domenica 30 agosto 2020

Altro non so.

           

 

            Potrei lasciare tutti di stucco, se solo ne avessi la voglia. Mostrare la mia vera natura, urlare sulla faccia dei miei conoscenti che li ho solamente sopportati fino a questo momento, e che da adesso in avanti sentendomi stufo delle loro maniere di comportarsi, sarei in procinto di decidere a staccarmi da tutti quanti quelli che mi girano attorno, e proseguire per conto mio, senza più ascoltare i consigli di chiunque mi conosca, come fino ad oggi ho sempre fatto. Mi prende la rabbia anche se sono da solo quando penso tutto questo, non so bene neanche perché, però mi sembra di essere sempre stato trattato da questa gente con grande superficialità, come se non contassi un bel niente, anche se in seguito il malumore mi passa, ed allora con le mani dentro le tasche torno a farmi vedere come sempre tra le panchine in mezzo alla piazza, davanti al palazzo comunale del paese, per riprendere come se ne niente fosse le chiacchierate di tutti i giorni. Vorrei soltanto che tutti sapessero che potrei benissimo fare a meno di loro, che non ho affatto bisogno di starmene lì insieme a tutti per sapere che sono qualcuno, e che se sopporto ancora la situazione è soltanto perché sono socievole, aperto al dialogo, una persona perbene, ecco.

            Mi battono una mano sopra la spalla, mi chiedono come vadano le cose, qualcuno beve una birra direttamente alla bottiglia mentre mi guarda, e poi dicono sempre che uno come me è proprio difficile da ritrovare, anche se subito si mettono a ridere, forse perché pensano di essere furbi, che io creda come niente alle cose che tutti quanti mi raccontano, senza invece rendersi conto che potrei tranquillamente fare a meno di loro, se solo volessi, e smettere di ritrovarmi sulla piazza del nostro paese a lasciarmi prendere in giro e ad alzare le spalle con sufficienza ogni volta che dicono qualcosa sopra il mio conto, perché non ci sto a prendere a male tutte quelle sciocchezze. Non mi interessano i loro discorsi, un giorno di questi potrei dirlo a tutti con voce alta e risentita, tanto per chiarire le cose, per far presente come sono fatto davvero, e che se fino ad oggi sono sempre stato allo scherzo è soltanto perché non mi piace alzare la voce, e litigare, o fare lo sguardo accigliato.

Poi mi metto da una parte senza dire nulla, ascolto senza troppo interesse qualcuno che dice delle cose poco sensate, ed avrei quasi voglia di andarmene, se solo sapessi cosa fare in un giorno come questo. Sto da solo seduto, guardo qualcosa per terra tanto per fare, e lascio che tutti proseguano a parlare e a ridere come sempre hanno fatto. Alla fine viene uno e si siede vicino. Dice che non devo ascoltare nessun altro, mostrarmi superiore a quello che insinuano tutti, perché più me la prendo e maggiore è la loro soddisfazione. A questo gli dico che non mi interessa un bel niente di tanti discorsi, e neanche delle maniere che hanno tutti di comportarsi con me, però se uno di questi giorni mi sentirò stanco di questi atteggiamenti che devo sopportare, allora sarà quello il momento in cui tutti dovranno rendersi conto che so anche essere deciso e cattivo, non soltanto arrendevole e bravo, ed è per questo che devono stare un po’ attenti, perché la pazienza che ho sempre avuto con tutti può anche finire. Quello mi dice che ho proprio ragione, e che forse è questo il momento migliore per farmi portare rispetto, e che magari basta anche poco, una parola detta per bene, un cenno di sfida e tutto appare subito già sistemato.

Così mi alzo dalla panchina, urlo che sono stanco, la devono finire di comportarsi con me come con un rimbambito, e tutti si fanno seri e mi guardano. Però passa un attimo, qualche secondo appena, e alla fine tutti si mettono a ridere, ed io me ne vado, che tanto quello che avevo da dire l’ho bell’e spiegato, ed adesso non c’è da aggiungere altro. Poi quando sono da solo mi viene voglia di piangere, forse soltanto per l’agitazione, ma intanto ho fatto tutto ciò che potevo, altro non so.

 

Bruno Magnolfi

 

lunedì 24 agosto 2020

Consiglio decisivo.

