domenica 27 dicembre 2020

Qualcuno mi è vicino.

 

           

            “Non sono solo”, dico certe volte allo specchio della mia camera con voce alta, tanto per rendermi conto se lui oggi avesse voglia di rispondermi. E quello, quando lo fa, inizia sempre col parlarmi sottovoce usando delle parole a me sconosciute, costringendomi a cercare di comprendere cosa voglia intendere con quello strano dialetto per me incomprensibile. Gli ho anche chiesto più di una volta di esprimersi in altra maniera, con un linguaggio a me un po’ più chiaro, o se non altro di parlare più lentamente, scandire bene ogni parola e lasciarmi capire che cosa vogliano dire quei fonemi confusi. Ma nulla, non è mai possibile comprendere un accidenti, e la mia stessa immagine, di fronte ai miei occhi, prosegue a parlare come gli pare, ed io sto qui a guardarmi specchiato dentro alla cornice, come se prima o dopo fosse possibile iniziare una vera e propria conversazione.

            Poi, come ogni mattina, arriva una donna che abita poco lontano da qui, e si trattiene come sempre per un paio d’ore, giusto il tempo di aiutarmi nelle faccende domestiche; ma è scorbutica e scostante, ed io con lei non parlo, anzi, quando sento la sua chiave che gira nella porta, vado subito a rinchiudermi nel salottino, ad occuparmi di qualcosa, e lei mi lascia in pace, senza venire a dirmi niente se non lo stretto necessario. Non la reputo neppure una persona con la quale volentieri scambiare delle opinioni, o perlomeno non mi sembra che una donna del genere sia il tipo di compagnia di cui un uomo di una certa età, proprio come sono io, possa avere bisogno. Per cui la mia solitudine, comunque sia, resta invariata, anche se lei è presente nell’altra stanza a sistemare le cose dell’appartamento. Per questo, quando quella donna finalmente se ne va, sbattendo anche la porta alle sue spalle certe volte, torno immediatamente a tentare un dialogo con il mio specchio. E’ l’unico che può realmente darmi il senso di una presenza in casa, ed anche se ancora non ne capisco il linguaggio, ugualmente mi piace il suo modo di esprimersi.

            “Dobbiamo trovare un modo per dirci le cose”, gli fo con un atteggiamento remissivo, come quello di chi sa sopportare una situazione non esattamente favorevole. Lui so che è lì, dentro lo specchio, e probabilmente mi guarda anche quando sono di spalle, e soppesa sicuramente ogni atteggiamento che assumo, ed anche ogni mia espressione, come dovesse quasi prendere delle decisioni importanti che in qualche maniera mi riguardano. Ed io attendo, so essere paziente in casi come questo, e immagino che da un attimo all’altro possa iniziare a sproloquiare in quella sua maniera indecifrabile che in certi momenti mi fa proprio impazzire. Invece stamani niente. Non parla, non fa sentire in nessun modo la sua voce, ed anche se gli pongo delle domande dirette, lui non risponde, come non avesse neppure la facoltà di parlare. In questo modo è chiaro che io improvvisamente mi ritrovi in una condizione oltremodo difficile.

            Certo, non sono propriamente in completa solitudine, so che lui c’è come sempre dentro allo specchio, ma è come se non ci fosse, perché non dice niente, non si fa sentire, non si esprime, e se io guardo nello specchio vedo solamente la mia immagine e nient’altro. Perciò chiamo al telefono la donna che viene tutti i giorni a casa mia, e la prego di tornare un momento per risolvere una questione della massima importanza, e lei infatti si precipita, anche perché abita proprio qua vicino, ed io così le chiedo subito se per caso abbia notato qualcosa di particolare stamattina nel mio specchio che tengo appeso nel corridoio. La donna mi guarda, poi osserva a lungo lo specchio come dovesse risolvere un enigma di difficile soluzione, ed infine dice che secondo il suo parere non è cambiato niente in quello specchio, ma trova qualcosa di diverso nel mio comportamento.

Mi meraviglio, guardo le mie mani, le pantofole che indosso, guardo ancora la mia faccia riflessa nella grande specchiera appesa, e non trovo proprio niente di strano in ciò che vedo, anche se lei sorride, registra facilmente il mio imbarazzo, la mia curiosità nel riuscire a comprendere che cosa ci possa essere in me di differente rispetto ad ogni altra volta. “Si sente solo, ecco tutto”, mi dice all’improvviso. “E non le basta più fingere che ci sia qualcuno dentro allo specchio pronto a risponderle, per immaginare di essere davvero in questa casa insieme ad una vera persona”.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 23 dicembre 2020

Tempi migliori.

 

          

            Passano dei ragazzi che urlano per insoddisfazione forse, così io li osservo da una finestra di casa e mi sembra proprio di stare in mezzo a loro. Prendo la giacca, scendo le scale, mi avvio lungo il marciapiede: devo acquistare qualcosa da mangiare penso, del pane e del formaggio, niente di più, perché devo rientrare in fretta, non oltre quindici minuti, che sono quelli previsti. Mi fermo ad osservare una vetrina dalle luci spente, oltre la serranda a maglie larghe di un negozio chiuso, perciò stempro la mia angoscia tra gli sguardi, naso al vetro, su oggetti nuovi ma di uso abituale. In mezzo c’è anche una grossa pinza di plastica verde, una di quelle per tenere assieme i fogli di carta, magari qualche appunto, qualche nota da gettare là, alcuni pensieri che certe volte sembrano volersi staccare dalle preoccupazioni di ogni giorno, e vengono come fermati così da qualche parte, per un altro momento, per quando magari saremo tutti più sereni. Mi piacerebbe come gli altri trattenere anche per me qualcosa penso, poi vado però, quasi di fretta, e raggiungo casa. Il mio elaboratore naturalmente è rimasto sempre acceso, ed ha proseguito a scaricare varie cose dalla rete: messaggi, documenti, molte sciocchezze, altrettante immagini. Bussa alla porta il mio vicino, parla sottovoce, siamo controllati sottintende, chiede se per caso abbia voglia anche io di parlare un po’ con lui.

Siamo in due, possiamo prenderci un caffè ed intanto lamentarci un po’ di come vanno tutte le cose, che non si può far altro, e lui dice che ha paura, non si sente protetto come dovrebbe essere, ed io intanto sorrido con amarezza, mentre memorizzo la sua evidente depressione. Troppo fragile penso, non durerà molto se continua in questo modo, non si può subire e basta, ed il mio vicino non ha il carattere adeguato per imporsi. Ci sarà una selezione penso, in questo momento siamo chiamati tutti quanti a sforzarsi il più possibile per rimanere a galla. Mi serve quella pinza, devo appuntarmi molte cose, non riuscirò mai a tenerle a mente senza avere perlomeno una qualche traccia scritta penso. Se ne va, lo accompagno, torno al mio elaboratore, così modifico un’immagine e la proietto in faccia a chi sta ancora dietro a queste cose, poi apro un documento e resto lì, senza fare niente. Non posso prendere appunti in modo elettronico, troppo facile scoprire la mia indole, chiunque tra i curiosi sarebbe pronto a far presente alle autorità i miei modi di riflettere le cose.

Lungo la strada adesso c’è silenzio, chi sta in giro può camminare soltanto attorno all’isolato, una volta sola, e di macchine con il permesso valido per marciare sull’asfalto quasi non si sentono, tanto si muovono lentamente, quasi in punta di piedi. Sono convinto che qualcuno ha una gran voglia di fuggire, di ribellarsi a tutto, di strapparsi di dosso questa angoscia che prosegue insinuante a creare solo altro malessere. Prendo un foglio di carta da un quaderno, e scrivo in fretta quello che ho pensato: è almeno un inizio, qualcosa da rammentare in seguito, perché voglio appuntare tutti i miei pensieri di questi tempi oscuri, perciò presto avrò bisogno di tenerli tutti assieme in un cassetto, o su un piano della libreria, non so. La mia calligrafia fa schifo, ma è una fortuna, in pochi riuscirebbero a comprendere tutte le parole, soltanto io.

Mi sollevo dalla scrivania, lo schermo dell’elaboratore lampeggia per segnalare che sono arrivati ancora dei nuovi messaggi, nuove cose da scartare e cancellare penso, che ormai tutto quanto è diventato solo spazzatura, non c’è più niente di salvabile in mezzo a quei materiali colorati che girano sopra gli schermi. Mi serve la pinza, devo appuntare le cose che rifletto, almeno fino a quando riuscirò a farlo, e mi riterrò ancora libero dall’accidia e dalla depressione che viaggiano veloci ormai dentro le nostre case. Posso forse usare una molla per i panni penso, in fondo dobbiamo ingegnarci per riuscire a sopravvivere. Così torno ad alzarmi, a girare ancora dentro la stanza, e sono contento penso, riesco a prendere decisioni, ad avere una coscienza, a darmi dei progetti. Più tardi uscirò ancora forse, e guarderò meglio ciò che offre il mio quartiere: se non si può andare da altre parti, almeno cercherò di sfruttare tutto quello che mi trovo sottomano penso.

 

Bruno Magnolfi 

martedì 15 dicembre 2020

Riscatto contemporaneo.

