giovedì 29 luglio 2021

Occhi di pianto.

 

Ho raggiunto oramai quarantacinque anni d'età, e sono perciò una donna matura, come si dice in questi casi; eppure se guardo al mio presente mi pare di dover ancora arrancare molto per riuscire a comprendere parecchie cose su ciò che mi circonda, e se invece penso al futuro mi pare ci sia sempre qualcosa che ancora sfugga del tutto ai miei proponimenti. Negli anni passati, quando ero molto giovane, ho svolto il mestiere di segretaria, immediatamente dopo il raggiungimento del diploma, rispettando orari e mansioni molto precise all'interno di un noto studio commerciale cittadino in cui mi aveva introdotto mio padre tramite certe vecchie conoscenze, soltanto però fino al momento di conoscere casualmente l'uomo che nel giro di pochi mesi mi avrebbe chiesto di sposarlo, così in seguito, quando si è profilata la possibilità di aiutarlo e sostenerlo nelle molteplici occupazioni della carriera che aveva intrapreso, e di tenere in ordine per le società di affari da lui controllate almeno la parte più semplice dei registri contabili, ho smesso naturalmente di esercitare quel vecchio lavoro, ed ho abbracciato prima di tutto il ruolo per me estremamente congeniale di madre di famiglia, partorendo con gioia nel giro di poco tempo, a seguito della cerimonia nuziale, una bambina deliziosa e biondissima a cui dedicarmi quasi interamente, oltre a dirigere la casa elegante in cui sono subito andata ad abitare, naturalmente organizzando ogni aspetto assieme al personale di servizio, nella proprietà del mio signor marito, l’avvocato Carlo Neri. Alcune amiche in quella occasione mi hanno velatamente criticato, sostenendo che per una donna come me scegliere un ruolo lavorativo separato da quello del proprio uomo sarebbe stato auspicabile, ma io mi sono subito disinteressata di ciò che loro mi dicevano, e mi sono imposta di andare sempre avanti con queste mie scelte personali, preoccupandomi solamente della mia nuova vita.

Certe volte oggi ci ripenso a questi argomenti, soprattutto in quelle giornate in cui mi sembra quasi di interpretare un ruolo, di rivestire con la mia presenza semplicemente un personaggio che tutto quanto intorno a me prosegue a caldeggiare come necessario, e quella sensazione di avere perso durante questo tragitto almeno una parte della mia personalità a vantaggio di una buona vita agiata e senza affanni, resta un pensiero che sinceramente mi sfiora qualche volta, risultando comunque subito accantonato nella mia mente dai fatti consueti di ogni giorno. Mia figlia Franca è una ragazza intelligente e anche sensibile, non ho dovuto faticare troppo con la sua personalità cercando di trasmetterle qualche buon insegnamento, e quando lei affronta al pianoforte la Sonata n. 3 in fa minore di Schumann, per esempio, sento che sta affiorando in lei la vera erede delle mie speranze, forse anche di quelle che ho non ho mai rivelato a nessuno, neanche a me stessa. Mi piace sentire scorrere la sua passione su quelle dita apparentemente esili ma decise, ed anche se so quasi per certo che la musica per lei rimarrà in seguito soltanto una parentesi giovanile, pur certamente di grande intensità, lo stesso la incoraggio sempre nel perseguire le sue scelte.

Poi ieri torna a casa con un piccolo manuale di armonie jazz, un libro come un altro, niente di speciale, ma Franca inizia a ricercare sulla tastiera del nostro pianoforte degli accordi strani, inconsueti, e a seguire un ritmo più moderno, qualcosa che senz’altro sfugge a quanto le ho sempre sentito suonare fino a questo momento. Non c'è niente di male, penso mentre ascolto le sue note dietro la porta leggermente socchiusa. Si tratta di cercare dentro se stessi quello che maggiormente si avvicina ai propri gusti; così proseguo ad ascoltarla a lungo, anche per capire se in questo momento stia seguendo una partitura o se al contrario suoni semplicemente una struttura di propria inventiva. Poi sento scampanellare alla porta di ingresso, e i passi leggeri della nostra persona di servizio che va lungo il vasto ingresso per aprire. Riconosco subito la voce e i modi: è Carlo, mio marito, che rientra a casa come sempre, ed ecco che contemporaneamente termina qualsiasi vibrazione pianistica della musica di Franca. Allora chiudo la porta e vado svelta nel piccolo bagno della mia camera da letto: forse ho capito, rifletto mentre mi guardo dentro al grande specchio illuminato; però non so ancora comprendere il motivo per cui i miei occhi si riempiono di lacrime.

