopportabili, preferisco dirle delle cose sciocche ed evidenti, che non hanno mai fatto male a nessuno. La zia mi ascolta, sembra interessata ai miei argomenti, poi mi fa la domanda che già mi aspettavo: <<ma tu ci vai volentieri a scuola?>>, dice, come se fosse qualcosa mai sentito prima.

Le sorrido, mi sento indeciso se dirle tutta la verità, oppure ripiegare su qualcosa che la rassicuri e chiuda rapidamente l’argomento. Alla fine, alzo le spalle e guardo qualcosa per terra, che nel mio vocabolario significa che vado a scuola perché semplicemente è il mio dovere, ma fosse per me potrei assolutamente farne a meno, soprattutto per non incontrare come ogni mattina i miei compagni di classe, tutti insopportabili. La zia mi guarda, prende tempo, riflette qualcosa, senza ancora dire niente, ma alla fine, invece di farmi una nuova domanda, tira fuori quella che forse crede sia la sua carta vincente: <<Dovresti iniziare a suonare uno strumento musicale>>, mi fa, come se fosse una cosa semplice e priva di problemi. Accantono immediatamente l’idea, scuotendo la testa, però sento che qualcosa nella mia mente si è come smosso, quasi che fino ad adesso una cosa del genere fosse talmente irraggiungibile da non doverla prendere neppure in considerazione, ma adesso che ho ascoltato queste parole con le mie orecchie, forse significa che sono più vicino a cogliere davvero un’opportunità del genere. Parliamo subito d’altro, ma dopo un’altra lunga pausa di silenzio, tiro fuori anche io la mia carta: <<Mi piacerebbe suonare la batteria>>, le dico, e lei rafforza: <<Ma certo, meno teorica, più istintiva, quasi estemporanea>>, dice di slancio.

Poi torniamo a casa, non so a che cosa sia servita questa chiacchierata, però mi ha fatto piacere stare un po’ con mia zia, che adesso peraltro sta già ripartendo, anche se non saprei dire per quale motivo preciso. Le giornate non cambiano, tutto prosegue come sempre, e i miei problemi con tutti gli altri ragazzi si mantengono invariati. La saluto, naturalmente a modo mio, lasciandomi abbracciare un po’ e stringendomi nelle spalle. Forse, fra qualche anno, sentirò forte il desiderio di raggiungerla nella sua città, soprattutto per uscire da questo piccolo paese, per lasciarmi alle spalle tutti quei rapporti di amicizia mancati, insomma quelli che non sono mai riuscito ad allacciare. Mi sento un po’ più solo adesso, come se lei mi avesse fatto presente di colpo che per me ci sono tutte le possibilità per stare insieme agli altri, anche se devo decidermi a strappare via qualcosa, e lasciare alle mie spalle qualche ingombro che ancora non so, che non capisco cosa sia. Ma ci penserò, nei prossimi giorni, ed alla fine, rifletto, è probabile la zia fosse venuta fino qui proprio per questo.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 8 aprile 2024

Qualcosa da spiegare.


            Ormai è tardi, e quindi tutti i clienti di questo albergo sono già rientrati nelle loro camere, tanto che ad un portiere di notte come sono io non resta altro che rimuginare sulle proprie cose, e poi perdere tempo girellando tra gli spazi del ricevimento, quelli della caffetteria, ed anche tra gli ampi divani dell’ingresso, con la sua elegante porta vetrata che si apre proprio su una piazzetta storica della città. Mi sento la testa vuota e leggera, quindi evito di pensare ancora ai tempi della scuola e alle faccende legate a quel periodo, convinto che d’improvviso, una di queste notti, scapperà di nuovo fuori dalla mia mente l’immagine di quel ragazzetto coi calzoni corti che all’epoca non sapeva comportarsi adeguatamente con i suoi compagni, tanto da trascorrere la maggior parte del tempo in solitudine. Si avvicina invece una donna alla porta dell’albergo, la vedo mentre con lentezza si accosta ai vetri e poi bussa leggermente con le nocche di una mano. Si comprende al volo dall’abbigliamento che si tratta di una prostituta, ma il fatto che tiene sulla testa un cappello piuttosto stravagante, e che poi porti una borsetta infilata ad un braccio di una certa inedita eleganza, mi incuriosisce subito, al punto che, mentre mi avvicino alla porta, premo il pulsante di sicurezza che fa scorrere immediatamente ai lati le due grandi vetrate. <<Buonasera>>, dice lei per prima, e poi attende sulla soglia che io faccia la mia mossa, che le chieda qualcosa magari, oppure le proponga una piccola conversazione superficiale e senza impegno. Invece io resto in silenzio, non con uno sguardo indagatore su di lei, ma concedendole la possibilità di dire ciò che crede, limitandomi a sorriderle.

            <<Non le creo fastidio>>, dice la donna con un certo tatto, ed io, che non so bene che cosa risponderle, la invito con un gesto della mano ad accomodarsi, come se fosse la benvenuta in ogni caso. <<Le posso offrire un caffè>>, le dico con voce pacata. <<Ma certo>>, risponde lei come se fosse venuta fin qui soltanto per questo, ma non dando comunque troppa importanza alla cosa. Poi si accomoda in caffetteria, ed io manovro subito la macchina, e lei senza guardarsi attorno si siede e dice subito che nel passato aveva l’idea di fare soldi in fretta, ma alla lunga quelle intenzioni sono del tutto tramontate tra i suoi desideri. <<Non mi interessa più nulla di tutto questo, ed adesso mi incontro ancora con gli uomini, ma solo quando mi va, e spesso lo faccio a titolo gratuito, considerato che mi basta scambiare con loro quei pochi minuti di intimità, e magari scambiare qualche parola con chi ha voglia di raccontarmi di sé>>. Annuisco con serietà, anche se rimango stupito di questa apertura iniziale, pur comprendendo che lei stia tentando di chiarire immediatamente tutte le possibili domande che potrebbero nascere nella mente di una persona come me. Resto colpito, in ogni caso, e in un attimo mi sento fuori luogo, come se le sue esperienze e le sue prese di posizione nella vita fossero estremamente al di sopra di qualunque congettura personale io avessi mai fatto.

            Lei ringrazia prendendo la tazza del suo caffè che adesso le porgo, ma si vede che non è per conversare se adesso si trova qui di fronte a me. Non riesco a formulare alcuna domanda, e neppure a dire qualcosa per riempire questo silenzio insolito della notte, che sembra allo stesso tempo ci abbracci ambedue, e contemporaneamente ci sovrasti. Lei mi guarda, senza sorridere, senza espressione, ed io mi sento piccolo di fronte ad una donna così, tanto che vorrei quasi inventare una scusa per tornare dietro al banco del ricevimento, e riprendere in questo modo il ruolo che mi è più congeniale. <<Lei ha dei rimpianti?>>, mi chiede invece questa donna interessante, lasciandomi tutto il tempo che desidero per riflettere e quindi risponderle con calma. <<Forse>>, dico io; <<però credo che la mia personalità si sia formata tutta piuttosto precocemente, ai tempi della scuola elementare, e che per questo qualche volta ancora me la prendo con quel ragazzetto che dovevo essere in quel periodo, come se avesse colpa lui di quello che in seguito sono diventato>>. La donna mi guarda, forse comprende benissimo tutto questo, ma evita qualsiasi facile giudizio, e lascia anzi che io possa aggiungere qualcosa, se solo ne avessi la voglia. Restiamo in silenzio qualche altro minuto, ma non avverto alcuna distanza tra me e lei, tanto che mi avvicino a lei per un attimo, e poi le sfioro una mano, quasi per ringraziarla di essere giunta qui, in questo luogo desolato.