 

         

            Sono qui da solo davanti allo schermo del mio elaboratore, e penso che dovrei assolutamente essere stipendiato per tutta la pazienza che dimostro nel sopportare una situazione così al limite come sembra ormai sia diventata questa. Sono i soldi che proprio non ci sono tutto il mio problema, ma non trovo la maniera per farmene scucire almeno un po’ da quei chiacchieroni che ingombrano ad ogni ora i programmi politici della televisione. Mi sono collegato, ho fatto tutte le domande che mi sono state presentate, ho riempito con i miei dati ogni modulo elettronico che mi è stato sottoposto, e poi invece niente, qualcosa alla fine dei sistemi dice sempre che non ho diritto ad avere né un sussidio, né un mantenimento, né una paga, e neppure un gesto qualsiasi di carità, lanciato verso un cittadino come tutti gli altri, uno proprio come mi sento io, né più né meno, forse soltanto più sfortunato di tutti. Mi pare quasi impossibile che vicino a me, da persone più smaliziate di quanto posso essere io, vengano manipolate e spartite montagne intere di quattrini alla velocità della luce, e che ci siano qui accanto anche degli individui che si permettono, con grande semplicità, qualsiasi cosa gli possa venire alla mente, in ogni attimo qualsiasi della loro giornata, mentre io che ho sempre fatto il mio dovere verso lo Stato, senza dare mai problemi proprio a nessuno, non abbia nemmeno la possibilità di un mensile, tanto per tirare avanti.

            Certo, è indiscutibile affermare che c’è la pensione dei miei genitori che riesce a coprire tutte le spese relative alla casa dove noi abitiamo, e che sopperisce anche alla mia situazione cronica di disoccupato, però io che ormai ho già passato i quarant’anni d’età, adesso non sono proprio capace di immaginare come potrà mai essere il mio futuro, una volta che i miei punti d’appoggio venissero a mancare. Mi pare impossibile continuare così, come altri fanno peraltro, nell’adattarsi a percorrere una stessa strada senza riuscire ad osservarne un semplice dettaglio evidente, una particolarità, uno scorcio che è lì, davanti agli occhi di chiunque, mentre loro invece camminano e non lo notano, e non si rendono neppure conto della sua presenza, come non esistesse, non ci fosse mai stato. Voglio capire cosa sia meglio fare, voglio intraprendere una via che mi porti finalmente da qualche parte, senza farmi perdere la testa. Perciò uso l'elaboratore, e mi collego ad ogni ora in ogni sito che trovo, capace di fornirmi qualche informazione, passando per delle pagine elettroniche che spiegano in dettaglio in che modo sia meglio comportarsi per una persona come sono io.

Mio padre oramai è una persona anziana, non la comprende per niente la mia maniera di comportamento, diciamo che si limita soltanto a sopportarla, e certe rare volte dice a voce alta senza riferirsi direttamente a me, che sto perdendo solamente il mio tempo in questo modo, anche se poi tutti e tre insieme ci mettiamo a sedere al tavolo di cucina e consumiamo i nostri pasti in silenzio, senza scambiare mai troppi discorsi, forse anche per non rovinarci troppo l’appetito. Mia madre invece ogni tanto mi guarda per un attimo e poi si limita a scuotere leggermente la sua testa mentre chissà che cosa pensa, e a me forse fa più male quel gesto lì che tutto il resto dei suoi comportamenti, tanto che la ignoro, faccio finta di nulla, mi disinteresso completamente dei suoi giudizi. Non sono disperato, mi pare quasi inevitabile ritrovarmi in questa situazione; chiedo soltanto che qualcuno si metta una mano sopra la coscienza e scovi la maniera per farmi avere un vitalizio, un reddito qualsiasi che mi permetta di sopravvivere, esattamente come tutti. Perché sono sicuro che io ne abbia diritto, e che ci debba essere anche per me una piccolissima fetta della torta che tutti si spartiscono. Sono un cittadino, uno che è nato in questa terra, uno che può vantare delle origini assolutamente oneste, frutto di brave persone che hanno masticato per generazioni lavoro duro e sofferenza, e senza mai neppure lamentarsi. Perciò adesso resto qui, dietro a questo elaboratore sempre acceso, perché è soltanto da qui, come è stato spiegato già da altri prima e meglio di come posso fare io, che può uscire fuori, per me e per coloro che vivono una situazione simile alla mia, quel riscatto che sento doveroso verso me e verso la mia persona.

 

Bruno Magnolfi   

martedì 8 dicembre 2020

Tutto a posto, o quasi.

 

 

            Sento male ad una gamba. Se provo a camminare la strascico, faccio buffe smorfie di sofferenza e poi provo un dolore tale che alla fine zoppico anche se non vorrei. Mi siedo, non posso fare altro. Appoggio a terra il piede soltanto sul tallone e stendo l'arto in maniera da dargli un po' di sollievo, poi rifletto che potrei prendere un antidolorifico e smetterla di preoccuparmi troppo. Può essere un tendine, un muscolo, una sciocchezza momentanea che tra non molto la finirà con il suo fastidio, e mi farà ritrovare la pace che merito. Mi muovo, ingoio una pillola e poi vado a sdraiarmi sul mio letto. Sto meglio in questa posizione, sento un leggero caldo alla gamba dolorante, ed adesso che sta a riposo tutto quanto mi sembra soltanto poco più di un fastidio. Potrei quasi addormentarmi, magari immaginando di migliorare ancora, e così ritrovarmi in sogno a correre ed a muovermi su un prato in pieno sole. Invece mi giro su un fianco ed il dolore è ancora lì, esattamente come prima, senza alcuna tregua.

            Va bene, penso, si tratta soltanto di fare tutto quello che avevo già deciso con la più forte indifferenza verso questo contrattempo. Mi alzo, vago per casa cercando quello che mi serve, storco la faccia in nuove espressioni di dolore, e poi, indossata la giacca e prese le chiavi per uscire, mi rendo conto all’improvviso che forse non sarò capace di scendere tutti e tre i piani delle scale condominiali. Chiudo la porta alle mie spalle ed inizio comunque a muovermi, un gradino dopo l’altro, sperando di non cadere e non incontrare nessuno che conosco, soprattutto per non dover giustificare le mie smorfie ed il mio comportamento, abbracciato come sto a questo corrimano. Infine arrivo giù e sono sulla strada, trafficata e indifferente a tutti i miei guai.

            Devo arrivare fino all’officina dove dovrebbe essere ormai pronta la mia auto, in riparazione da ieri per alcuni problemi alla carburazione. Mi pareva vicino il posto dove lavora il meccanico, giusto in una traversa di questa strada principale, ma adesso che il dolore non mi concede più alcuna tregua sembra tutto lontanissimo, ed i passi da coprire un numero addirittura sterminato. Una volta a bordo della macchina sono sicuro di poter guidare agevolmente e di non avere più problemi con gli spostamenti, ma arrivare fino là è un’incombenza che forse avevo del tutto sottovalutato. Mi fermo al caffè più vicino per sedermi un attimo, ormai tirando dietro la mia gamba come un fardello fastidioso, però mi sforzo di camminare il più possibile in maniera naturale per evitare di farmi porre delle domande curiose da qualcuno a cui non ho alcuna intenzione di rispondere. Entro e mi siedo, nessuno mi ha notato, neppure il barista dietro al bancone. Aspetto un attimo ed infine dico qualcosa con voce sufficientemente alta da farmi sentire.

Il ragazzo poi mi porta un caffè al tavolo, io mi sento la fronte imperlata di sudore per lo sforzo che ho compiuto per arrivare fino lì, e all’improvviso mi viene a mente che una volta percorsa tutta la strada fino all’officina, la mia auto potrebbe essere non ancora pronta. E’ chiaro che non ce la potrei fare a tornare indietro a piedi fino a casa, per cui dovrei escogitare qualcosa per farmi trasbordare: magari chiamare un’auto pubblica, oppure farmi dare un passaggio dal meccanico. All’improvviso mi gira la testa. Sorseggio il caffè, ma ho quasi paura che la tazzina possa sfuggirmi dalle mani, o che io stesso di colpo possa cadere dalla sedia. Infine mi alzo, ma è evidente che non riesco neppure a stare in piedi. Lascio dei soldi sul tavolo ed esco, quasi di fretta, prima che qualcuno possa avere un moto di pena che non riterrei assolutamente sopportabile. Decido di tornare verso casa, non ce la posso fare ad arrivare fino all’officina, così attraverso la strada lentamente sul passaggio pedonale, ma in quel preciso momento ecco il meccanico con la mia auto che si ferma accanto a me, spiegandomi che stava provando il motore lungo le strade del quartiere dopo la riparazione. Salgo immediatamente al posto di guida che lui mi lascia, ed improvvisamente mi sento bene, tranquillo, così riaccompagno il mio salvatore alla sua officina e poi me ne vado per i fatti miei. Anche il dolore adesso sembra quasi scomparso, ed alla fine tutte le cose adesso sembrano proprio filare per il verso giusto.

 

Bruno Magnolfi

venerdì 4 dicembre 2020

Silenzio impagabile.