 

Bruno Magnolfi


venerdì 23 luglio 2021

Tutto questo tempo.

 

            Sono uno sciocco se credo ancora alla possibilità per un vecchio strimpellatore di pianoforte come me di tirar su un giovane allievo, oppure anche un’allieva, che nel prosieguo della propria attività riesca davvero a fare strada come concertista. I ragazzi oggi non amano sacrificarsi, e l’interpretazione delle partiture praticamente non richiede altro, se non la propria completa immedesimazione nel puro sfoggio della tecnica capace di rendere esattamente le note come sono intese dal compositore, lasciando a sé soltanto una piccola sfumatura di personalità creativa, che spesso è troppo poco per chi vive la logica frettolosa e poco sensibile della realtà contemporanea. Certo, capisco bene come la musica attuale si sia allontanata sempre di più dai propri principi fondativi cari ai classici, ma la comunicazione attraverso i segni di un qualsiasi documento storico musicale passa ancora da lì, non c’è alcun dubbio. <<Maestro Bottai>>, mi dice la cara governante quando trascorre una delle tre mattinate settimanali a casa mia per svolgere sostanzialmente alcune faccende domestiche ed occuparsi della mia persona; <<non so proprio come riesca ad avere ancora voglia dopo tanti anni di correggere e indirizzare le mani e la testa di questi ragazzi strafottenti che vengono da lei per suonare qualche brano>>. Non rispondo niente, è vero che sono un vecchio e che dovrei occuparmi soltanto dei miei acciacchi, però sorrido, è la mia vita, penso, semplicemente ciò che ho scelto una volta per tutte tanto tempo addietro.

                Comunque in questa ragazza, questa Franca Neri colma di buona volontà e dallo sguardo sempre attento e spesso pungente, oltre naturalmente ad un buon orecchio, fino ad appoggiare sulla tastiera, qualche volta, proprio mentre scalda le mani prima della lezione vera e propria, certi accordi di tredicesima che certamente non le ho insegnato io, e che dentro al proprio incedere si sentono capaci di cercare una soluzione sospesa anche se non del tutto inconcludente, ecco, in lei vedo qualcosa ogni volta, che anche non riuscendo a stabilire cosa sia, sento comunque che pur non facendone assolutamente una interprete in senso stretto, può portarla però verso un altrove che in questo momento a me sembra sfuggire, e che sicuramente sfugge anche a lei stessa. Non dico niente, non so dove abbia trovato quelle note di cui adesso quasi fa sfoggio, però c’è una ricerca dentro di lei che resta difficile avvertire con indifferenza. Sicuramente è riuscita a mettere gli occhi dentro qualche manuale di armonia dove si analizza la rottura tonale avvenuta a seguito del Tristano e Isotta, penso; però probabilmente c’è anche di più nel suo desiderio inequivocabile di spingersi in avanti. Forse c’è della musica di ricerca tra i suoi desideri, magari alcune strutture armoniche tipiche dei pianisti jazz più colti e arditi, in ogni caso Franca ha compreso bene che niente di ciò che desidera suonare può reggersi in piedi se non poggia su delle solide basi di tecnica tradizionale.

Lei viene da me soltanto per due pomeriggi a settimana, ed il nostro tempo lo spendiamo tutto nella ricerca della giusta esecuzione di brani che diventano naturalmente ogni volta più complessi da suonare. Franca si impegna, mi accorgo che i passaggi più difficili li studia a fondo quando si trova a casa propria, e che non si dà mai per vinta quando cerca dentro le sue mani quel senso che ogni volta mi perdo ad indicarle. Non abbiamo mai parlato d’altro, forse anche perché io sono un vecchio arnese che non può minimamente comprendere cosa passi nella mente di una ragazzina come lei; ma forse anche perché mentre scorro gli spartiti che oramai conosco a menadito, provo il fondato timore che nei suoi pensieri ci siano dei concetti sulla musica che in tutta la mia vita non mi sono mai trovato a dover analizzare. C’è del buio che mi terrorizza dietro al suo sguardo, qualcosa che nasconde la possibile improvvisa certezza che le cose adesso stiano cambiando più di quello che ho creduto mai di immaginare, e così quello che sono stato e che con grande impegno ho portato a compimento per molti di questi decenni, si evidenzi improvvisamente come qualcosa di assolutamente poco importante, magari una sciocchezza, forse un trastullo, una maniera come un’altra per trascorrere in qualche modo tutto questo tempo.      

 

Bruno Magnolfi

venerdì 16 luglio 2021

Prima del tempo.