            Lei sorride un attimo, abbassa lo sguardo, poi riprende la sua borsetta, appoggia la tazzina vuota e dice che adesso è meglio se va via, ma mentre si alza aggiunge: <<in fondo, quello che ci volevamo dire, ce lo siamo già detto>>, e così si avvia verso la porta vetrata. <<Arrivederci>>, le dico in fretta quasi per cercare di trattenerla ancora per un attimo, ma lei non si volta, dice soltanto: <<mi rivedrà, certo, se solo lo desidera>>, ed io aziono l’apertura. Vorrei quasi piangere mentre la osservo scivolare lenta nella notte cittadina e allontanarsi con tranquillità, ma non saprei proprio spiegare il motivo per lasciarmi andare ad una cosa di questo genere.     

 

            Bruno Magnolfi

venerdì 5 aprile 2024

Coscienza sporca.


            Certo, durante ogni notte naturalmente in questo albergo sono da solo a svolgere il ruolo di portiere, ed è proprio questo probabilmente il motivo principale che spinge i miei pensieri ad inerpicarsi senza sosta su degli strappi di memoria che affiorano praticamente in automatico dalla mia mente. Però il fatto di vedere di fronte a me, praticamente in carne ed ossa, quel ragazzetto che ero io stesso tanti anni addietro, ai tempi lontani della scuola elementare, è qualcosa che, andando ancora avanti, poco per volta inizia seriamente a preoccuparmi. Subisco quasi uno sdoppiamento di personalità durante questi momenti, rivivendo come attuali i piccoli fatti accaduti tanti anni prima e comunque ascoltandoli raccontati da quel me stesso in calzoni corti che mi appare di fronte armato adesso quasi di alterigia, come se lui potesse avere dei pareri del tutto differenti dai miei, e persino dei diversi punti di vista, tanto che tutto questo, a lungo andare, mi sembra ormai proprio qualcosa sinceramente di troppo innaturale. Sto qui, gli chiedo per quale motivo si sia comportato in un modo invece che in un altro, e lui appare subito sfuggente, come se fosse restio a darmi delle vere spiegazioni, o desse per scontate molte cose che invece a mio parere proprio non lo sono.

            <<Sei tu che hai sciupato tutto>>, sembra volermi dire, mentre io sono sicuro che i miei problemi di adulto derivano direttamente dal comportamento che ha tenuto lui durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. <<Sei sempre stato un isolato, uno che non ha mai cercato l’amicizia di nessuno, e persino nella scuola di via delle matite pareva che tu non riuscissi a sopportare neppure i tuoi compagni>>, gli dico io. Lui resta in silenzio, forse riflette meglio le cose dirette che gli faccio notare, ma infine volta le spalle e poi se ne va, come se niente di quello che cerco di spiegargli avesse un senso compiuto. <<Mi sento un po’ deluso>>, lo ascolto dire tra sé mentre tiene le mani nelle tasche. <<Avevo delle grandi potenzialità, delle risorse mentali indubbie, peculiarità che mi avrebbero sicuramente fatto eccellere in seguito almeno in qualche settore. E invece lui è stato capace di sciupare tutto, con quel bisogno di affermazione economica che ad un certo punto sembra sia stata quasi l’unica molla nel farlo andare avanti. Io mi sarei accontentato di pochissimo, perlomeno ai tempi della scuola; lui invece ha iniziato subito a pretendere chissà che cosa, fino a scadere in forme di comportamento addirittura poco legali>>.  

            Non ribatto niente, non ho niente da rispondergli, perché una parte di ragione forse ce l'ha, altrimenti non sarei finito in galera per tre anni. Però non sopporto che sia lui a farmi le pulci su certe cose, come se gli avessi tolto qualcosa. Gli vado dietro mentre percorriamo il tragitto che da casa mia arriva fino in albergo, presso cui tra poco dovrò prendere servizio, e ad un tratto mi pare perfino odioso dover seguire le sue orme, tanto che ad un certo punto cambio marciapiede, attraversando la piccola strada che ho di fronte. Lui con la coda dell’occhio mi vede compiere questa manovra e resta indifferente, limitandosi a rallentare leggermente il passo. Mi piace mettere questo ragazzetto un po' in difficoltà, sono sicuro che non accetta in nessun caso il mio comportamento nei suoi confronti, ma in ogni caso capisce che deve tollerarmi, che deve abbassare la testa di fronte a quello che io sono. Ad un tratto ci troviamo appaiati, uno da una parte e uno dall’altra di questa strada stretta e poco frequentata, e lui fa di tutto per non voltarsi neppure una volta verso di me. <<Paolino>>, gli dico senza alzare troppo la voce, e lui mi guarda un attimo, ma sembra indifferente a tutto quello che posso dirgli adesso. Poi, mi volto un momento, e lui è sparito, come in uno strano gioco di magia.

            Non importa, tornerà, penso mentre continuo a camminare per raggiungere il mio luogo di lavoro, ma prima di arrivare nei pressi dell’albergo, questo ragazzetto eccolo qui di nuovo, uscendo all’improvviso forse da una piccola via laterale. A lui non interessa farmi compagnia, e in fondo neanche a me fa troppo piacere che mi stia troppo vicino. Preferisco ritrovarlo magari quando sono da solo dietro al banco del ricevimento, al momento in cui posso rivolgergli delle domande dirette e riflettere adeguatamente a tutte le sue risposte, sempre che mi risponda. <<Vieni più tardi a trovarmi?>>, gli dico adesso, e lui alza le spalle come per mostrare che non lo sa se più tardi sarà proprio dell’umore giusto. Poi alza una mano senza più guardarmi, e prende per una contrada senza dirmi altro. Certe volte riconosco in me qualcosa del suo stesso carattere, ma in altri casi non lo comprendo, mi pare che non intenda ancora riconoscere tutti gli errori di comportamento che gli ho attribuito. Ci sono stati degli errori, delle valutazioni sbagliate, degli scatti d’ira forse evitabili, e portatori solo di problemi, rifletto adesso, ma tutto ciò devo farlo presente almeno a lui, se non altro per alleggerire un po' la mia coscienza.

 

Bruno Magnolfi

martedì 2 aprile 2024

Decisamente stanco.


            Durante il giorno cerco di riposare, considerato che per tutta la notte lavoro come portiere d’albergo. Però, il mio riposo è spesso disturbato da pensieri e riflessioni che mi tengono oltremodo vigile, tanto che al momento in cui giungo a prendere servizio in albergo spesso mi sento ancora stanco e affaticato. Le mie preoccupazioni maggiori restano quelle che mi tengono molte volte impegnato col ricostruire nella memoria lo svolgersi di quegli elementi che avrebbero potuto facilmente cambiare la mia vita, se solo negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza avessi manifestato una volontà differente da quella reale. Non tanto differente, questo è il punto, ma appena un po', quel tanto che basta, insomma è come se fossi cosciente adesso di non avere approfittato di qualche minima opportunità che, al contrario del buon senso corrente, a quell’epoca ho largamente ignorato. <<Paolo>>, dico ancora a quel ragazzetto che mi si para davanti con i calzoni corti e la smorfia sulla faccia di chi ce l'ha con tutto il mondo intero. <<Ma cosa credevi di ottenere allontanandoti sempre da tutti, restando continuamente da solo a rimuginare qualcosa che a chiunque appariva frutto semplicemente di una personalità distorta, di un carattere bislacco, di una mente perversa, priva degli elementi base della socialità?>>. Lui adesso fa spallucce, non gli interessa questo argomento, anzi, gli dà persino fastidio che ancora se ne parli. <<Persino il tuo compagno di banco, obbligato dalla maestra a starti accanto in classe, sembrava tollerarti appena per il tempo sufficiente durante lo svolgersi delle lezioni, e dopo basta, via a ridere e scherzare con gli altri, evitando persino di rivolgersi a te per porti delle domande, anche le più semplici e sciocche.