 

          

 

            Non c’è anima viva qua attorno, così mi siedo anche stasera su questa grossa pietra che sporge dalla terra fatta di stoppie e di pruni, e poi resto qui, a guardare attorno questa campagna così assetata d’acqua nella stagione corrente, ed il cielo là in fondo quasi bianco di caldo e di sole. Non so proprio cosa io debba fare, non so decidere niente: forse riprendere il viottolo che mi riporta indietro, fino alle prime abitazioni del paese dove abito; oppure restare ancora qui, a sperdermi su questa terra arsa, priva di tutto, senza trovare dentro di me alcun motivo valido che in qualche modo mi indichi la cosa più importante di cui preoccuparmi. Immagino, come tante altre volte ho già fatto, la collina verde chiaro poco più avanti come un luogo finale a cui dedicarsi: coltivare del grano, mettere a dimora le piantagioni, oppure seminare erba medica e foraggio per il pascolo degli animali da tenere di notte dentro una stalla, una costruzione di legno che potrei fare con le mie mani. Non so come potrebbe essere la mia vita, se soltanto trovassi il coraggio o una ragione che ne definisse i contorni, piuttosto che continuare soltanto a mandare avanti i miei piedi, un passo di seguito all’altro, senza mai fare niente, senza preoccuparmi di nulla, attingendo tutto ciò che mi serve soltanto da quei pochi soldi ed il terreno che i miei genitori mi hanno lasciato.

            Abito da solo una piccola casa di pietra, e giù in  paese più o meno mi conoscono tutti, anche se difficilmente qualcuno di loro mi rivolge anche semplicemente una sola parola. Non sono violento, e neppure sgarbato: sono solamente uno a cui piace il silenzio, starsene a lungo per i fatti propri, volgere lo sguardo sempre più avanti, mai dentro gli occhi di una persona che sta guardando nei miei. In tutti questi anni non ho trovato ancora una ragione efficace per fare qualcosa, però proseguo ad osservare tutte le volte che posso questa collina deserta, con il dorso pulito, senza un bel niente là sopra, oltre qualche sterpaglia, come una carta sbiancata su cui poter lasciare un segno qualsiasi. Le giornate si sono accorciate, il tramonto si fa avanti più in fretta da qualche tempo, ed allora devo tornare purtroppo sopra i miei passi, e percorrere tutto il sentiero tortuoso prima di rientrare in paese, anche se non ne sento la voglia, quasi che qualcosa tra quelle case mi respingesse, magari forzando la mia volontà per incoraggiarmi ad andarmene via, chissà dove, lontano da questi paraggi, senza guardarmi più addietro, come non ci fossi mai stato da queste parti.

            Poi penso che in fondo siamo tutti così, persi dietro a pensieri del genere, lasciando bastare in qualche occasione le poche cose che ciascuno ha messo da parte. Però io non ho niente, nessun bene caro, neppure dei ricordi che valga la pena di essere riportati alla mente. C’è soltanto questa collina che spesso mi chiama, mi parla, chiede alle mie povere ossa di starmene qui, su questa pietra, seduto, a parlarle, come se già solo questo fosse sufficiente per sentirsi più realizzati, quasi non ci fosse bisogno di altro per avere dentro se stessi la forza di affrontare le cose.  Infine rientro in paese, lentamente, un passo dietro quell'altro, affrontando la poca gente dentro la piazza e davanti ad un’osteria, con qualche tavolo fuori, come se fossero tutti semplici estranei, persone che non ho neppure mai visto, e non ingenerassero in me alcuna curiosità. Invece stasera mi fermo, osservo una sedia, mi sistemo ad un tavolo, dove un paio di paesani condividono un quarto di vino.

"A cosa serve stare qui", chiedo loro, "se non a raccogliere dei segnali, fare proprie certe iniziative, valutare i pensieri degli altri, sempre che siano sinceri, meditati, positivi". Loro mi guardano senza rispondere niente, attendono ancora un momento, poi chiedono se abbia voglia per caso di bere con loro. "Va bene", rispondo, "in fondo non c'è niente di male". Sorseggio quel vino, osservo qualcosa in fondo alla strada, poi torno ad alzarmi; ringrazio per la loro ospitalità e quindi me ne vado, consapevole di qualcosa di più. Andrò sulla collina domani, rifletto; e poi rimarrò a lungo là sopra, a lasciare che la terra per un’ultima volta mi parli e mi dia il suo consiglio.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 20 agosto 2020

Filo di voce.