          

 

            Qualche volta penso che finirà; sì, insomma, che si interromperà prima o dopo questo mio flusso di ottimismo, di convincimento positivo, di credulità continua verso qualsiasi espressione che usano gli altri nei miei confronti; insomma smetterò con questo ferreo ritenere che tutti siano sempre così sinceri con me, così schietti nelle loro espressioni, e che parlino soltanto di cose reali, di fatti realmente accaduti, di espressioni usate per davvero, e non cerchino mai insomma di imbrogliarmi, come invece fanno quasi sempre; e loro così, almeno nei miei pensieri, termineranno una buona volta con quelle parole che continuano a dirmi, a suggerirmi, ed a soffiarmi nelle orecchie con le loro buone ragioni che sostengono di avere per farlo, come se quello che mi spifferano fosse il fondamento di tutta l'esistenza, e le loro frasi fatte, il loro argomentare attorno a questo o a quel problema, quasi i capitelli e le colonne portanti su cui si tiene in piedi la maggioranza delle cose che ci circondano. Tutti quei fatti e quegli aneddoti di cui un gran numero di queste persone ha fortemente voluto che venissi a conoscenza, raccontandomelo sempre con un certo impegno, in mezzo a tutto il tempo buttato via in questa maniera; tutto ciò che così tanti individui hanno insistito a spiegarmi più di una volta, dilungandosi in certi casi anche nei dettagli, e con i quali mi hanno riempito spesso la testa, fino a farmela scoppiare in qualche occasione; ecco, io so quasi per certo che tutto questo avrà un termine una buona volta, lo so proprio per certo.

            Mi chiedo comunque quale sia il motivo per cui in tanti anni non sono mai stati in silenzio con me, non hanno mai lasciato che io, come qualcuno forse più fortunato tra tutti gli altri, godessi dei rumori sottili della sera ad esempio, mentre magari si stava come si fa sempre fuori dalla caffetteria, a fumare tranquilli ed a prendere il fresco della primavera senza alcuna preoccupazione, pronti ad osservare la luna che nasceva sopra ai tetti delle case basse del nostro paese, al margine di questo fiumiciattolo che scorre silenzioso. Io mi sforzo di guardare da quella parte qualche volta, e loro intanto parlano, devono spiegarmi, gli corre l’obbligo per forza di farmi sapere qualcosa di importante, qualcosa che, se non si sa, non si può stare. Sorrido ancora adesso mentre ascolto, lascio che mi dicano una volta di più quello che vogliono, non sarò certo io quello che si tapperà le orecchie o che sosterrà che sono tutte stupidaggini quelle di cui mi stanno parlando. Li ascolto, di qualche cosa magari mi convinco, perché non sono tutte cose sciocche quelle che mi spiegano, e in qualche caso ci sono anche dei fatti che si devono sapere, di cui è meglio venire a conoscenza. Ma poi dimentico alla svelta ogni parola, ogni frase che mi è stata rivelata, oppure ricordo soltanto qualcosa che adesso però mi pare inverosimile, falso, messo su soltanto per ridere di me. 

Tante volte ho pensato di essere l'unico ad avere una certa fiducia in tutte quelle chiacchiere confuse, in quello svelare chissà cosa e per giunta solo a me, e forse loro che generano quei pronunciamenti hanno sempre fatto leva proprio su questo mio comportamento positivo, approfittandosene, tediandomi spesso, assillandomi forse per coprire con la voce le loro preoccupazioni e i loro crucci. Probabilmente sono uno che si lascia abbindolare troppo e un po’ troppo alla svelta, che crede spesso a tutto quello che gli viene detto già alla prima, però la colpa è soltanto la loro se hanno voluto in questa maniera farmi credere delle cose che non erano neppure dettate dalla verità, ma messe insieme soltanto per il gusto di giocare con uno come me, proprio uno con dei problemi di comunicazione. Se ne sono approfittati, questo è il punto, ed adesso loro lo sanno che io alla fine sono arrivato fino a rendermene conto, ed allora stanno più attenti da ora in avanti a quello che mi dicono, e sono già decisamente più restii a svelarmi dei particolari che poi si dimostrano inventati. Vorrei avere avuto una memoria di ferro in tutto questo tempo, e ricordarmi perfettamente ogni particolare da far presente adesso, anche pubblicamente. Qualcuno sicuramente si sarebbe vergognato del proprio comportamento. Ma io purtroppo ho cancellato tutto dalla mia memoria, e quindi possono aver detto quello che volevano, perché adesso non ricordo niente, proprio come se fossero sempre stati tutti in silenzio.  

 

Bruno Magnolfi

         

         

domenica 29 novembre 2020

Comportamento anomalo.

 

       

 

            Mi nascondo. Certe volte capita che qualcuno mi parli di un argomento che conosco bene, di qualcosa che forse ho già visto oppure che ho proprio vissuto, magari di un’esperienza che già da tempo sta dentro la mia memoria, per uno solo oppure per chissà quanti altri motivi, qualcosa che rammento benissimo e che però mi torna alla mente soltanto in quel preciso momento, e che ritrovo comunque con facilità tra tutte le cose che ho già dentro la testa, anche se rimango ad ascoltare e basta, senza dare neppure una briciola del mio parere, perché fingo ogni volta di non saperne niente, di non averne mai neppure sentito parlare. Mi chiedo perché mai dovrei spiegare ad altri qualcosa di me, del mio passato, del motivo per cui conosco tutti quei fatti o quei ragionamenti, e poi spendere obbligatoriamente un sacco di parole, muovere le mani, variare anche l’espressione della faccia e della bocca, spiegare i dati che a me risultano, le mie convinzioni, ed alla fine soltanto per dare la dimostrazione di qualcosa che comunque stava già dentro me stesso, e in un caso o nell’altro vi rimane adesso e vi rimarrà chissà per quanto tempo ancora, assieme a tutti gli altri innumerevoli elementi che sono sicuro compongono ogni individuo come me nella sua personalità e nel suo carattere, come tutte le esperienze capaci di produrre i loro effetti anche soltanto all’interno delle menti di ciascuno, e sicuramente persino nelle riflessioni che bene o male riesco a fare io in ogni ora del giorno attorno a tutta questa attualità, attorno a tutto ciò che siamo noi, e naturalmente anche riguardanti quello che sono io oggi, nel bene e nel male, in ogni caso. Tengo nascosti i miei pensieri, credo sia meglio per me e per tutti. Poi non ha senso confrontare delle sfaccettature che a volte possono anche collimare con le altre, ma in altri casi no; ed allora ecco che queste mi chiamano a dover fornire chiarimenti, spiegazioni, e così sentirmi interpellato subito per discutere, per interloquire, dare dimostrazione, quasi come fosse una gara, un tentativo di convincere qualcun altro attraverso la superiorità delle mie proprie ragioni. Non ci casco: ascolto e basta.

            Qualcuno dice che sono un tipo silenzioso, un solitario, ma questo è vero solamente in parte: io parlo, discuto, urlo, certe volte, e continuamente offro le mie disquisizioni all’autocritica che applico ad ogni mio ragionamento. Parlo da solo, questo è il punto, ma non per confortarmi o per trovare l’acquiescenza più utile con cui affrontare la quotidianità, bensì per far passare ogni argomento sotto al setaccio intransigente della disamina, dell’analisi, della critica più severa, tramite la quale riconoscere difetti e magagne, errori e spropositi, refusi e scorrettezze. Tento anche di usare, sempre e solo con me stesso, un linguaggio chiaro, esauriente, grammaticalmente corretto, mentre proseguo con concentrazione a parlare a voce alta ma come se leggessi un testo, come avessi davanti un intervento scritto, e contemporaneamente così cerco le parti che non vanno, quelle che danno dimostrazione chiara di un pensiero debole, poco convinto, qualche volta del tutto inesatto. Ed in questo modo produco continuamente dei nuovi pensieri, dei differenti punti di vista, degli altri ragionamenti che mi fanno sentire vivo, presente, capace di argomenti che con ogni probabilità a molti sfuggono, perché poco correnti nei discorsi che si fanno per strada o dentro ai caffè.

Qualcuno mi evita, forse si è accorto che quando cammino sopra ai marciapiedi per i fatti miei scuoto la testa, muovo le mani, parlo con me stesso come se fossi una persona doppia, ma non mi interessa niente: sono fatto in questo modo, e credo che il mio modo di essere sia proprio un punto di arrivo piuttosto che un atteggiamento di cui sorridere o provare addirittura dell’indulgenza. Per questo cerco di evitare luoghi pubblici, tanto da far dire agli altri che sono un tipo ormai abituato a nascondersi da tutti. In parte è vero, inutile fingere che sia diverso: però non so neppure io che cosa abbia da perdere nel tenere esattamente questo personale comportamento.

           

            Bruno Magnolfi

lunedì 23 novembre 2020

Chiaro proposito.