            Sembrava proprio che tu a quell’epoca non tollerassi anima viva intorno a te, ed evidentemente ognuno dei tuoi compagni si teneva alla larga il più possibile da un musone corrucciato come apparivi tu quasi in qualsiasi momento. Io lo so che non eri affatto come sembravi agli altri, ma l’evidente incapacità di esprimere la tua vera indole era tale da non ammettere da parte loro alcuna variazione. Da lì a prenderti in giro, magari da una certa distanza per evitare delle reazioni violente da parte tua, il passo spesso era breve, ed anche se mostravi indifferenza rispetto a qualsiasi soprannome o qualunque aggettivo ti venisse affibbiato, di fatto nel tuo profondo ne soffrivi, anche se tenevi per te qualsiasi sentimento. <<Sei uno sciocco. Tu credi che qualcuno possa venire a chiederti con umiltà come ti vadano le cose, o che cosa stai pensando, oppure quali siano davvero i tuoi problemi. E ti arrocchi su te stesso ancora di più quando ti rendi conto che a nessuno interessa veramente qualcosa di te o delle tue preoccupazioni>>. La mamma già nel primo pomeriggio inizia a tormentarmi: <<perché non esci, perché non vai a giocare a palla con qualche compagno che conosci, perché non approfitti della giornata di sole e stai almeno un’ora o due all’aperto?>>. Ed io, anche per non sentirla ripetere ancora le stesse cose, prendo e vado fuori, senza sapere neppure verso dove, ma raggiungendo in fretta qualche angolo di questo paesino dove sono nato, con quelle case anonime costruite proprio attorno alla scuola di via delle matite. Mi piace starmene da solo in certi casi, e non mi pare di avere troppa necessità degli altri, tanto che, quando c’è in giro qualche altro ragazzo più o meno della mia medesima età, fingo sempre di avere altro da fare che non starmene con loro, anche se magari hanno la palla per giocare, oppure qualche petardo tanto per far scoppiare in aria qualche vecchio barattolo o qualche sacchetto di cartone.

            Non penso troppo al futuro, non rifletto mai su cosa potrò fare tra un giorno, tra un anno, o quando sarò tanto grande al punto da decidere della mia vita: farò come fan tutti, stabilisco con estrema pacatezza; ci sarà pure un mestiere anche per me, come per gli altri, ed avrò delle amicizie, forse una fidanzata, e dei colleghi di lavoro con i quali farmi qualche birra a fine orario. Metterò su una casa tutta per me, pur piccola e modesta, e inviterò qualcuno a cena qualche volta; magari i miei genitori ormai diventati anziani, o qualche amica che mi piace, alla quale dedicherò un pensiero poetico declamato a voce alta, mentre porto in tavola l’arrosto preparato con pazienza ed attenzione. Comportamenti abitudinari, senza sorprese, fatti quasi apposta per adagiarsi con tutta calma su delle giornate prive di scossoni, composte da consuetudini e da normalità. Se poi ci sarà altro per me in attesa dietro un angolo, l’affronterò con i miei modi, con la mia forza, con le mie capacità di adeguarmi al nuovo o di scrollarmi subito di dosso ciò che non mi piace. Questo è quanto medito adesso che ho solamente dieci anni, e per il resto mi disinteresso quasi di tutto, considerando che credo fortemente a ciò che deve accadere come a qualcosa di assolutamente giusto e inevitabile.

Entro in albergo adesso, ormai è l’orario. E mi sento stanco, ovviamente, quasi spossato.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 28 marzo 2024

Errori stupidi.


            Verso le tre di notte, mentre sono come sempre a lavorare o, meglio, a sorvegliare che tutto vada bene in questo albergo dove ricopro il ruolo di portiere di notte, avverto dei rumori lungo le scale di servizio, nel momento in cui mi trovo al mio solito posto, dietro al banco della portineria. Attendo qualche secondo, poi mi decido ed infine mi muovo per andare a controllare che tutto sia al proprio posto come dev’essere. Salgo le scale con una certa calma, guardingo, e non vedo niente di insolito, tanto che giungo fino al corridoio del primo piano dove le porte laccate delle stanze sembrano tutte ben chiuse per la notte, ma da qui si dipartono altri due passaggi che conducono ad altre porte di diverse camere. Perlustro lentamente ogni centimetro quadrato di moquette davanti ai miei piedi, ed alla fine lo trovo lì, di fronte a me, che mi guarda, immobile e con una espressione del viso seria e indefinibile. <<Paolo>>, dico sottovoce, riconoscendo immediatamente il bambino che ero io stesso appena quarant’anni fa. Lui risponde solo con un cenno, ed io gli chiedo naturalmente che cosa mai stia facendo in questo luogo, e come abbia fatto a trovarmi e ad arrivare fino qui. <<Sono venuto per vedere come te la cavi>>, fa lui con voce tranquilla, quasi fosse la cosa più normale di questo mondo. <<Vieni di sotto>>, gli dico subito, <<potremo parlare meglio, e poi scambiarci anche alcune opinioni; ci sono un sacco di cose che mi rimangono ancora poco chiare circa i tuoi comportamenti del tempo della scuola>>. Lui sorride, quindi si volta su un fianco, come attirato da qualcos’altro, poi dice: <<No, adesso devo andare, però presto tornerò, e poi ti spiegherò tutto quello che vorrai sapere>>. Quindi svanisce, ed io di nuovo resto solo.

            Ma certo, penso mentre scendo di sotto per tornare a sedermi di nuovo presso la portineria. Deve spiegarmi alcune cose che adesso stento persino a giustificare, forse anche per via della mia memoria appannata, ma soprattutto perché devo comprendere meglio quel passaggio fondamentale dalle elementari alle scuole medie, che oggi a me appare più confuso che mai. Fu quello il momento in cui Marta, una ragazzina semplice e silenziosa capitata quell’anno nella mia classe, spiegò in fretta, durante una mattina in corridoio, che comprendeva i miei malesseri, perché erano anche i suoi. <<Difficile farsi ascoltare dagli altri>>, disse, <<sono tutti presi dalle loro cose>>, mi spiegava lei mentre teneva il suo sguardo basso, senza neppure guardarmi. <<Paolo>>, aggiungeva; <<non dobbiamo abbatterci; è necessario trovare una solidarietà tra noi che ci faccia superare le difficoltà>>. Io annuisco ancora adesso di fronte a queste parole; mi rende quasi felice sentirla parlare in questo modo, anche se, all’uscita dalla scuola di via delle matite, mi trovo ancora solo, senza possibilità di scambiare con nessuno i miei pensieri. Non è neppure questo a farmi davvero paura, ormai sono abituato a starmene in un angolo, però comprendo sempre di più che il mio futuro non sarà mai sereno, e che trascinerò per sempre con me i problemi che oggi non riesco minimamente a risolvere. 

Marta ha compreso molto della mia indole, rifletto, ma quello di cui sono maggiormente preoccupato non è essere capito, ma aspirare ad un minimo di amicizia da parte dei miei compagni, almeno tale da farmi sentire sostenuto in ciò che cerco di fare. Però, se ci rifletto meglio, non posso neppure pretendere molto: sono io che dovrei comportarmi in maniera differente verso di loro, in maniera da cambiare almeno qualcuna delle carte in tavola. Marta, in fondo, è come gli altri: le piace forse starmi vicino qualche volta solo perché probabilmente non assomiglio a nessuno che conosce, ma appena un altro dei ragazzi che le girano più attorno le farà qualche complimento, saprà immediatamente chi scegliere e da che parte stare. Ecco, proprio questo è il punto: scegliere. Io non voglio fare parte della merce esposta per i clienti; sono come sono, o mi si prende così, oppure nulla.