 

            Il mio lavoro è monotono. Si tratta di assistere per otto ore una macchina che attorciglia continuamente dei filamenti per farne delle bobine. Sempre uguale. Così qualche settimana fa mi sono messa a fare la stupida con il capoturno. Lui ha abboccato immediatamente, perciò siamo rimasti nel capannone per degli straordinari, ed alla fine ci siamo dati da fare nello spogliatoio. Le altre donne della fabbrica adesso mi guardano male. Così ho deciso di smettere, anche perché lui naturalmente è sposato, ed io non voglio cercarmi dei guai. Però non mi molla. Ogni poco viene a girare intorno alla mia postazione di lavoro, e mi dice qualcosa. Sorride, pensa di tenermi nel pugno, così attende che una di queste sere ci ricaschi. In fabbrica non siamo tantissimi, e comunque ci sono più donne che uomini. E i discorsi, anche durante le pause, oppure all’ora del pranzo, sono sempre gli stessi. Forse non abbiamo veramente niente da dirci, oltre a lamentarci di questo e di quello; riusciamo soltanto a formulare le solite frasi per fingere di scambiarci qualche pensiero.

            La mia macchina fedele comunque prosegue a sfornare bobine, ed io a guardarla senza nessun interesse. Quando vado a casa continuo quasi a vederla mentre attorciglia i filamenti con i suoi movimenti meccanici stabiliti da qualche ingegnere che non potrò mai conoscere. Tengo spesso lo sguardo a terra, forse per abitudine, e quando sono con mio padre e mia madre, anche a tavola durante la cena, non ho mai voglia di parlare di qualcosa, nemmeno di quello che potrei fare nei prossimi anni. Il fatto è che me la prendo con tutti per avermi incastrato a svolgere nella vita un ruolo da idiota. Non è tanto il lavoro che mi deprime, quanto la consapevolezza che niente potrà mai cambiare. Se penso al futuro non vedo niente.

Poi il capoturno viene da me e dice che dobbiamo vederci dopo il lavoro. Gli dico di no, che tra noi è una storia finita, ma lui insiste. Capisco che mi sono messa dentro un pasticcio, e che lui non smetterà facilmente di ronzarmi dintorno. Cerco di non farmi sorprendere mai mentre sono da sola, ma è complicato. Non posso neppure chiedere aiuto a qualcuno, le altre donne hanno un’opinione precisa, ed anche a parlarne non saprei proprio con chi. Negli ultimi giorni mi viene quasi da piangere per la rabbia che provo. Non ce l'ho con nessuno alla fine, se non con me stessa. Le altre ragazze del lavoro sono quasi tutte sposate e almeno hanno qualcosa da tirar su. Io non ho niente, se non tante giornate pressoché identiche. Un tempo avevo pensato di farmi mettere incinta per avere un bambino da crescere, ma poi mi è parsa un'idea stupida.

Le bobine di filo invece proseguono ad arrotolarsi davanti ai miei occhi. Stacco la macchina, tolgo la puleggia, inserisco i nuovi capi e poi via, un altro bel giro di giostra. Mentre sono lì arriva lui. Mi dice le solite cose, ma adesso ha lo sguardo cattivo, come di chi pretende le cose per forza. Mi fa capire che se continuo in questo modo mi farà sicuramente passare qualche guaio con il superiore. A lui ci vuol niente, basta dire che non sono attenta, che tralascio qualcosa, lavoro male, ed io non posso difendermi. Non gli rispondo neppure, proseguo con le mie cose e poi basta.

Ogni tanto da noi si fa vedere il proprietario di tutta la baracca, getta un'occhiata dappertutto, saluta gli operai e poi si ferma a parlare con i capiturno. Possiede un'altra lavorazione un po' fuori mano, dove sono occupati altrettanti dipendenti come da noi. Mi passa davanti con la sua camicia bianca mentre sto in pausa. <<Scusi>>, gli faccio, <<avrei da farle una domanda>>. Lui si mostra cortese, così mi fa entrare in ufficio, e quando siamo da soli gli dico di colpo che vorrei cambiare la mia attività. Lui prende gli incartamenti che mi riguardano, dice che sono già quattro anni che lavoro con quella mansione, e io gli dico che mi piacerebbe provare qualcos'altro, magari nel secondo capannone di sua proprietà. Naturalmente lui prende tempo, dice che ci deve pensare, però mi fa capire che generalmente, potendo scegliere, sarebbe meglio per me stare dove mi trovo. <<Vorrei cambiare>>, gli ribadisco, e con ciò esco da lì e torno alla macchina per le bobine. Dopo un’ora però lui si avvicina, da solo: forse ha capito quale sia il mio problema, penso mentre lo guardo; difatti dice soltanto: <<va bene>, con voce bassa, come se non si dovesse diffondere la notizia, almeno prima del tempo.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 8 luglio 2021

Inopportune giustificazioni.