 

 

"Vorrei solo che tutto fosse già finito", dico piano agli altri con un’espressione di serietà, ma solamente tanto per dire, mentre resto in piedi con loro accanto alla vetrata del caffè all’interno del quale quasi ogni giorno lascio volentieri scorrere almeno una parte del mio tempo. Fuori fervono i lavori per la risistemazione della piazza, e gli operai vanno avanti e indietro a livellare la terra e a posare i manufatti seguendo le misure giuste che da poco ha indicato loro il geometra dell’impresa, lasciando qua e là dei piccoli elementi indicativi e dei segnali color arancione. Ogni tanto giunge un autocarro con la terra o con il misto cementato da scaricare in loco, e quasi sempre alza un odioso polverone che va a depositarsi sulle foglie dei pochi alberi di magnolia che ci sono in giro, sulle panchine deserte rimaste al margine dei lavori, e in ogni angolo stradale e dei marciapiedi rimasti. Noi stiamo tutti con le mani sprofondate nelle tasche dentro al locale, scuotiamo la testa ogni tanto e decidiamo invariabilmente quello che sarebbe meglio secondo il nostro parere, anche se tutte le nostre opinioni rimangono tra le mura del caffè. 

Si tratta di capire quale sia il progetto principale a cui tutte le maestranze si stanno allineando, e come infine dovrà essere, in base a quello, il risultato finale di ristrutturazione della piazza. “Scommetterei che diventerà addirittura peggiore di quella bella piazza che conoscevamo da sempre”, dico ancora tanto per smuovere i pareri dei presenti ed infiammare gli animi, e qualcuno tra quelli che giocano al biliardo dietro di me scuote la testa tanto per dire che anche secondo lui non c’è proprio da attendersi niente di buono. In fondo quale argomento migliore di questo si potrebbe trovare in una cittadina dove non succede quasi mai un bel niente: sembra quasi ci sia il sindaco in persona a cementare i cordonati e a posare le lastre; si tratta soltanto di prendersela bonariamente con qualcuno, come è normale che sia, ed in qualsiasi caso il risultato finale non sarà mai di nostro gusto, e se anche lo fosse si potrebbe subito dire anche in quel caso che sicuramente sono stati spesi troppi soldi pubblici per una conclusione di quel genere.

Poi arriva d’un tratto un gruppetto di persone a visionare quei lavori, e mentre stiamo cercando di stabilire chi siano esattamente visto che ci rimangono di spalle, quelli senza grandi indugi entrano proprio nel nostro modesto caffè, mostrando all’improvviso la faccia del sindaco, dell’assessore ai lavori pubblici, del comandante dei vigili urbani e dell’impresario che porta avanti tutte le opere della piazza. Ammutoliamo tutti quanti di fronte a queste spettabili presenze, ed anche se a me verrebbe subito la voglia di chiedere qualcosa tanto per mettermi in mostra e far vedere a tutti che non sono certo un cittadino passivo, di fatto anche se ci penso con impegno non mi viene la domanda giusta da porre a qualcuno di questi signori, e così mi limito, come tutti gli altri, a farmi da parte e ad ascoltare quello che tali autorità dicono tra loro.   

E mentre siamo lì a fare contorno nel piccolo locale dove gli ultimi arrivati si prendono un caffè rigorosamente in piedi presso il bancone, il sindaco in persona si gira verso di me con espressione seria per chiedermi cosa io pensi dei lavori così come vengono portati avanti. “E’ tutto molto bello”, dico subito leggermente intimorito, mentre l’assessore e gli altri si voltano anche loro d’improvviso verso me. “Forse ci starebbe bene qualche albero in più”, azzardo senza neanche saper bene cosa dire. “Bravo”, fa subito il sindaco, “difatti appena saranno pronte le aiuole che stiamo realizzando, arriveranno i vivaisti a mettere a dimora degli alberelli che fra un anno o due saranno subito delle piante adulte e rigogliose”. Faccio un cenno affermativo con la testa, annuisco, mentre dal locale adesso escono tutti, e subito penso che anche io in questo momento posso proprio andarmene, visto che oramai è stato già tutto chiarito.

 

Bruno Magnolfi

venerdì 20 novembre 2020

Messaggio cifrato.

 

 

            ”Potrei smettere di fumare”, dico tanto per ridere al giovane detenuto che mi sta di fronte. Lui mi guarda, ma si capisce che non ha mai avuto il senso dell’umorismo, così non ci si può aspettare che apprezzi in un momento del genere come fosse uno scherzo questa ironia sul mio impegno a mantenere la parola data. Sorrido solo io allora, perché se ho di fronte ancora dieci anni da passare qua dentro, e lui tra un paio di mesi invece sarà fuori, potrebbe essere utile per me già da adesso la sua vicinanza, proprio per dare una mano anche a me ad uscire da qui, naturalmente in una maniera del tutto diversa da come se ne andrà lui, questo è del tutto evidente, ma proprio in considerazione di questa speranza non posso fare a meno di continuare a cercare di tenerlo il più possibile dalla mia parte. Seguiamo al pomeriggio un corso di informatica, insieme ad altri come noi, ma lo facciamo tanto per tenere impegnata la testa, ed anche perché è l’unica maniera per dimostrare a chi ci controlla che ci stiamo dando da fare per tenersi aggiornati, coltivare un futuro, cambiare la strada che ci ha trascinati qua dentro. Lui dice che si è affezionato a me, e forse anche a quello che rappresento, e non mi lascerà ancora marcire tra le sbarre per molto, perché ha nella testa un suo piano, qualcosa che aveva escogitato proprio per se stesso, se soltanto il processo a suo carico fosse andato peggio di quello che è stato. Si è beccato in tutto poco più di un anno, ma per un semplice colpo di fortuna, anche se ha rischiato di farsi dare vent’anni dal giudice.

            Dieci anni sono tantissimi, non riuscirei a resistere se non avessi almeno una possibilità di via d’uscita da questa situazione, e lui questo lo ha capito benissimo, ma mi tiene sulla corda senza spiegarmi quali siano i dettagli di quel suo piano di fuga. “Sei una carogna”, gli fo sottovoce, tanto per vedere che faccia può fare, e lui dice che uno di questi giorni mi spiegherà tutto, che devo soltanto avere pazienza. Può darsi che quanto è riuscito a mettere a punto sia soltanto una spudorata stupidaggine e basta, ma io nonostante tutto gli voglio credere, anche perché avere fiducia in qualcuno non costa niente, e ti fa stare subito meglio, più rilassato, quasi sereno. Lui dice che la cosa importante è saper coltivare le persone giuste, e farsi aiutare per inconsapevolezza da quelli più adatti. Non capisco quasi per niente cosa lui voglia dire con questi discorsi, però faccio un cenno affermativo con la testa: ho capito, vorrei dire con un certo ottimismo, magari però potresti indicarmi chi sono queste persone, a cosa servono, rifletto tra me.

Lui invece per il momento non aggiunge neppure un’altra parola, lascia le cose in sospeso, forse perché sa che qua dentro non ci si può mai fidare di niente e di nessuno, e così guarda sempre da un'altra parte quando lo osservi, come fosse già fuori da qui, e non avesse più i problemi che ho io e tutti gli altri. Non ci si può annotare un bel nulla tra queste mura, neppure un numero o un nome, neanche sotto la suola delle scarpe o in un angolo segreto, e se qualcuno per provocazione dice a voce alta anche soltanto una tra le tue parole chiave, si deve sempre restare completamente indifferenti, come non ci riguardassero per niente le cose che vengono sparate d'improvviso per vedere l’effetto che fanno durante l’ora d’aria. Mi spiegherà tutto al momento opportuno, mi ha lasciato immaginare in questi ultimi giorni, ed io ho speranza in quello che dice, lui è un tipo tosto, non mi tirerebbe mai una fregatura in questa maniera.

Lo guardo mentre digita qualcosa con la tastiera durante la nostra ora di lezione, e mi pare per un attimo che tutto improvvisamente sia superato, le cose appianate, le nostre vite restituite. Lui si ferma, aspetta un momento, infine mi guarda dritto negli occhi, come si fa con chi deve venire a conoscenza di qualcosa che è estremamente importante: “sei tu che devi disporre del tuo futuro”, mi dice. “Non importa dove ti trovi, è la tua mente che può permetterti di essere libero”. Poi scrive qualcosa che appare solo per un attimo sopra lo schermo, ma io  purtroppo non riesco a leggere bene, forse non sono capace di decifrare quei segni, magari non sono in grado nemmeno in questo momento di comprendere quel messaggio cifrato. Infine lui spegne il suo elaboratore.

 

Bruno Magnolfi

 

sabato 14 novembre 2020

Specchio dipinto.

 

                    

            Osservo ancora per un attimo sopra al cavalletto questo mio sofferto autoritratto, e mi sembra, proprio adesso che oramai appare praticamente terminato, non sia affatto capace di esprimere le caratteristiche che fin dall’inizio avrei voluto dare al dipinto mentre cercavo di realizzarlo. Ci sono delle carenze, delle lacune, degli errori di fondo, che ora noto con grande evidenza: la mia espressione sulla tela ad esempio non riesce a trasmettere quasi nulla del tormento che spesso provo nell’incapacità di somigliare ad un qualsiasi normale individuo, ad uno come tutti, una persona qualunque, calata nella realtà che ci sta attorno. E poi non sono stato capace di creare uno sfondo alla figura minimamente realistico ed equilibrato con la mia espressione, qualcosa che desse maggiore credibilità all’insieme, senza contrasti, con estrema linearità; ed infine i colori, troppo tenui, troppo delicati per essere all’altezza della fotografia di un’esistenza. Cosa importa, rifletto meglio, probabilmente verrà apprezzato anche in questo modo; anzi, probabilmente ci saranno persino degli estimatori che troveranno nell’insieme qualcosa di notevole di cui nemmeno io mi sono accorto.