Solo adesso mi rendo conto che Marta poteva essere davvero la molla essenziale per un mio cambiamento. Con i suoi modi avrebbe potuto facilmente convincermi dei miei errori e trascinarmi verso una zona che non avevo mai fino ad allora preso in considerazione. Invece io, testardo come sono sempre stato, la ignorai. <<Non sono come pensi>>, le dico mentre ancora siamo soli lungo il corridoio scolastico. <<Non mi interessa avvicinarmi agli altri, mi bastano le mie cose sciocche, le mie abitudini, i miei pensieri>>. <<Va bene>>, fa lei ancora adesso, irrigidendosi. <<Capisco che stando così le cose non hai certo necessità che qualcuno si perda qualche volta ad ascoltarti, e meno che mai provi questo bisogno da parte di una ragazza timida come me, che spesso mostra soltanto un po' di paura per ciò che ogni giornata può improvvisamente riservarle>>. Io non seppi che cosa aggiungere in quell’occasione, perciò rimasi in completo silenzio, anche perché era quella la condizione che mi faceva sentire più a mio agio.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 27 marzo 2024

Pronti per ridere.


            Basta. Mi sono stufato di questo ragazzino, di questa presenza che spesso parla con me, e poi ingombra ogni giorno tutti i miei pensieri, giungendo costantemente a chiedermi conto di quello che è realmente avvenuto nel corso degli anni, e di quello che invece poteva facilmente essere cambiato, a suo parere. Devo guardare in avanti, cercare di migliorare poco per volta almeno qualcosa delle mie giornate, e magari fare qualche progetto costruttivo per impegnarmi in un senso oppure nell’altro. Mi rendo conto come i miei anni di frequenza della scuola elementare siano stati caratterizzati dal mio costante rifiuto di assomigliare agli altri compagni, e quindi quanto tutto questo abbia definito molte cose nel proseguo, addirittura nei decenni che si sono accavallati fino ad oggi, ma è indubbio che io non potevo essere diverso allora da come mi presentavo, e che tutto è scivolato via in maniera naturale, senza mai mostrare troppa applicazione da parte mia. I rimpianti, o le mie recriminazioni di adesso, non hanno alcun senso. Devo accettare quello che è stato, i miei errori e le mie incapacità, e se ancora riesco a mandare in avanti un’esistenza ordinaria, pur immerso in una costante solitudine, devo contentarmi di quello che ho, e di che cosa sono riuscito a mettere assieme.

            Entro in classe già con disagio, ed il fatto che immediatamente raggiungo il mio banco senza neppure osservarmi attorno, né salutare i miei compagni, dice già molto del mio carattere che porta spesso ad isolarmi dagli altri. Qualche volta loro mi fanno trovare un foglietto sulla mia sedia con su scritto qualcosa di poco piacevole, oppure per scherzo vi appoggiano direttamente il cestino dei rifiuti. Il messaggio è sempre molto chiaro: nessuno desidera avere intorno un compagno che non parla mai, che non chiede niente, che sembra perennemente irritato di ciò che ha vicino a sé, come se desse la colpa di chissà che cosa magari a qualcuno di quei bambini che ritrova ogni giorno nell’aula. Tutti ridono mentre stanno insieme, e si scambiano opinioni, e poi parlano delle proprie cose. Io no: non mi interessa la superficialità delle loro storielle e delle barzellette che si raccontano; mi siedo, sistemo il mio banco, l’astuccio, i libri e anche i quaderni, ed osservo qualcosa sul muro di fronte a me, nell’attesa paziente che abbia inizio la giornata scolastica, e in seguito finalmente anche un termine. Forse non frequento troppo volentieri questa scuola, però mi sento curioso, e poi mi piace imparare nuove cose, tanto che sono sempre felice quando la maestra prosegue per tutta la mattinata a spiegare quegli elementi e quelle vicende che credo sia necessario conoscere alla nostra età. Mi piace leggere, e quando scorro le frasi e le parole di un libro, dimentico facilmente persino dove mi trovo, e con facilità credo di riuscire ad immedesimarmi in qualcun altro, direttamente nelle descrizioni che scorro, e di proiettarmi rapidamente in altri scenari che sono sempre capace di immaginare.    

            Qualche volta la maestra scandisce il mio nome ad alta voce, e poi mi fa alzare in piedi, ponendomi delle domande sulle varie materie che compongono il suo insegnamento. Se so rispondere spiego ciò che ho studiato in maniera sintetica e decisa, ma se non riesco a dare un vero seguito alla sua domanda, preferisco restare in silenzio, piuttosto che cercare di masticare qualche sciocchezza. Sento ridere sommessamente qualcuno tra i miei compagni, mentre mostro agli occhi di tutti il mio silenzio colpevole. <<Paolo>>, dice allora la maestra; <<forse questa materia non ti appassiona troppo? Oppure queste pagine del tuo libro sono rimaste incollate tra di loro?>>. Le risatine sommesse aumentano, l’insegnante sbatte una mano sul piano della cattedra; <<silenzio>>, intima di colpo, e tutti si bloccano smettendo persino di respirare. Poi la maestra si fa consegnare il mio diario scolastico, e di fretta ci scrive sopra qualcosa che i miei genitori dovranno visionare. Torno al mio banco e mi siedo; lei passa a torturare qualcun altro. Poi, però, io torno ad alzarmi timidamente approfittando di un momento di silenzio, e dico in fretta che forse ho sbagliato capitolo sul libro, studiando una parte che ancora non abbiamo affrontato. <<Bene>>, fa lei; <<allora riferisci quello che hai letto>>. Attacco parlando di una parte della storia nazionale che fa annuire la maestra, e poi mi sento subito sciolto e sicuro, tanto da riferire quello che so in maniera dettagliata ed impeccabile. <<Va bene>>, dice la maestra alla fine. <<In ogni caso devi stare più attento quando indico i capitoli o le pagine da studiare, per cui il messaggio ai tuoi genitori resta inalterato>>.

            Mi prende un brivido ripensando a tutto questo, e mentre resto immobile dietro al bancone del ricevimento, mi pare adesso di dover ancora riferire quello che so, anche se non c’è nessuno di fronte a me. Sorrido, i miei compagni forse non si aspettavano che io dicessi la verità quella volta. Difatti, nessuno di loro quel giorno ha più trovato qualcosa di cui ridere.

 

            Bruno Magnolfi

lunedì 25 marzo 2024

Coscienza sporca.


            Esco dal piccolo locale dove mi sono fatto servire il solito caffè, mentre scambiavo qualche chiacchiera con il cameriere che conosco da tempo, subito prima di avviarmi ed andare a prendere servizio nel solito albergo dove svolgo il ruolo di portiere di notte. Incrocio un tizio che mi ferma e dice di conoscermi, ma io penso che forse sia soltanto una scusa per farsi pagare una bevuta, visto che non sembra neppure del tutto sobrio. Cerco di superarlo, spiegando che purtroppo devo andare a lavorare, ma lui insiste a dire che abbiamo fatto le scuole elementari insieme, anche se adesso è difficile, mi spiega, ricordarsi di una faccia come la sua. Gli dico che mi pare strano sia così, io vengo dalla provincia, precisamente da un paesino costituito da poche case, dove da piccoli ci conoscevamo tutti, naturalmente. <<Via delle matite>>, mi fa lui; poi continua: <<Effettivamente non eravamo molti di bambini a quell’epoca, anche se la scuola era stata costruita con delle mire ben più alte, come se tutti i centri abitati intorno avessero dovuto portare i loro figli in quelle classi>>. Resto meravigliato, esattamente le cose stanno proprio come le sta spiegando quest’uomo, rifletto, così chiedo subito il suo nome e l’anno di nascita, ed alla fine riconosco, nella sua fisionomia, e nonostante la barba di adesso, un bambino che era proprio nella mia classe. Gli stringo la mano, <<purtroppo vado di fretta>>, gli dico, e lui fa un sorrisone, e poi dice che magari è possibile che ci incontriamo un’altra volta, proprio da queste parti. <<Va bene>>, fo io, e poi me ne vado. Adesso ricordo meglio il tipo di bambino che era lui all’epoca, uno con cui, nel bene o nel male, non ho avuto quasi mai da confrontarmi: pareva una persona distante da me, ed anche uno di cui non ci si poteva mai fidare.