 

        

 

            Io sono soltanto un rumore qualsiasi nella città, un elemento volatile, del pulviscolo impalpabile; per questo nessuno mi nota quando me ne vado in giro non so neanche io verso dove: un niente completo che vaga senza neppure una ragione vera per tirare avanti, ecco chi sono. Eppure mi disinteresso completamente dei modelli che riempiono le giornate di tutti gli altri che vedo di fronte a me: non ho più neppure bisogno di qualcosa in cui credere, mi basta sapere che non avrei mai il coraggio di fare delle scelte importanti, così lascio che le cose scorrano in autonomia, senza mai preoccuparmene, senza cercare una svolta nel corso del tempo che continuamente mi insegue. Lavoro dentro una radio, porto avanti una trasmissione notturna che probabilmente nessuno vorrebbe curare al mio posto. Entro già tardi la sera dentro al piccolo studio con la testa quasi sempre svuotata di qualsiasi pensiero, mi siedo, aspetto, lascio che il tecnico di là dal vetro insonorizzante mi faccia il solito cenno, poi attacco io a parlare, senza sapere in precedenza di quali argomenti. Dicono che ci sia un numero fisso di affezionati che mi segue ogni notte, ed è per loro che vado avanti, anche se non saprei proprio chi potrebbero mai essere.    

Dico delle cose che spesso non hanno né capo né coda, delle riflessioni confuse che non portano mai da alcuna parte, ma che mi escono dall’apparato laringeo con calma, quasi autonomamente, in mezzo a delle pause silenziose, flautate dalla mia voce bisbigliante, un po’ rauca, senza mai alcun accento. Riassumo quello che leggo sui libri, o ciò che gli altri mi dicono durante il giorno, magari mentre acquisto del pane, oppure quando mi fermo dentro un locale a bere una birra. Tutti hanno voglia di parlare di tutto, ed io spesso li ascolto, incamero le loro maniere di esprimersi, i verbi che usano, i soggetti a cui danno credito. Quando poi la notte è il mio turno, ogni dettaglio davanti al microfono si dilata, e allora dico: “possiamo tutti stare tranquilli;  non succederà niente che non sia stato già ampiamente previsto. (…). Possiamo lasciare che le cose corrano ancora per proprio conto, senza mettersi in mezzo, senza opporsi all’andamento normale pianificato”. Qualcuno mi ha detto che dietro alle mie parole c’è quasi un’aura di ribellione, una spinta a coalizzare le forze per rovesciare quanto ci è stato fornito fino ad oggi. Non lo so, non ho una vera opinione a riguardo, mi basta avere il microfono davanti a me per dire qualcosa.

Sembra che qualcuno abbia iniziato a registrare da casa quello che dico, e quando fa giorno a sbobinare con calma ogni parola, ogni frase che pronuncio di notte. Altri vogliono addirittura farne un libro, una serie di precetti messi in fila che indichino a tutti qualcosa che a me sinceramente continua a sfuggire. Ma sono sicuro che alla fine non si darà importanza a nessuna iniziativa di questo genere, perché è giusto così, non c’è alcun bisogno di enfatizzare quanto volteggia sulle onde radio soltanto per riempire qualche vuoto. Il tecnico del suono che fa girare la musica ogni volta che mi prendo una pausa, certe volte mi tratta come se fossi un filosofo della quotidianità, uno capace di leggere negli occhi degli altri le dottrine da cui sono incantati tutti quanti, anche se poi non si rivolge mai a me direttamente, se non per dettagli di natura pratica. Quando me ne vado dagli studi radiofonici so di aver fatto quanto dovevo, né più né meno, senza sentirmi mai soddisfatto, ma neppure provando grandi sentimenti di delusione.   