            E poi che cosa significa anche solo trasmettere qualcosa che si sente, se non lasciare che sia il dipinto stesso a prendere la mano al pennello e dare da solo il proprio punto di vista alle cose, senza filtri personali, senza grandi interpretazioni psicologiche. Il fatto è che se anche mi osservo a lungo in uno specchio, non vedo affatto ciò che gli altri guardano di me quando mi incontrano. Sono sicuro di questo, perché rimane una differenza essenziale nelle cose: c’è una pellicola fuori dalla mia persona che non permette la perfetta osservazione di ogni mia espressione. Io so cosa ci può stare sotto la scorza, ma è difficile se non impossibile comunicarlo. Quindi è persino inutile il tentativo di infondere sopra la tela qualcosa che comunque sfuggirà sempre a chiunque, da qualsiasi angolazione voglia guardare in seguito il mio quadro ormai finito. Non c’è senso in tutto questo, non ci sarà mai alcuna prosecuzione.

            Poi prendo la giacca, esco dallo studio, ho bisogno d’aria, forse di riflettere, oppure di incontrarmi con qualcuno che mi mostri il proprio punto di osservazione, il proprio angolo visuale, la sua maniera di essere persona, proprio quella che io non riesco adesso a ricalcare. Già, perché alla fine sono soltanto io ad essere carente di qualcosa, ad aver alimentato per un tempo infinito l’incapacità ormai congenita di stare al passo del momento, di questa concretezza che modifica il nostro passo ad ogni attimo, e ci fa sentire subito diversi appena cerchiamo di ignorarne anche i dettami meno importanti. Ci sono delle persone per strada che mi riconoscono, sanno bene chi io sia, perché frequentano il quartiere, il caffè dove mi reco, le mostre che vado a visitare qualche volta. Non mi interessano però i loro elogi, l’inchinarsi alla fama, all’artista, a colui che è capace nella loro fantasia di tradurre in segno dei semplici pensieri o degli istinti. Li lascio alle spalle, non per superbia, quanto perché non mi può aiutare in questo attimo lo sguardo edulcorato, l’espressione ampollosa, il gesto falso di un ammiratore incapace di articolare il verbo critico o la parola discorde. Perciò potrei ubriacarmi insieme ad altri dentro una bettola, cantando a squarciagola e ridendo senza limiti; potrei camminare in completa solitudine fino a farmi sanguinare i piedi; potrei immedesimarmi nell’artefice di uno spettacolo di strada, osservando i dettagli dei suoi comportamenti. Ma non riuscirei a risolvere il mio vero problema.

Torno allo studio, non mi rimane nessun’altra possibilità, perché è lì che sta ancora la mia mente, è sulla tela ancora fresca che si sono adagiate ormai le mie fattezze, ed il mio sguardo, la mia espressione, tutto: solo là sopra posso trovare finalmente ciò che cerco.

 

            Bruno Magnolfi

            

 

         

venerdì 13 novembre 2020

Non rompetemi l'anima.


 

"Sono uno scemo, lo so", dico a Tommi giù al circolino dove mi fermo qualche sera per farmi una birra. Lui mi sta servendo da dietro al bancone in un momento in cui non ci sono clienti, ed io gli spiego la storia. "Non rimango simpatico a nessuno sul lavoro. Ma questo solo perché me ne sto per i fatti miei, perché non mi piace stare con gli altri a ridere e farsi scherzi da deficienti. Così prendono la mia ampolla per il grasso (tutti ne abbiamo una per lubrificare gli utensili, e ci incidiamo sotto le proprie iniziali per non scambiarle), e con quella sporcano i calzoni di ricambio del tizio più grosso e aggressivo tra noi, facendogli trovare la mia ampolla sotto al suo armadietto che sta dentro gli spogliatoi. Il resto lo puoi immaginare, ed oggi naturalmente quello mi ha sfidato (“se sei un uomo”, mi ha detto) nel raggiungerlo domani all’officina in fondo per fine turno. Così domani devo farmi pestare per bene da un collega con cui non ho avuto proprio niente da spartire”.

“Va bene”, fa Tommi. “Però tu puoi fargli paura. Posso prestarti la mia scacciacani. E’ innocua, però lui non lo sa, e tu fai subito la figura di uno che non si fa certo mettere i piedi sopra la testa”. Ci penso un momento, butto giù un sorso di birra, poi dico: “perché no” tra di me, ma con voce piuttosto alta. Il mio amico sparisce sul retro dopo un attimo, e quando riappare ha una semplice busta con dentro l’arma giocattolo che osservo un momento senza neanche estrarla del tutto. Gli strizzo un occhio, pago la birra e poi me ne vado. Giù al lavoro intanto i ragazzi ridono senza guardarmi quando mi incontrano lungo il piazzale o nei capannoni, ma a me non interessa un bel niente e continuo a comportarmi come ho fatto da sempre. Qualcuno sarà subito contento quando l’orango mi avrà sbattuto per terra, però non ho proprio voglia di farmi fregare in questa maniera, penso cercando di caricarmi al massimo possibile.

Alla fine vado nello spogliatoio, mi sistemo per quello che posso fare, e poi lascio scivolare nella mia tasca il ferro di Tommi, riflettendo bene sul momento più adatto per spianarla alla faccia di tutti e fare in questo modo più impressione possibile. Nessuno dei ragazzi si immagina da uno come me una cosa del genere, ma in fondo non mi conoscono molto, e quindi posso farmi passare semplicemente per un tizio che non vuole rompimenti, ed in caso contrario è disposto anche a ripulire la strada prima di transitarla, perciò questa per tutti potrebbe essere, a mio modo di vedere, l’ultima volta che salta in mente a qualcuno di farmi uno scherzo del genere. In fondo mi sento tranquillo, se qualcuno si accorgesse che la mia arma comunque è soltanto una finzione, in ogni caso farei la bella figura di uno che si è impegnato a non far del male a nessun altro. Perciò, mani in tasca, sguardo alto e ben attento, camminata regolare, mi avvio verso l’officina come se nulla fosse, disposto ad aspettare almeno qualche momento prima di tirar fuori le mie carte.

Quando arrivo sembra ci siano già tutti, fermi e disposti a circolo, ed il toro infuriato che mi vorrebbe gonfiare sta in un angolo, voltando le spalle all’entrata, in senso di sprezzo e di sfida. A passi sempre più lenti raggiungo il centro dell’officina, le mani ancora sprofondate dentro le tasche, ed osservo l’orango come fosse il mio nemico di sempre, ma senza dare alla faccenda una grossa importanza; lui si volta, sorride, si avvicina, forse si aspetta che io inizi a parlare di qualcosa nel tentativo di ammansirlo o di venire a ragionevoli consigli, ma invece resto in silenzio, ed aspetto sia lui a dire la prima parola. “Sei un idiota”, fa subito tanto per provocare, ed io ancora in silenzio. “Ho voglia di spaccarti il naso”, ed intanto si avvicina. Quando ormai siamo a tre o quattro metri l’uno dall’altro tiro fuori con calma il mio ferro e gli fo luccicare negli occhi la canna dell’arma, trattenendo un’espressione calma e determinata. Lui resta di ghiaccio, scorre rapidamente quali possibilità gli possano rimanere, ma non ne trova. Allora, non volendo fare la figura del pauroso, fa ancora un passo verso di me, come a sentenziare che non avrò mai il coraggio di sparargli. Io tiro su la pistola e tiro un colpo in aria, rendendomi conto, dalla polvere che cade dal soffitto, che quella che ho in mano non è esattamente un giocattolo, e che per questo sto cambiando espressione. Tutti si dileguano in un attimo, ed anche l’orango se ne va quasi di corsa. “Vittoria”, dico a Tommi più tardi; “non sono uno scemo: da ora in avanti nessuno avrà più la voglia di rompermi l’anima”.

 

Bruno Magnolfi   

 


giovedì 5 novembre 2020

Faccia senza maschera.

 

        

 

            Mi nascondo, come sempre ho fatto in questi ultimi tempi, perché non voglio che qualcuno guardi ancora con disprezzo la mia faccia. Osservo le altre persone da una feritoia, studio il modo di fare che qualcuno tiene quando sta semplicemente camminando, o mentre parla alle persone che conosce, o nel momento in cui sta riflettendo su qualcosa magari di importante. Poi rientro nel buio di questa chiesetta sconsacrata, incastonata tra stradine antiche, con il suo portone scuro che ha ceduto facilmente quando l’ho forzato, e poi mi ha accolto da subito come fosse la mia vera casa, lasciandomi la possibilità dal buio di guardare la realtà nel chiaro della luce, attraverso queste profonde crepe e tutte le spaccature prodotte dal tempo nell’incidere ogni giorno il legno vecchio e già tutto rovinato, scrutando una realtà che persiste incessante a scorrere là fuori, dove ogni individuo continua a procedere in avanti nella ricerca estenuante di un suo piccolo equilibrio, di una metrica migliore per misurare il tempo, di una maniera per immedesimarsi nel presente che gli procuri più coraggio, e che alla fine sia soltanto sua.