 

Amo grattarmi. Soprattutto mi piace sentire, sopra una qualsiasi zona della mia pelle, quell’attimo esatto in cui giunge ad evidenziarsi fortissimo l’inestinguibile prurito che tra gli altri miei bisogni rimane quello che risulta d’improvviso il più insopportabile di tutti, sapendo comunque, con enorme soddisfazione sgorgata dentro di me esattamente in quella frazione di tempo, che con una maniera  rapida e semplice posso riuscire facilmente a calmare quel pizzicore tremendo, cioè semplicemente raspando, anche in malo modo, la parte interessata con queste mie unghie, adeguatamente sempre un po’ lunghe, della mano più prossima all’azione. Certe volte cerco persino di protrarre almeno di qualche attimo quel preciso momento così agognato, subito prima di iniziare a grattarmi con metodo, proprio per immaginare in questa maniera il piacere che so con certezza riceverò subito dopo, una volta trattata a dovere la parte. Ma poi, quando inizio finalmente a lavorare adeguatamente la zona incriminata, mi pare quasi di non riuscire più neppure a smettere, come se quella soddisfazione che adoro ricevere, dovesse perdurare nel tempo il più a lungo possibile. In certi casi riesco addirittura ad infliggere alla mia pelle delle piccole e sanguinolente ferite, ancora prima che quel prurito così fastidioso si trasformi in un vero e proprio dolore. Spesso perdo anche il senso delle attività di cui mi stavo occupando in quei casi, quasi che il mio cervello fosse fortemente attratto, ed improvvisamente tutto concentrato, su quella porzione superficiale di me che per un motivo o per un altro mi sta chiedendo con tutte le sue forze di intervenire.

Comunque non è stato sempre così: fino ad un paio d’anni fa credo di essere stata una persona del tutto normale, che in certi casi sicuramente poteva anche darsi una grattatina ogni tanto da qualche parte, ma sempre con una certa parsimonia, ed in qualche occasione anche omettendo addirittura qualsiasi intervento delle mani. Adesso mi risulta del tutto impossibile, come se questo richiamo primordiale delle mie cellule cutanee superasse di gran lunga per importanza qualsiasi altra possibile attività. Sono cosciente di non poter essere ogni volta in completa solitudine per avere la libertà di comportarmi come mi pare, e così mi assoggetto facilmente a delle situazioni anche piuttosto imbarazzanti, che purtroppo non posso assolutamente evitare. Perciò mando avanti le mie giornate con una consapevolezza profonda, e non faccio mai niente per evitare che quanto può avvenire da un attimo all’altro, di fatto poi avvenga. Le espressioni strane delle persone che mi sono vicine non riempiono di grande interesse i miei comportamenti, ed in genere mi affido con naturalezza alla loro tolleranza per riuscire ad avere la comprensione sicura che merito.

Poi incontro un’amica, la quale ovviamente conosce abbastanza il mio piccolo problema, e mentre ci facciamo i soliti convenevoli, così fermi, in piedi, sulla scala mobile di un grande magazzino commerciale, ecco che sento sopra una gamba giungere un attacco di prurito insopportabile, tanto che inizio, proprio mentre continuo a parlarle quasi mantenendo una certa indifferenza,  a sfregarmi immediatamente i calzoni leggeri per attutire il fastidio. Mi rendo subito conto che non riesco assolutamente a placare quel pizzicore tremendo che sembra crescere ad ogni frazione di secondo, tanto che mi vedo costretto ad introdurre una mano e parte del braccio all’interno della cintura, e poi giù fino a trattare direttamente con le unghie delle dita la zona che intendo grattare fino all’estinzione di ogni fastidio. La mia amica ride e poi si volta per non guardarmi, fingendo forse di non conoscermi affatto, considerando che siamo in mezzo ad un sacco di gente, ed anche io tento di interpretare un improvviso dolore che non lasci nessuna alternativa ai miei gesti. Quando infine tutt’e due scendiamo dalla scala mobile, riesco in un attimo a recuperare la mia dignità, e mi scuso naturalmente, ma non cerco neppure per un attimo di dare una spiegazione plausibile ai miei comportamenti. Credo siano cose del tutto naturali, rifletto recuperando la mia espressione seriosa: sono sicuro che chiunque può comprenderlo perfettamente, senza alcun bisogno di fornire per forza delle quasi inopportune giustificazioni.