Forse lascerò la radio uno di questi giorni; magari lo farò in un momento in cui il mio pessimismo mostrerà una forza maggiore. Troverò un lavoro vero magari, qualcosa che mi avvicini di più agli altri e non mi faccia sentire sempre senza collegamenti. Adesso non sono proprio nessuno, esattamente un bel niente; soltanto un filo di voce che farfuglia delle sciocchezze alle orecchie di chi ormai è già pieno, anche più che me stesso, di questa realtà.  

 

Bruno Magnolfi

sabato 15 agosto 2020

Via, dicendo qualcosa.

 

        

 

            Guardo la fila degli alberi dalla finestra, la strada polverosa che sparisce dopo la curva, le poche persone che transitano da queste parti, i pochi negozi che si aprono lungo il caseggiato, ed io sto fermo, con il naso sul vetro, e mi pare che tutto sia immobile, senza alcuna necessità di variazioni. Riconosco la mia vicina di casa mentre parla con una conoscente agitando le braccia, un’auto rallenta e si accosta subito al marciapiede, scende una persona, sorride, entra dentro un portone, per un attimo spariscono tutti, poi si intravede altra gente che arriva e poi si saluta, ma qualcuno va via, altri restano a perdere tempo, ognuno ha una maschera pubblica, sicuramente rimovibile in fretta al bisogno, senza problemi. Mi allontano con calma dalla finestra, ascolto l’eco dei discorsi di tutta la gente che in fretta si sono dispersi nell’aria, come fumo nel vento, e poi indosso la giacca, come fanno gli altri quando si preparano ad uscire, ma poi mi siedo, non ne ho alcuna voglia penso, resto qui, nessuno mi cerca, non ho niente da raccontare ai miei concittadini.

            Poi giro per casa, mi accendo una sigaretta, predispongo qualcosa per la mia cena solitaria, scelgo tra i miei gusti quali siano quelli più adatti a questa giornata, e via dicendo, senza mai fermarmi a riflettere troppo, senza sviscerare troppo i dettagli, compiendo della azioni meccaniche, che non richiedono impegno, nessuna preoccupazione a cui dare spazio. Suonano alla porta, non ho alcuna voglia di aprire, potrei fingere di non essere in casa, potrei nascondermi con  attenzione, senza provocare alcun rumore, potrei spiegare in seguito di non essere stato bene, e via dicendo, come se non avessi bisogno di niente, tantomeno essere disturbato da chissà chi. Insistono, perciò entro nel bagno, mi siedo sul bordo della mia piccola vasca, aspetto, chiunque sia sul pianerottolo si stancherà di reclamare la mia presenza alla porta, forse sarà soltanto un venditore ambulante che vuole proporre chissà quale articolo, o uno dei distributori di giornali della sinistra, a cui una volta feci un’offerta, per cui adesso non mi mollano più, mi braccano, e via dicendo, perché sanno che con qualche insistenza otterranno sempre qualcosa da me.  

            Silenzio, mi decido ad aprire per vedere se abbiano lasciato un opuscolo o qualcosa alla porta, ed invece è la mia vicina di casa che è rimasta lì tutto il tempo solo per aspettarmi: “ero in bagno”, le fo, e lei sorride, muove le braccia come fa sempre e dice che ci sarà una riunione di condominio fra qualche giorno, e c’è la necessità che io sia presente, che dia il mio parere, e via dicendo, per cui devo per forza farmi vivo, non come sempre, quando firmo la delega a qualcuno e mi disinteresso di tutto, perché c’è da prendere delle decisioni importanti, mi fa, e non si può certo tirarsi indietro in questo momento. Annuisco, cerco di dire che farò senz’altro ciò che mi chiede, non c’è proprio alcun dubbio, perché capisco anche io quali siano le cose importanti, e via dicendo indietreggio leggermente nel mio appartamento perché la mia vicina muove ancora le braccia, e in questo momento mi sento poco protetto da quei suoi modi di fare. Va via, mi dà un foglio con la richiesta ufficiale della riunione, con la data, il luogo e anche l’ora, ed io lo osservo un momento poi lo appoggio su un mobile, ed infine torno nel bagno per sedermi di nuovo sul bordo della vasca, come per riprendere i pensieri interrotti, e via dicendo reso un po’ lì senza che niente succeda.