            C’è una ferita sul mio viso, un taglio profondo che mi è stato regalato da un coltello ormai tanti anni fa, quando ero giovane e cercavo chissà cosa in mezzo a tutti, senza mai abbassare lo sguardo quando c’era da dire qualche parola forte. Poi si cambia, ma restano i segni dentro e fuori. Un avanzo di galera, si direbbe, con un passato burrascoso sempre al limite. Cosa importa, penso; tutto ciò che possediamo è adesso, qui, tanto vicino da toccarlo, il resto non ha proprio alcun valore. Nessuno mi ha più dato la possibilità di lavorare, se non in quell’oscuro mondo della piccola criminalità, che ha sempre cercato di risucchiarmi fin da subito, senza concedermi mai l’occasione di rimanerne fuori. Adesso mi sento soltanto vecchio e pure stanco: non voglio più far parte delle notizie buone per un trafiletto sul giornale di quartiere: ho chiuso, mi ritiro qua dentro, nessuno verrà mai a cercarmi tra queste panche polverose ed il tetto già mezzo cadente.

            Penso: non c’è più tempo per far altro; i grandi progetti giovanili, la voglia di costruire un personaggio attorno a me, di farmi valere in qualche campo, di raggiungere almeno una normalità da spendere come tutti gli altri; tutto svanito, un segno indelebile sopra la faccia che parla da solo al posto mio, e poi via, nessuna diversa possibilità per essere un po’ come sono tanti, forse semplici, ordinari, qualsiasi, però concreti, capaci di costruire qualcosa che possa chiamarsi una famiglia, un futuro, una sicura positività. Osservo la strada attraverso le crepe del legno sul portone: potrei provare perfino invidia per coloro che spandono tranquillità mentre passano qua attorno; ma non è questo che mi interessa veramente. Mi basta che tutti si dimentichino di me e della mia espressione deturpata. Non ho più neppure un vero sentimento d’odio nei confronti di colui che ha ridotto il mio viso in questo modo; in fondo quando si frequenta un brutto ambiente, il minimo che possa accadere è che si resti segnati da qualche bravata casuale. No, non è stata una persona a fare il danno: è stato un periodo, un ambiente, uno sbagliare strada da parte mia, qualcosa che mi ha segnato nel profondo, fino a portarmi adesso a cercare un chiuso che non permetta più a nessuno di chiedermi ancora cosa sia successo alla mia faccia, oppure ad osservarmi a fondo proprio come si fa con un mascalzone che può soltanto essersi meritato quello che riesce oggi a mostrare quasi con orgoglio, senza neanche la capacità di provarne la vergogna che invece dovrebbe.

 

            Bruno Magnolfi

                

lunedì 2 novembre 2020

Non deve succedere ancora.


 

            “Lasciatemi stare”, urlo affacciandomi dal davanzale a tutti quelli che stamani si sono riuniti nel cortile sotto alla mia finestra. Sono soltanto i miei vicini di casa, quelli che abitano ai piani superiori, o anche nelle costruzioni accanto alla mia, perché adesso sono proprio stufo di loro, ed è come se non li riconoscessi, non li avessi mai visti, fossero quasi degli estranei qualsiasi, perché io ora voglio soltanto starmene da solo nelle mie preziose due stanze, senza che a qualcuno, chissà poi perché, venga la voglia di disturbarmi. Per questo mi sono chiuso a chiave dentro la mia casa, e non voglio neppure sentire più nessuno, proprio perché loro hanno sempre voglia di parlare, di spiegare, precisare, di fare delle domande, di guardarmi ogni volta con l’aria di chi si fida poco di colui che si ritrovano spesso di fronte, e rimangono sempre in attesa che quello faccia soltanto qualcosa di male per far venire le forze dell’ordine a portarselo via. Con loro siamo tutti dei grandi amici, almeno fino a quando non si supera la soglia; dopo sei subito uno diverso, un disadattato, un matto, emarginato da chiunque, non meriti neanche di abitare in un condominio assieme a tutti gli altri, e quindi ti devono portare via le guardie, lo devono fare con la forza, il più presto possibile per favore, ed in questo modo salvaguardare la tranquillità del quartiere.

            “Non faccio niente di male”, gli fo alla combriccola strillando ancora dalla finestra mentre tengo un martello dentro la mano, in maniera che capiscano bene che potrei anche essere peggiore di come sono sempre stato con tutti, e passare a vie di fatto con qualcuno di loro. Mi guardano adesso, intuiscono naturalmente che non sto affatto scherzando, però stanno qua sotto e non se ne vanno, rimangono tutti qui con la faccia seria a guardarmi, aspettando magari che qualcosa di grave succeda, che io faccia qualcosa di stupido, qualcosa che meriti di farmi portare via dalle guardie. Non sono brave persone queste qua, sono tutti contro di me, forse ridono per la mia voglia di starmene in pace, per il mio bisogno sacrosanto di non essere esattamente come loro. “Sono arrabbiato”, gli fo; “siete voi che mi fate arrabbiare, che mi ponete sempre delle domande a cui non riesco a rispondere, e poi magari ridete, parlate lungo le scale tra di voi e vi divertite nel prendermi in giro, quando dite che sono uno strano, uno che non è come tutti”. Mi chiedo che cosa mai vogliano questi da me, perché stiano sempre a parlare di quello che faccio oppure che non faccio, quando potrebbero benissimo preoccuparsi di altro.

            Poi arriva mia zia, l’hanno chiamata loro di certo, le avranno detto che mi è presa una crisi, che stamani non sono tranquillo come durante i giorni passati, che mi sono messo ad urlare contro di loro, che ho spalancato la mia finestra ed ho detto a tutti di andarsene via, e di smetterla di fissarmi come fossi un animale feroce. Lei dice qualcosa, poi sale le scale, sento i suoi passi mentre viene su, e poi fra un attimo so che aprirà la porta di casa con la sua chiave, e mi dirà con la sua voce melensa e senza avvicinarsi che oggi sono stato cattivo, che non avrei proprio dovuto fare tutto quel chiasso, perché la gente ora si è spaventata, e poi se continua così loro chiameranno le guardie, che vorranno sapere perché avevo un martello, e così mi porteranno via, per rinchiudermi, per mostrarmi quale sia la vera maniera di stare tranquilli. Devo fare qualcosa penso, devo inventare il modo più rapido per mostrare a tutti quanti che stavolta è diverso, che non mi va più di stare tranquillo a comando, magari soltanto perché è arrivata la zia.

            Velocemente metto la catenella alla porta, sento la voce della mia zia che scandisce il mio nome dal pianerottolo, ma io raggiungo di nuovo la finestra, dico a tutti con voce alta che nessuno può venire da me, e che decido io cosa sia meglio per quanto mi riguarda, e che non deve pensarci mai nessun altro. “Andatevene, insomma”, gli fo; “altrimenti dirò in giro che siete tutti un branco di sfaccendati; gente che non sa come trascorrere il tempo, che fa le stesse cose di sempre ogni giorno, e cerca di divertirsi alle spalle di uno tranquillo, uno che non vi chiede certo di dargli fastidio, e che ogni giorno vi sopporta con grande pazienza. Ma forse anche questo, purtroppo per voi, non potrà andare avanti proprio per sempre”.

 

            Bruno Magnolfi   

mercoledì 28 ottobre 2020

Tirannia della quotidianità.

     

 

            Ho fatto un elenco dettagliato di tutti i miei impegni, e li ho messi poi in fila con grande  precisione; ma adesso che li posso osservare con calma non ne sono molto contento. Mi paiono di un numero esorbitante, una serie infinita di piccole e stupide cose, certe volte persino in contraddizione tra di loro per natura o per scopo, tanto che in questo momento mi sento portato quasi ad ignorarle completamente. Forse è proprio questo inconsciamente a cui aspiro: essere a conoscenza di tutti questi impicci a cui dovrei proprio far fronte, per provare poi il gusto sottile di evitarli uno per uno. Già, perché continuo a darmi delle giustificazioni per non fare una cosa oppure quell'altra: dimenticarmi di un appuntamento, o magari anche di una scadenza, evitare di tagliare la barba per più giorni, oppure persino tralasciare di riempire il mio frigorifero di generi alimentari, ed in questa maniera, quando questo succede, mi viene spesso di tirare un sospiro di sollievo, come se una forza estranea a me stesso, oppure il semplice caso, dico io, fosse stato capace di  alleggerirmi di qualcuno tra tutti i miei compiti. E’ inevitabile sentirsi stufi di tutte queste cose da fare, credo, così aspiro continuamente a disinteressarmi di qualsiasi faccenda, tanto che alla fine vengo considerato, da chi mi conosce,  un tipo lunatico con il difetto della sbadataggine, e proprio per questo forse lasciato in disparte il più delle volte.

            Però non mi interessa, formulo a voce alta; tiro avanti come ho fatto sempre, ed anche se mi ritrovo un po’ troppo spesso da solo, giro per il mio quartiere quasi senza avere una meta, lasciandomi prendere praticamente ogni giorno da quanto maggiormente mi va sul momento. Così certe volte mi ritrovo a curiosare presso alcuni rigattieri che accumulano nei loro bugigattoli un sacco di cianfrusaglie per lo più inutili o inservibili, ma per me assolutamente affascinanti. Confronto i tanti soprammobili, le lampade da tavolo, gli orologi ormai fermi da appendere alle pareti, le piccole specchiere da camera, ed anche se alla fine non compro quasi mai nulla quando vado a girellare là in mezzo, però mi perdo volentieri dietro al pensiero di un’oggettistica inutile, e certe volte anche assurda. E’ la mia personalità che mi porta ad essere in questa maniera, almeno credo, ed io non mi sento certo nella condizione di oppormi alla mia natura.