<<Manetti>>, gli dico adesso nei miei ricordi mentre mi alzo dal mio banco, durante i dieci minuti di ricreazione. <<Tu non ne sai niente delle mie figurine?>>, e lui fa una smorfia mentre solleva le spalle. <<Assolutamente no>>, mi dice con una faccia che meriterebbe qualche schiaffo; <<di quella roba non ne faccio neppure la raccolta>>, mi spiega quasi con disprezzo. Lo lascio perdere, ma non sono affatto sicuro che racconti tutta la verità, e in ogni caso credo che a sfilarmi alcune figurine dall'astuccio dove le avevo sistemate, può essere effettivamente stato chiunque tra tutti i miei compagni di classe. Non mi importa molto delle figurine in sé, rifletto subito, quelle che porto a scuola sono soltanto dei doppioni, però mi sento molto dispiaciuto che nessuno tra tutti i ragazzi abbia un briciolo di rispetto verso di me, e forse mi demoralizza che ognuno creda addirittura che io mi meriti di essere trattato in questo modo. Ingoio l’affronto, e comunque tengo gli occhi ben aperti. Alla fine, trovo proprio una delle mie figurine sul pavimento dell’aula, ben calpestata più volte da qualcuno, e a quel punto capisco che ci sono dei miei compagni che più di tutto amano fare degli spregi sia alle mie cose e sia nei miei confronti. Potrei piangere di rabbia, ma alla fine mi controllo, raccolgo i pezzi della figurina e vado a gettarli nel cestino dei rifiuti, come se desiderassi registrare il fatto, ma che non mi importasse quasi nulla di quanto effettivamente è accaduto.

            Cerco di pensare in modo razionale a quali compagni possono aver compiuto un atto di quel genere, e soprattutto tento di comprendere quale sia il loro scopo finale. Mi muovo tra tutti i bambini negli ultimi minuti di ricreazione, e mi rendo conto che ognuno cerca di mostrare indifferenza verso di me, come se tutti rispondessero ad un piano preciso per mettermi in difficoltà e lasciarmi solo. Quando riprendono le lezioni, con molta calma alzo una mano per mostrare alla maestra la volontà di dire qualcosa a voce alta. Lei mi guarda e mi fa un cenno, così mi alzo dalla sedia, anche se sto tremando, e senza guardare nessuno, ma con lentezza e determinazione, dico quello che è successo, spiegando che delle figurine non mi importa niente, ma del fatto che ci sia qualcuno che desidera nell’ombra farmi uno sgarbo, credo sia realmente qualcosa di poco opportuno. La maestra si indigna, quindi si alza dalla cattedra, guarda tutti in faccia e dice nervosamente che <<Paolo ha subito un vero affronto, e né io né lui possiamo tollerare un comportamento di questo genere>>. Adesso nessuno fiata, tutti guardano il piano del proprio banco, senza il coraggio di alzare gli occhi dalle loro mani. Poi non accade niente, ma al momento del termine delle lezioni, diversi tra i miei compagni si avvicinano per sostenere subito che non sanno nulla di quello che è accaduto. Improvvisamente mi sento importante e considerato, e forse già questo mi pare un ottimo e insperato risultato.

            Avrei dovuto ricordarlo subito al Manetti, penso adesso, una volta giunto in albergo e preso posizione; forse lui dopo tanti anni avrebbe avuto voglia di scaricare un po’ la sua coscienza.

 

            Bruno Magnolfi

venerdì 22 marzo 2024

Incapacità.


Il mio nuovo compagno di banco sta male, rifletto. Lo guardo: lui è pallido, stringe gli occhi, si ripiega sulla sua seggiola, e alla fine chiede alla maestra il permesso per uscire, per andare in bagno, credo. Io sono diviso tra il desiderio sentito che lui stia meglio piuttosto in fretta, e la preoccupazione per quello che potrà venirne a me dei suoi malesseri, se lui addirittura dovesse andare via perché non riesce più neppure a stare nella scuola. I miei compagni sarebbero pronti a sostenere che io porto male, e che non mi si può rimanere accanto troppo a lungo, perché il mio influsso malefico è subito pronto a scaturire e a fare danno. Attendo qualche minuto, poi mi alzo in piedi chiedendo di parlare con l’insegnante. Lei mi fa un cenno, io mi avvicino in fretta alla cattedra, le dico sottovoce che sono preoccupato per il mio compagno, e forse sarebbe il caso che io andassi a vedere che cosa gli stesse succedendo. La maestra fa una pausa, guarda in giro tutta la classe, poi, senza tornare a guardarmi, dice svelta: <<Va bene, Paolo, però torna in fretta>>.

Esco nel corridoio, e mentre richiudo la porta dell’aula provo un’improvvisa sensazione di benessere, come se avessi riacquistato all’improvviso una certa libertà. Il mio compagno qui intorno non si vede, sicuramente è in bagno, penso, ma io non voglio passare per un tipo curioso, così mi avvicino lentamente alla porta dei servizi, ma poi rimango lì, sulla soglia, senza decidermi a fare niente. Dopo qualche minuto, sento dei rumori d’acqua, così entro dentro e lo trovo mentre si sta sciacquando la faccia, e dice subito che ha appena vomitato. Gli dico che mi dispiace, e che adesso però inizierà sicuramente a stare meglio, e lui non mi risponde, perché continua a bagnarsi e basta.

Adesso sono in casa, attendo con pazienza l’orario per recarmi a lavorare, e mi pare di sentire un peso sullo stomaco, come se anche a me in questo esatto momento potesse prendere un deciso malessere. Cosa posso fare per il mio compagno di banco, mi chiedo insistentemente senza trovare una risposta. Poi lui si asciuga la faccia e muove le gambe come per tornare in classe, giudicando di sentirsi meglio, immagino. <<Aspetta>>, gli dico; <<Possiamo essere amici, se vuoi, possiamo aiutarci a vicenda, sentirsi rassicurati dalla nostra vicinanza, almeno in certi casi>>. Lui si ferma, mi guarda, non so cosa stia per dirmi, e forse mi sento un po' preoccupato anche per questo, tanto che al momento non riesco neppure a formare un’espressione sensata. Trascorrono così alcuni secondi, lui forse comprende che la mia presenza lì significa esattamente ciò che ho appena finito di dire, ed all’improvviso sbotta, con ironia, come se già per tornare dall’insegnante ci volesse un certo coraggio: <<Dai, rientriamo>>, mi fa, senza neppure attendere la mia opinione, ed io gli vado dietro, non so se per accondiscendere a qualcosa, o solo perché riconosco che dobbiamo per forza fare così. Devo prepararmi per andare a lavorare, adesso, ed affrontare il turno di portiere di notte in quel solito albergo, avendo il cuore il più possibile leggero, tranquillamente insomma.