 

Bruno Magnolfi  

sabato 3 luglio 2021

Sono una persona qualsiasi.

 

Sono finito, adesso non ho più nessuna possibilità di rimettermi in piedi, penso. Ma, nonostante tutto, vorrei in questa fase ancora guardarmi attorno alla ricerca di un salvataggio estremo, magari con l'aiuto di qualcuno che naturalmente mostri la volontà per compierlo, e possibilmente persino le capacità, anche se ritengo in pratica quasi una certezza il fatto che non arriverà mai nulla e nessuno a tirarmi fuori da questa situazione. In fondo che cosa mi interessa penso, le cose sono andate così, sono rimasto a terra e solamente con le tasche colme di debiti, inutile persino analizzare i complessi passaggi che hanno determinato questo torvo finale. Devo prendere atto della realtà, e semplicemente mostrarmi cosciente di quanto è avvenuto.

Devo ammettere che non mi sono mostrato troppo prudente nel mandare avanti le mie cose, questo è il punto, e dopo gli inizi il resto però è arrivato direi per conto proprio, senza che potessi fare niente per fermarlo. Adesso esco da casa ogni giorno senza uno scopo preciso, giro a caso per il mio quartiere, mi soffermo ad osservare qualcosa lungo la strada, e intanto penso che devo prendere delle decisioni, forse darmi una scrollata, tentare di prendere un’iniziativa, piuttosto che subire ancora passivamente quanto sta avvenendo. Poi incontro un uomo che conosco soltanto di vista. Mi saluta, si sofferma, dice che mi legge direttamente sulla faccia le sventure che mi stanno capitando, ed io annuisco, me ne rendo perfettamente conto, la mia tristezza mescolata alla preoccupazione è qualcosa che risulta impossibile da nascondere. Mi offre da bere, gli va di parlare con me, così entriamo in un locale poco più avanti, mentre mi chiede quasi con indifferenza qualcosa di personale su cui naturalmente sorvolo senza dargli troppe spiegazioni.

Sembra comunque che questo tizio sia decisamente un veterano delle situazioni difficili, così dopo avermi sciorinato diverse sue esperienze piuttosto al limite, mi dice che vuole assolutamente darmi una mano, e che addirittura ritiene con esattezza proprio questo un suo preciso dovere. Allora gli dico che i miei problemi stanno tutti nella grande fiducia verso gli altri con cui ho sempre affrontato le mie cose, naturalmente accorgendomi via via che nessuno degli individui che ogni volta mi sono trovato di fronte, meritava minimamente neppure una parte del mio credito. Lui dice che sono cose che certe volte possono anche capitare, e comunque che mi comprende perfettamente, e ancora che secondo lui non c'è proprio motivo per farne un vero dramma, perché è convinto del fatto che tutte le situazioni negative all'improvviso possono cambiare direzione, e certe volte anche con estrema facilità, per provocare poi degli sviluppi di tutt'altro segno.

Così di colpo questo mio amico tira fuori che lui ha la possibilità di farmi rimettere rapidamente in carreggiata, ed inizia anche a parlarmi di certi investimenti da fare in borsa su dei titoli di cui ha seguito personalmente l'andamento per un lungo periodo di tempo, e che per questo, ed anche per altri motivi, un'operazione semplice di questo genere mi permetterebbe, con un investimento sostanzialmente modesto, di ritrovarmi in poco tempo dei dividendi tali da farmi rimettere subito in sesto. Gli chiedo qualcosa, soprattutto il motivo per cui non investe per conto proprio e si fa i soldi per sé, senza spifferare niente a nessuno, ma lui dice che in questo momento si trova ad essere troppo esposto e che deve star fermo almeno qualche tempo. Osservo il suo sguardo in silenzio; in fondo non ho proprio niente da perdere penso, ed è chiaro che in questo modo rischio soltanto di ingrossare un po' tutti i miei debiti, così sto quasi per dirgli di ritenere quasi possibile questo tentativo, quando un'ombra indefinita mentre lo scruto sembra passare sopra la sua faccia.

Mi alzo lentamente dal tavolino, lo guardo ancora con espressione immutata, quindi sottovoce dico soltanto: <<adesso devo andare>>; e senza neppure più voltarmi indietro, prendo la porta del caffè, privo di ogni ripensamento, e mi dileguo in fretta lungo i marciapiedi cittadini, come un passante qualsiasi, un individuo da solo, un uomo qualunque, senza più alcuna speranza.

 

Bruno Magnolfi