            Perciò quando un vicino di casa che conosco da sempre suona il mio campanello per avvertirmi di avere ereditato da poco un piccolo baule in legno pieno di vecchi libri che non sa neppure valutare, io mi precipito nel suo appartamento, e comprendendo immediatamente la preziosità di quella roba, gli offro subito una certa somma per acquistarla e portarmela a casa. Lui naturalmente vuole ancora più soldi, così andiamo avanti a discutere per una buona mezz’ora, ma alla fine accettiamo ambedue un compromesso, e lui mi aiuta volentieri a trasportare il piccolo baule nelle mie stanze. Quando infine chiudo la porta dietro le sue spalle, sento di essere almeno per un momento una persona felice: non mi interessa più niente di prepararmi il pranzo, riordinare la casa, oppure cambiarmi d’abito: voglio soltanto star qui su una sedia a leggiucchiare questi testi polverosi e ingialliti, assaporando tutto il gusto di qualcosa che difficilmente, se non ci fosse stata questa strana combinazione, avrei mai potuto avere tra le mie mani. Sono libri, annuisco tra me; piccoli e vecchi condensati di una grande cultura, credo; nomi di scrittori ormai tutti spariti, però sicuramente importantissimi, e soprattutto elementi imparagonabili al vuoto di queste giornate composte soltanto da obblighi e da impegni, soggette soltanto alla tirannia delle cose da fare per forza.

 

            Bruno Magnolfi 

          

           

domenica 25 ottobre 2020

Inutili tentativi.

 

 

            "Mi sento confuso", le fo sottovoce senza guardarla, tanto per prendere tempo. "In questo momento non saprei neppure prendere le più piccole decisioni". Continuiamo a muoverci in macchina lungo certe strade secondarie fuori città, e intanto, mentre guardiamo l'asfalto davanti a noi, cerchiamo di parlare a ruota libera intorno a tutti gli argomenti che ci vengono a mente, anche se personalmente proseguo ad evitare di buttare là delle affermazioni avventate che non sono del tutto sicuro in seguito di poter mantenere come vere. Lei guida la sua auto con calma, ed osserva con attenzione ogni particolare delle case coloniche e della vegetazione che ci sfilano accanto, alla pari di come si sta mostrando estremamente interessata sia ad ogni parola che dico, sia alla maniera con cui dico le cose. "Potremmo fermarci a bere qualcosa lungo il prossimo paese", le fo tanto per alleggerire, e lei per un po' non risponde, quasi riflettesse sulla decisione migliore da prendere. "Va bene", afferma alla fine con un certo sussiego; perciò, senza neppure dire altro, rallentiamo lungo un centro abitato, alla ricerca del luogo più giusto per fare quello che abbiamo deciso, ed alla fine arrestiamo la macchina.

            Su un tavolino all'aperto di un locale alla buona ci lasciamo servire un panino imbottito tagliato in due parti, e naturalmente anche una birra ciascuno. "Penso che oramai si debba prendere una decisione", dice lei senza guardarmi, come fosse assorbita da ben altre cose. Lo so, lo sento, che lentamente stiamo arrivando al punto essenziale della giornata, così cerco di essere divertente toccandomi la fronte più volte come fossi perplesso, e spiegando che in questo momento non saprei proprio decidermi su quale parte prendere delle due metà di quell'appetitoso panino. Lei taglia subito corto, e addentando la sua parte di merenda senza alcuna incertezza, dice che dobbiamo mollarci, non c’è più alcun motivo per restare ancora insieme a prenderci in giro. “Non sono d’accordo”, le fo subito senza spiegare il motivo di una frase del genere, che mi è soltanto tornata a mente dopo aver visto qualche sera fa una vecchia pellicola del cinema passata in televisione. “Il fatto è che abbiamo ancora troppe cose in comune”, le dico buttando giù un sorso generoso della mia birra.

            Lei chiede del bagno, così si allontana lasciandomi a meditare sulle prossime mosse. Non so se in questo momento posso fare a meno di lei, rifletto. In fondo ci sono le tante abitudini che ho maturato in questi ultimi due o tre anni: passare da casa sua verso sera, quasi all'ora di cena ad esempio, e poi fingere di farle un favore ogni volta che resto a dormire da lei. Oppure improvvisare entusiasmo per un'uscita verso un cinema o anche a teatro, quando proprio non ho niente di meglio da fare. Qualcuno deve pur stendere la tovaglia sul tavolo se vogliamo mangiare, ho sempre pensato. Il mio barcamenarmi ogni tanto con qualche lavoretto in ambito culturale, si sa, non mi permette di fare dei grandi gesti. Così ho sempre lasciato che lei pagasse i conti del nostro vedersi, considerato che possiede dei bei depositi in banca, e lei di questo non si è mai lamentata, a dirla tutta.

            Poi torna, dice che ha preso una decisione, non vuole più neanche vedermi, almeno per qualche tempo. "Hai ragione", dico subito cercando di essere convincente. "Non ha senso trascinare le cose senza un vero motivo". Lei mi guarda, forse le dispiace già di essere stata affrettata, ed io mi volto a guardare qualcosa, disinteressandomi della sua eventuale espressione di leggera sorpresa, poi mi alzo dal tavolo e pago quanto abbiamo appena consumato, lasciando persino una mancia. "Andiamo?", le fo poi con indifferenza, e lei si alza a sua volta, ma lentamente, come non riconoscesse del tutto i miei modi di fare. Saliamo in macchina, io stendo le gambe e fingo di riposarmi, lei guida nervosamente fino a quando non arriviamo. "Allora ti saluto", le fo senza guardarla ma assumendo un'espressione leggera e facendole quasi un sorriso. Lei non dice un bel niente, però mi guarda adesso con grande intensità. Mi chiamerà tra una o due settimane al massimo penso, e poi ricominceremo alla stessa maniera di prima. Certe cose non si annullano mai, inutile persino tentarle, rifletto.

 

          Bruno Magnolfi


           

lunedì 19 ottobre 2020

Spirito marcio nel corpo.

 

          

            Adesso, anche in questo preciso istante, io mi sento finalmente sicura di quello che sono. Ho fatto tutto ciò che potevo per migliorare la mia situazione, anche se rispetto agli sforzi e alle grandi risorse che ho impiegato in tutto questo tempo, alla fine ho ottenuto un risultato che qualcuno giudicherebbe piuttosto modesto. Ma questo non ha troppa importanza, ciò che conta per me è aver preso coscienza della mia situazione, di come sono fatta, dei miei limiti, delle mie capacità. Anche se tutto questo è qualcosa che tengo assolutamente celato dentro me stessa. Continuo a girare per casa dando ogni tanto uno sguardo fuori dalla finestra di cucina, perché vorrei uscire, certe volte, incontrare delle persone, sentirmi libera di respirare l’aria di questi giorni. Ma non posso. Devo resistere rinchiusa tra queste mura ed accettare quanto la sorte mi ha destinato. Vedo che ci sono degli individui fuori dai vetri che girano lungo i marciapiedi senza neppure rendersi conto di quello che hanno. Io posso solo attendere che qualcosa succeda, per poter cambiare la mia situazione.

            Torna mio fratello, chiede se io abbia già preso le pillole, gli fo subito un cenno affermativo con la testa, poi abbasso lo sguardo, mi osservo le mani, stringo la striscia di stoffa che tengo annodata alla vita sopra la mia vestaglia da camera, e lui mi guarda per un lungo momento, forse riflettendo che mi sono fatta ancora più magra di com'ero neppure troppo tempo più addietro. Sono nervosa, irascibile, muovo gli occhi in tutte le direzioni, stringo con forza, alternandola ogni poco, ognuna delle mie mani nell'altra, e brucio rapidamente dentro me stessa tutto quanto mi risulta possibile. Nel pomeriggio però arriverà finalmente l'infermiera, questa specie di tuttologa calma e piacevole che cerca di farmi parlare, di pormi delle domande senza mai insistere, di allontanare i miei pensieri dagli argomenti verso cui autonomamente tendono a rifugiarsi quasi in continuazione. Lo so che sono malata, lo sanno tutti, e difatti tutti si adoperano per tenere la mia situazione sotto controllo, però io adesso ho piena coscienza delle mie condizioni, e lascio perciò a tutti coloro che desiderano occuparsi di me, che lo facciano in maniera completa, abbandonandomi a loro in modo quasi totale, senza suscitare ulteriori preoccupazioni a nessuno.