L’insegnante sembra risentita: abbiamo messo troppo tempo, non è permesso stare nei corridoi in più di uno, e se il mio compagno aveva una qualche giustificazione, considerato il suo momentaneo malessere, io non avrei mai dovuto trattenermi così a lungo. Sono nel torto, rifletto, quindi non ho alcuna possibilità di discolparmi, anche se vorrei tanto urlare in questo momento che stavo solo tentando di aiutare un amico, io che di amici non ne ho, e che non importa niente ciò che possa pensare lei, ma io dovevo per forza comportarmi in quella esatta maniera. Tutti ridono, non ne capisco neanche il motivo, mentre io rimango in piedi di fronte alla maestra che affonda i suoi giudizi su di me, e quando mi volto per guardare meglio, mi accorgo che anche il mio compagno di banco sta divertendosi e ridendo alle mie spalle di questa situazione che si è verificata. Tutto normale, penso subito dopo, mentre alla fine torno a sedermi, graziato infine dall’insegnante soltanto perché deve parlare a tutta la classe di non so neppure quale condottiero della storia nazionale. Non importa, penso; dovevo immaginarmi che un tentativo così sarebbe risultato solo goffo e inadeguato. E mentre esco di casa, pensando all’albergo e all’angolo del ricevimento che sarà il mio semplice rifugio anche per stanotte, ritengo per consolazione che la mia solitudine sia qualcosa che ho coltivato a lungo, ogni volta, con ostinazione, fino ad accorgermi di come tutti si siano allontanati da me, certo, ma probabilmente anche soltanto per una sorta di rispetto verso i miei principi. Però, più probabilmente, penso poi con una certa convinzione, sono io che adesso cerco solamente di apparire vittima di una mentalità diffusa, e di coprire in questo modo i miei difetti, le mie lacune, le mie incapacità.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 20 marzo 2024

Ancora da decidere.


            Resto in piedi, da solo, dietro al banco del ricevimento, osservando la nottata che trascorre lenta proprio come ogni altra, e penso intanto a come sia possibile che in questo albergo non succeda mai un bel niente. Rientrano tre o quattro clienti attorno a mezzanotte, e poi più nulla, lasciandomi qui a rigirare i miei pensieri nella mente senza alcun proposito per il prossimo futuro. Allora invito il mio alter ego del passato a farmi compagnia, e in un attimo lui è qui, con i suoi dieci anni e le sue speranze di ragazzo nato e cresciuto in un paesetto del tutto privo di caratteristiche, a cui gli è stato impossibile affezionarsi veramente, e l’unica cosa buona che ha fatto è stata quella di lasciare che lui se ne andasse da lì quando per fortuna era giunto il momento più giusto, senza fare troppe storie e non recriminando per sé alcuna nostalgia di quelle quattro strade e di quelle due manciate di abitazioni tirate su praticamente a caso. <<Paolo>>, gli chiedo adesso nel silenzio della notte, accompagnato dal leggerissimo brusio di un motore elettrico, forse l’impianto di riscaldamento, oppure l’acqua che scorre nei tubi, o magari la ventola di raffreddamento del terminale che ho di fronte. <<Ma ti saresti mai immaginato che sarebbe andata in questo modo?>>, gli chiedo sorridendo mentre appoggio i gomiti sul piano che ho di fronte. Lui scuote la testa, mi pare quasi un bambino dalla comprensione un po' troppo lenta nei confronti di quello che certe volte gli si dice, ma poi apre la bocca, e spiega in due parole che forse i presupposti c’erano già. Annuisco, anche se non dice altro, ma intanto vorrei che mi spiegasse qualcosa in più, che si lasciasse andare a tirar fuori le speranze più segrete che c’erano allora dentro di lui, e quindi dentro di me.

<<Volevo lasciare dietro le spalle molte cose>>, dice allora mentre sento scorrere anche dentro di me quella sua stessa sensibilità. <<Non mi sono mai integrato veramente tra gli altri ragazzi in mezzo ai quali sono cresciuto. Li incontravo ogni giorno davanti alla nostra scuola, in via delle matite, ma per me sono sempre stati degli estranei, come se io fossi lì quasi per caso, per una combinazione di cose di cui non ho mai neanche compreso la necessità. Certo, ho provato ad integrarmi, ad assomigliare ai miei compagni, a ridere o intristirmi a tempo insieme a loro, ma non mi è mai riuscito veramente, restando alla fine come un embrione semplice di quello che sarei facilmente diventato in seguito>>. Sorrido, mentre osservo la notte fuori della vetrata prospicente la solita piazzetta storica. Io e lui siamo costituiti della medesima pasta, rifletto, anche se sembra del tutto normale e scontata una cosa di questo genere; il fatto è che trovo una coerenza tra di noi che dimostra quasi un principio di testardaggine nell’evitare qualsiasi variazione di opinioni nell’arco di tutti questi lunghi quarant’anni. <<Tu sapevi già che non ci sarebbe stato un futuro troppo brillante per te e per i tuoi desideri>>, gli dico tanto per stuzzicarlo. <<Questo non è vero>>, risponde il ragazzino. <<Tante soluzioni potevano trovare sbocco per uno come me. Che le cose potessero andare come si sono verificate era soltanto una possibilità tra tante>>.

Certo, penso io adesso; non posso incolpare un bambino di tanti anni addietro per non aver creduto troppo alle proprie possibilità, e di non essersi impegnato affatto nel fare in maniera che qualche prospettiva positiva trovasse il giusto slancio. Poi c’è anche il destino, o le combinazioni sfortunate, penso ancora. <<La scuola non mi attraeva>>, riprende lui. <<Non trovavo in quelle ore che trascorrevo in mezzo ai banchi, con dei compagni che neppure mi piacevano, qualcosa che risultasse adatto per impegnarmi nel dimostrare la mia vera volontà e i miei più forti desideri. Mi trovavo ogni giorno lì con loro per semplice per abitudine, forse per dovere, o per fare contenti i miei stessi genitori, ma alla fine le cose importanti per davvero ritenevo stessero in qualche luogo diverso, dove pensavo fosse mio dovere recarmi prima o dopo>>. Se soltanto mi fossi affezionato di più al paese, oppure mi fossi fatto dei veri amici tra quei miei coetanei, penso adesso, credo che qualche aiuto lo avrei trovato, piuttosto che restare solo e partire praticamente da zero. <<Ma io volevo partire da zero>>, dice lui; <<il mio principio fondante era esattamente questo: non dover ringraziare mai nessuno, ed arrangiarmi da me nel costruire il mio percorso>>.

Alla fine, non è neppure andata troppo male, dico io con una smorfia: un mestiere l'ho trovato, tiro avanti, ed anche se non mi muovo mai da dove mi trovo, però parlo spesso con gente straniera nella loro lingua, tanto che mi pare di viaggiare, e in qualche modo così la mia vita procede. Ho avuto diverse difficoltà in passato, ma adesso è tutto già alle spalle, come non si fosse mai verificato. <<Non credo sia una giustificazione valida>>, fa lui; <<altrimenti tutto questo varrebbe per ciascuno, anche coloro che hanno sbagliato tutto e che hanno avuto prima o dopo una diversa opportunità>>. Quindi non mi assolvi, dico io quasi per ridere, e lui: <<non so, devo pensarci>>.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 18 marzo 2024

Orgoglio di paesani.


<<Penso che fuggirò al più presto da qui, per andare da qualche parte che ancora non so proprio, ma dove sicuramente non mi conosce nessuno>>, dico sottovoce e con molta calma ad un compagno di classe, in un pomeriggio domenicale qualsiasi in cui ci siamo ritrovati per caso a gironzolare da soli per le strade del nostro paese, per poi andarci a sedere piuttosto scomodamente su delle tavole di legno scalcinato, residui di un cantiere abbandonato e rimasto incompiuto, con dei ferri arrugginiti e dei mattoni rotti sparsi in giro dappertutto. <<Certo>>, confermo poi scuotendo la testa; <<la cosa che mi attrae maggiormente è quella di allontanarmi il più possibile da queste case>>. Il mio compagno mi guarda senza trovare ancora le parole per dire qualcosa. Mi ha fatto una domanda qualsiasi, rifletto, magari la prima che gli è passata per la mente, ed adesso non sa decidersi se contrapporre la sua affezione a questo luogo in cui vive da quando è nato, oppure restarsene in silenzio e dare per scontato il proprio parere più o meno segreto. Sicuramente non si aspettava da me una risposta secca di questo genere, però le mie parole non implicavano che tutti dovessero avere la mia stessa opinione, tutt’altro; e quindi non ci vedo niente di male se lui conserva nella mente differenti aspettative per il suo futuro. Infine, dice semplicemente che lui non ha mai pensato una cosa di questo tipo. <<Ho il padre che fa l’autotrasportatore>>, riprendo subito io per spiegarmi meglio; <<ed ogni giorno lui si trova in giro per il mondo, e quando torna a casa e mi parla di un luogo, di una città, oppure di un’altra, a me le sue descrizioni fanno sognare, e mettono in moto nella mia mente il desiderio di visitare ognuno di quei posti dove magari è appena stato>>.

Il mio compagno di classe ascolta, mentre arrotola con le dita un pezzo di vecchio filo di ferro che ha trovato a terra, e poi dice che: <<ma forse immaginarsi di viaggiare, è già un po' come viaggiare. Se si impiega della fantasia e ci si proietta da qualche parte, come dice la maestra, non c’è proprio alcun bisogno di muoversi, ed anche restando seduti in casa propria, si riesce ad essere con la mente un po’ dove si vuole>>. Rifletto. Non ci avevo mai pensato. Però è assolutamente sensato quello che ha detto questo ragazzo, rifletto adesso; anzi, probabilmente è il forte desiderio di qualcosa che ci fa innalzare quel qualcosa, tanto che, quando lo si ottiene, forse si resta addirittura persino un po’ delusi. <<Magari hai ragione>>, dico svelto. <<In ogni caso non mi sento legato a queste quattro case, anche se ci sono nato, e credo che prima o dopo me ne andrò via da qui senza provare proprio alcun rimpianto>>. Lui mi pare che provi già la distanza che a parole cerco di frapporre fra me e lui, ma proprio per questo motivo, per assurdo, io mi sento di essergli addirittura più vicino. <<Chissà quante cose cambieranno nei prossimi anni>>, dice osservando qualcosa attorno a sé; <<forse verranno terminati questi cantieri, e le case allora saranno abitate, e ci saranno in giro altri bambini e altri ragazzi come noi, e magari la scuola di via delle matite verrà ampliata, e ci saranno nuovi insegnanti e tanta gente in giro, e dei nuovi negozi che adesso neppure immaginiamo. Chissà>>.

Resto nuovamente stupefatto: non avevo mai pensato al fatto che questo paese di provincia potesse avere uno sviluppo di questo genere, ma i piani regolatori dell’edilizia probabilmente lasciano delle ampie possibilità a certi luoghi, delle espansioni tali che potrebbero oscurare facilmente quell’immagine che al momento forniscono, quella di semplici dormitori e contenitori di persone, senza alcuna spina dorsale. Oggi, che ormai sono trascorse qualche decina d’anni da allora, posso verificare facilmente che quel posto dove sono nato e da cui in seguito mi sono allontanato proprio come prevedevo, non è cambiato molto, e addirittura la nostra vecchia scuola non esiste più, e i bambini del luogo al mattino salgono sugli scuolabus e vengono rapidamente fatti trasferire in un paese ben più grande, ma poco lontano da lì, e senza che nessuno trovi da ridire. Dalla provincia, io mi sono poi trasferito nella città più vicina, insieme alla mia famiglia, e mi sembra che tutto si filato piuttosto bene, almeno da questo punto di vista, anche se ogni tanto ripenso volentieri a quei giorni di vita in paese. <<A me pare che tutto qui prenda la ruggine>>, dico infine al mio compagno di classe più ottimista di me. <<Forse>>, fa lui; <<però anche questa può essere una caratteristica da non sottovalutare, quasi qualcosa che prima o dopo magari si mostrerà come un aspetto interessante. E allora tutti noi saremo forse orgogliosi di aver abitato da bambini in questi luoghi>>.

 

Bruno Magnolfi    

sabato 16 marzo 2024

Scarso interesse.


            Il tempo non esiste, come hanno detto molti altri prima di me. Nel silenzio e nella solitudine tutto si appiattisce, e quelli che alcuni giudicano soltanto dei ricordi, diventano così un perenne presente che prosegue a scorrere dentro e fuori di noi, lasciando scaturire nella mente gli stessi esatti stati d’animo con cui i fatti del passato sono stati vissuti. <<Scansati, Ciccio Bomba!>>, dice a me improvvisamente il più bullo di tutta la classe, mentre mi trovo ancora tra i banchi della scuola, un attimo dopo che è stata fatta suonare la campanella ad indicare a tutti noi l’orario del termine quotidiano delle lezioni. Nessuno fino ad oggi mi aveva mai chiamato così, ed anche se non sono, o non mi sento, particolarmente grasso, mi ritrovo all’improvviso offeso nel profondo da quell’espressione, come se quel mio compagno avesse messo in luce all’improvviso un mio grave difetto, del quale fino adesso peraltro non avevo mai avuto coscienza. Attendo troppo prima di replicare in qualche modo, e quindi perdo inevitabilmente il momento giusto per dire qualche cosa, così da restare in silenzio e implicitamente avvalorare quel termine che mi è appena stato affibbiato. So perfettamente che, se qualcun altro nella confusione del momento ha solo captato quelle parole, da domani sarà sicuramente pronto a ripeterle con voce anche più alta, non foss’altro per mostrarsi allineato alla mentalità di chi le ha pronunciate, questo odioso ragazzino aggressivo e senza scrupoli.

            Non ho alcuna via di scampo, se non subire per sempre quanto ormai stabilito dagli altri, ad iniziare da questo momento, senza peraltro che possa far nulla per sottrarmi a questa specie di gogna che si sta per abbattere implacabile sopra di me. Fino ad ora i compagni di classe forse hanno giudicato i miei comportamenti probabilmente tollerabili, e per i più io sono sempre stato valutato come un’ombra che in silenzio scivolava tra tutti senza infastidire i loro comportamenti, e senza che ci fosse molto di cui dire sul mio conto. Adesso però, è più che evidente quanto stia per cambiare tutto quanto. Il grido di guerra contro di me è già stato lanciato, e d’ora in avanti sarò costretto a stare sempre sulla difensiva, cercando magari di schivare i colpi che mi arriveranno addosso, o tentando qualche disperato tentativo di recupero della dignità e del rispetto che credevo in qualche modo di aver giustamente guadagnato fino ad ora. Non ho alcun alleato in questa battaglia, e devo fare conto soltanto sulle mie misere forze, che peraltro si avvalgono, nella maggior parte dei casi, sulla semplice indifferenza che ostento nei confronti di tutti i miei compagni di scuola.