            Nessuno tra chi mi circonda crederebbe mai che il mio corpo tenta ogni giorno di liberarsi dello spirito da cui è abitato. C’è un’occlusione che non ne permette il passaggio, ed anche se quando mi ritrovo da sola apro la bocca per quanto mi riesca possibile, tutto quanto resta imprigionato dentro di me, incollato all’interno, fermo chissà dove, tra gli organi, in mezzo alle vene, tra le viscere e la pelle rugosa. Vorrei tanto abbandonare una volta per tutte questa sensazione che sinceramente mi opprime, questo sentirmi ingabbiata da una sofferenza continua che non so mai addebitare a nulla di realmente preciso. In ogni caso so cosa io sono, ed anche soltanto per questo mi ritengo fortunata: guardo le persone che camminano fuori dalla mia finestra socchiusa, ed alla fine invidio soltanto la parte di loro che tenta di essere libera, non riuscendoci affatto, ignorando del tutto di avere proprio come me uno spirito avvelenato che dall’interno di ogni corpo li opprime. Ne ho pena, ecco tutto, non riescono a rendersi conto di come stiano realmente le cose.    

            Mio fratello dice certe volte che devo disinteressarmi maggiormente della vita degli altri, e concentrarmi piuttosto sulla mia condizione. Faccio un cenno affermativo con la testa in quei casi, perché so che lui non potrebbe comprendermi mai. Il suo spirito ha completamente occupato il suo corpo, e non è più padrone di sé, perciò lascia che tutto quello che osserva d’intorno assuma il suo stesso profilo. Anche le persone che si muovono lungo la strada ormai sono fritte: si tratta di rendersi conto che ognuno è chiuso in se stesso, così che l’unica via è quella di attendere che lo spirito marcio che prosegue ad opprimere tutti, lasci finalmente in libertà ogni corpo che abita, perché è soltanto in questa maniera che ci potrà essere davvero un futuro: ritrovarsi un bel giorno ognuno di noi del tutto cavo di ogni presenza maligna, e poi insieme riderne appieno.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 15 ottobre 2020

Professionista delle parole.

 

        

 

            Sono una persona normale, almeno credo. Ho cercato assiduamente anni fa di esercitare l’attività di giornalista, ma adesso invece scrivo per i miei ex-colleghi, tutti coloro che mi chiedono di preparare un pezzo su di un argomento oppure su un altro. Mi documento, preparo i materiali, le parole e le frasi salienti, poi li metto assieme curando la prosa. Un professionista, ecco quello che mi considero, e svolgo un mestiere in fondo paragonabile a molti altri. Generalmente preparo anche gli interventi che devono tenere certi individui davanti ad una platea di persone, e così cerco di immaginare il più possibile la situazione esatta che loro si troveranno di fronte, il genere di persone a cui parleranno, gli argomenti che si troveranno a trattare, il senso che per proprio desiderio vorranno dare al loro discorso, in modo da usare certi aggettivi invece di altri, ad esempio, o una certa dialettica al posto di un'altra, e così via. Però mi capita anche che venga richiesta una breve biografia di un certo tizio, o anche la descrizione dettagliata di qualche materiale che stanno per mettere in produzione, oppure di un apparecchio appena inventato, e perciò da magnificare. Tutto uguale per me, basta che le cose vadano avanti. Poi ultimamente arrivano per posta elettronica anche delle richieste da parte di scrittori di gialli e di narrativa più o meno noti, che chiedono con garbo il mio aiuto per qualche capitolo. Studio le situazioni, mi faccio descrivere i loro intenti, considero lo stile che vogliono dare alle cose, infine metto giù il pezzo, e generalmente risponde piuttosto bene alle loro aspettative.

            Mi trovo a domandarmi certe volte, ma sempre più spesso, che razza di presente stiamo vivendo, visto che non riusciamo più ad essere neppure autentici, e che crediamo senza battere ciglio ad esseri umani oramai abituati a pagare qualsiasi servizio, persino quelli più insospettabili. Tutto viene acquistato, non mi meraviglierei per nulla se mi arrivasse un giorno di questi la richiesta per delle poesie da mettere in un libro sotto al nome di qualche scrittore magari famoso. Non dobbiamo meravigliarci di niente mi dico, piuttosto cercare di galleggiare in qualche maniera, e probabilmente è quello che fanno anche certi narratori a corto di idee, che non sanno neanche più di che cosa parlare con i loro lettori. E forse questi ultimi sono i più ingenui di tutti, quelli che credono che ci sia ancora del vero dietro le parole dei politici, dei giornalisti, dei grandi letterati capaci di comporre centinaia di pagine di storie senza battere ciglio. Nessuno ne ha più davvero la voglia, questo è il punto saliente; perciò il mio mestiere è quello che serve oggigiorno: un amanuense contemporaneo con il gusto e la volontà a pagamento di mettere giù pagine e pagine pensate e sentite senza pensarle e sentirle davvero, applicandosi a mille diversi argomenti con il distacco di chi si sente completamente disincantato.

            Per questo credo di essere molto normale. Perché penso che in giro si stia continuando a trincerarsi dentro una bolla di accettazione incondizionata su qualsiasi argomento venga trattato, come se questo fosse dettato dall’anima pura ed eletta di qualche tizio ispirato, quasi perso nella ricerca di qualcosa di nuovo e di meraviglioso da dire, non sapendo che oramai è stato già detto tutto, e che veramente di nuovo, in ogni libro pubblicato di fresco, con ogni probabilità c’è soltanto la sua copertina; perché il resto è soltanto retorica.       

 

            Bruno Magnolfi

martedì 6 ottobre 2020

Sfortuna sfacciata.

 

       

            Le sorti della mia giornata paiono gingillarsi con me, e in qualche caso prendermi deliberatamente in giro durante tutte quelle volte in cui ritengo di aver quasi ottenuto dei risultati minimamente positivi dalle mie attività. Non so come sia, però mi sembra ogni volta sempre più difficile riuscire in quello che ogni volta desidero fare, che sia anche soltanto compiere delle piccole operazioni mondane, come può essere acquistare qualcosa, sostituire una lampadina fulminata del mio appartamento, preoccuparmi di pagare l’affitto, oppure cucinarmi un piatto di cui ho sentito tessere le lodi per la squisita bontà. Non mi riesce ormai quasi nulla, questo è il punto, perché laddove l’elemento casuale entra nel circuito delle possibilità, a me si riserva quasi sempre la soluzione peggiore, quella che mi fa persino rimpiangere di aver perso solo del tempo nel compiere quel tentativo. Non mi piace avere sfortuna, però capita ogni poco che le cose non vadano bene per me, non tanto a riguardo degli elementi importanti o delle attività fondamentali di una persona come posso essere io, bensì per le cose più piccole a cui devo badare, le stupidaggini quotidiane alle quali sto dietro, quelle sciocchezze a cui solitamente ognuno concede anche meno peso che ad altre, ma che quando si piazzano di traverso risultano poi le più difficili da digerire.

            Certe volte ho cercato di comprendere se ci fosse stato un nesso tra il mio modo abituale di comportamento e le minute sventure accadute ogni tanto nei miei tentativi di sentirmi una persona normale, ma non sono mai riuscito a trovare una relazione costante tra le due cose, tolto il fatto di immaginare spesso il risultato negativo ancora prima che questo si verificasse. Non so come si possa semplicemente accettare, ma di fatto quando qualcosa va storto - e si brucia una padella con dentro le uova, oppure scosto la tenda della finestra e viene subito giù il bastone a cui è stata fissata, vado a pagare una bolletta all’ufficio postale e c’è uno sciopero in corso o magari è appena avvenuta una cruenta rapina - mi domando se fosse stato possibile evitare quella piccola ulteriore calamità. Non trovo mai una risposta, ma vedo continuamente attorno a me persone appagate per quello che fanno, ogni volta con risultati per loro del tutto soddisfacenti. 

            Alla fine ho capito che probabilmente sono io che non riesco a fare le cose che fanno tutti, soltanto perché qualcosa si interpone immancabilmente tra me ed il raggiungimento del risultato che cerco, perciò non posso tentare di essere una persona normale, semplicemente perché in qualche maniera proprio non lo sono. Questa consapevolezza mi ha fatto tirare improvvisamente un grosso sospiro di sollievo. Non si tratta perciò di una particolare forma di sfortuna, di uno strano e personale malocchio, di una disgraziata iella cucita sopra di me, bensì di una mia predisposizione naturale ad essere sfortunato. Devo conviverci, è tutto qua. Devo soltanto alzare le spalle e tirare avanti come se tutto andasse ogni volta per il verso giusto, anche se non è vero.

            Così ho iniziato a guardare le cose in un’altra maniera. Oggi la mia vicina di casa ad esempio mi ha bussato alla porta e mi ha chiesto in prestito un apriscatole. Ovviamente mi sono offerto di aprirle direttamente le scatolette che le servivano, e lei con un gran sorriso mi ha invitato a casa sua per la cena. Niente di speciale, però è stato un inizio, qualcosa che comunque è andato a buon fine, e mi ha reso appagato dei miei comportamenti gentili e rilassati. Domani con indifferenza affronterò la giornata che mi si apre davanti, e farò tutto quello che serve per renderla nel miglior modo fruttuosa, senza paure, senza immaginare già in precedenza quanto di negativo si potrà forse verificare, considerato che manterrò un contegno neutrale in qualsiasi caso, non perché mi senta già rassegnato, ma soltanto perché predisposto a qualsiasi evenienza, ritenendomi quindi soddisfatto senza alcun dubbio, in un caso o nell’altro.

 

            Bruno Magnolfi