Appena possibile ho guardato attentamente la mia figura ad uno specchio, e pur non riconoscendo giustificato l’appellativo che mi è stato affibbiato, devo però ammettere che, se riuscissi a perdere qualche chilo in eccesso, probabilmente tutto sarebbe molto più semplice. Oggi sono magro, ed anche quando passo davanti alle eleganti specchiere posizionate nei corridoi dell’albergo dove lavoro, mi sento in coscienza di rendermi conto che sono una persona ordinaria, né troppo magra né troppo grassa, avendo perduto i pochi chili di troppo già ad iniziare da quella fase scolastica. Non ci vuole neanche molto, ho pensato al momento di tornarmene a casa. Basta mangiare delle porzioni ridotte di tutto ciò che mia madre mi mette dentro al piatto. Lei mi ha chiesto subito se per caso non mi sentissi troppo bene, ma io l’ho subito rassicurata spiegando che in questo preciso periodo semplicemente non provo molto appetito. Qualcuno, tra i miei compagni di classe, ridendo mi ha chiamato ancora con quell’appellativo infamante, come avevo previsto, ma io ho risposto con fermezza che stavo gonfiando un po' soltanto perché costretto a fare una cura di cortisone per una malattia lunga e antipatica. Nessuno, alle mie parole, si è permesso di ribattere niente, e a quel punto qualcuno deve aver fatto sapere anche al bullo di turno come stessero le cose per davvero, e così non si è più verificato il caso che fossi chiamato di nuovo Ciccio Bomba.

Da grande poi ho avuto un ulteriore periodo in cui ho messo su diversi chili di troppo. È stato il momento in cui la mia ragazza, abile cuoca, è venuta ad abitare a casa mia, facendomi trovare quasi ogni giorno dei pranzi o delle cene invitanti e gustose, ma quando ho riflettuto che in qualche maniera avrei facilmente potuto trovarmi nella stessa situazione antipatica di quando frequentavo la scuola elementare, mi sono rapidamente dato una regolata. Quando le cose hanno preso una piega diversa e noi due ci siamo lasciati per sprofondare di nuovo nelle rispettive solitudini, a me è passato l’appetito, e così non c’è stato alcun bisogno di fare una dieta ipocalorica per tornare nelle dimensioni di quello che ero. A scuola, il mio compagno di banco, qualche settimana più tardi, mi aveva detto all’improvviso che, secondo lui, ero notevolmente dimagrito, ed io, sollevando una spalla, avevo riferito di aver cessato le cure con il cortisone, e quindi di essere tornato nella normalità del mio peso forma. Poi, riflettendo meglio su questa pesante parola, normalità, mi è parso che qualcosa mi sfuggisse, ma da allora in avanti non me ne sono più assolutamente interessato.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 14 marzo 2024

Amici veri.


            Il custode della scuola di via delle matite si chiama Aldo, ed abita proprio sul retro dell’edificio, in un appartamento che è stato ricavato al piano rialzato, lo stesso delle aule delle elementari, dall’interno del quale lui ha l’accesso a tutto il resto dell’edificio. È una vera istituzione, considerato che risulta sempre presente, nonostante possa fare affidamento su diversi aiutanti che svolgono più o meno i suoi stessi compiti. Lui si piazza al mattino sulla soglia di uno dei due portoni in legno massiccio che si aprono sulla facciata, ed immancabilmente saluta tutti gli insegnanti che giungono in fretta per salire la piccola rampa delle scale esterne, prima di imboccare il largo corridoio dell’entrata. <<Buongiorno>>, dice sempre Aldo a ciascuno indossando il suo immancabile camice azzurro, allargando un semplice sorriso a tutti e distribuendo in giro tanta pazienza. In seguito, pochi minuti più tardi, esattamente all’orario previsto dal direttore, va quindi a premere il pulsante della campanella generale, dando il segnale per l’entrata di tutti i ragazzi, i piccoli dall’ingresso di sinistra, e quelli delle medie, che vanno al piano superiore della scuola, da quello di destra. A me certe volte strizza un occhio, perché trascorro molto tempo nel corridoio durante le lezioni, e lui mentre spazza il pavimento o svolge altri compiti durante la mattinata, si ferma volentieri a parlare un attimo con me, informandosi sempre sulle mie preoccupazioni del momento o sulle novità della giornata.

            <<Devi essere più furbo, Paolo>>, mi dice spesso; <<e non farti accorgere dalla maestra che in classe non ci stai troppo volentieri>>. Io sorrido, Aldo è un amico, anche se è più anziano di mio padre. Conosce bene i modi di fare dei ragazzi, e spesso riesce ad infondere in ognuno di noi quel filo di coraggio che a volte manca per affrontare le lunghe ore di lezione. <<E come posso fare?>>, gli chiedo sottovoce. <<È semplice>>, fa lui; <<basta che ti dimostri sempre attento e pronto quando lei parla a te e ai tuoi compagni. Se in seguito vieni a passare un po’ di tempo lungo il corridoio, com’è tua abitudine, lei a quel punto ci farà sicuramente meno caso>>. Riconosco che è una buona soluzione: in fondo ci vuole poco per mostrarsi interessato a ciò che viene detto in classe, e tutto sommato credo di poter persino intervenire qualche volta per porre qualche domanda o chiedere una certa spiegazione. <<Ma certo>>, fa lui; <<è proprio questo il tuo compito, il motivo esatto per cui vieni a scuola tutti i giorni. Se non adoperi questi strumenti e ti fai vedere sempre svogliato si comprenderà immediatamente che andrai poco lontano con gli studi>>. Sorrido, riconosco che Aldo ha piena ragione, anche se mi torna difficile comportarmi come dice lui. Però è vero che le ore che trascorro in aula sono tante, ed è giusto che sfrutti tutto questo tempo a mio favore, come altre volte mi ha anche suggerito, invece che gettarle via nel completo disimpegno.

            Il mio principio fondante, in ogni caso, rimane sempre quello di distinguermi dai miei compagni, non tanto perché voglio essere migliore o dimostrare a qualcuno di avere delle qualità che gli altri non possiedono, quanto perché mi sento esattamente differente da loro, come se, ad esempio, tutta la socialità e la generosità che alcuni dimostrano verso gli altri ragazzi, mi risultasse perlopiù fasulla, quasi sempre messa su ad arte per evidenziare il proprio comportarsi come pieno di bontà d’animo e di ottime intenzioni; oppure il continuo assentire quando parla un compagno giudicato bravo da tutti e soprattutto dalla nostra maestra, indipendentemente dall’argomento che viene portato avanti, è un altro aspetto che tollero malvolentieri, e che proprio non vorrei ripetere. Insomma, ci sono diverse distinzioni da fare nei comportamenti che registro in giro, ed io non vorrei mai ritrovarmi a scimmiottare certi personaggi che vanno per la maggiore in classe mia soltanto perché riescono a mettersi in mostra nel momento più opportuno. In tutto questo perciò mi sento incerto, incapace nel prendere delle decisioni definite del mio comportamento, ed anche se riconosco quanto Aldo abbia ragione nel portarmi davanti certi ragionamenti, quando alla fine rientro in classe tutto ciò che ho appena ascoltato fino ad ora, si smonta quasi subito nei miei reali atteggiamenti.

            Sorrido adesso, nel ripensare a quelle briciole di saggezza del mio passato che già a quell’epoca cercavo di mettere a punto, ed ora che sono trascorsi così tanti anni da quei giorni, mi pare che i miei sforzi avrebbero dovuto essere meglio impiegati, nonostante riconosca a me stesso una grande coerenza di carattere. Osservo il piano lucido sul banco del ricevimento di questo albergo, e mi sembra chiaro che, se quando andavo alle elementari avessi potuto indirizzare meglio i miei atteggiamenti, forse avrei dovuto anche sforzarmi di essere meno distaccato dagli interessi di tutti i miei compagni di quell’epoca, e forse tentare di farmi già da allora qualche amico vero.        

 

            Bruno Magnolfi