            Infine torno alla mia finestra, per incollare il naso sul vetro, tanto gli alberi sono ancora lungo la medesima fila, e le poche persone che girano su e giù per la strada polverosa si lanciano grandi sorrisi che io non riesco mai a lanciare nella loro stessa maniera, rimanendo sempre con la stessa espressione quando giro per strada, e via dicendo proseguo a fare le cose di sempre, senza farmi interrompere. Sbaglio, ne sono sicuro, però mi sento di essere in questa maniera, proprio così come sono, e via dicendo lascio che tutto prosegua nel compiere gli stessi identici percorsi, nonostante io pensi che un giorno di questi qualcosa di grosso sia destinato a cambiare.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 6 agosto 2020

Quando suonavo con M.D.

        

 

            Non ero neppure giunto in ritardo sull’ora che avevamo fissato il giorno precedente alla sala prove della 52°, eppure i ragazzi ugualmente mi avevano subito guardato male, forse per il mancato rispetto del piccolo anticipo sugli appuntamenti adottato come regola generale non codificata, ma comunque rispettata da tutti, e in ogni caso il bassista con il suo Fender stava già provando un buon giro ritmico, così come gli era stato richiesto, mentre tutti gli altri ancora accordavano o sistemavano i loro strumenti. Mi ero immediatamente seduto alla batteria senza dire neppure una parola, controllando i tiranti del rullante e dei tom, e proprio in quel momento era entrato Miles Davis, vestito in maniera piuttosto ordinaria quel giorno, e con in mano la sua tromba già completa della sordina innestata sulla campana. Aveva ascoltato per un minuto o due il riff di basso, poi aveva piantato tre semiminime staccate nei punti giusti della battuta, ripetendole dopo una pausa più lunga, e costruendo in questo modo un motivo su cui tutti noi ci eravamo immediatamente inseriti.

            Oltre i vetri divisori, un paio di tecnici della Columbia proseguivano a guardarci con intensità mentre maneggiavano i loro cursori delle timbriche e dei volumi sopra le enormi console, probabilmente non comprendendo affatto che ci sarebbe stata una vera e propria rivolta, da parte degli addetti ai lavori, per quei materiali che stavamo mescolando senza neanche starci a porre troppi pensieri. Con poco creavamo una tensione pazzesca, e Davis pareva svolazzare sopra al pieno orchestrale lavorando spesso sulle note di margine agli accordi. Poi ad un tratto usciva dalla sala, lasciava noi tutti (per tre o quattro minuti, e a volte di più), da soli a tenere in piedi una costruzione fatta di impegno solistico, di stimoli reciproci, e di ascolto dei suoni che venivano fuori da ogni strumento, fino a quando si sentiva giunto il momento di distendere tutto, e ritrovare l’ascolto pacato, la nota singola, il dettaglio che mostrava immediatamente la differenza. Quando lui rientrava in sala all’improvviso con la sua tromba, pareva esattamente lo stesso di prima, ma sapeva sempre di inserirsi in un contesto già completamente mutato.

            Le registrazioni non venivano mai riascoltate da Davis nella stessa giornata di prove, ma soltanto in seguito, insieme con Teo, l’unico per il quale provava un senso vero di profonda fiducia, e soltanto quando il materiale sonoro accumulato sui nastri, iniziava a diventare davvero eccedente. Per me stare lì era semplicemente come sentirmi nell’unico posto dove davvero avrei voluto stare sempre, e per gli altri ragazzi era assolutamente lo stesso, lo capivamo al volo, bastava guardarci tra noi per un attimo, perché eravamo perfettamente coscienti di manipolare qualcosa di cui si sarebbe parlato per anni, e forse per sempre. Sulla mia batteria continuavo costantemente a cercare qualcosa di più, cambiando continuamente bacchette e tirando o allentando le pelli, come nel tentativo nevrotico di far scaturire dalle mie mani quel suono, quella rullata, quell’insieme ritmico che era mancato fino a quel preciso momento, e che adesso forse era lì, pronto per soddisfare anche Davis.

            Lui difficilmente ci guardava in quei giorni, certe volte sembrava da solo, più avanti di noi, oltre quella matassa di accordi, di note, di spunti e di frasi, come fosse già sbarcato in un nuovo mondo che certe volte immaginava senza parlarne mai, e restasse nell’attesa che anche noi dietro di lui riuscissimo nella sua stessa impresa, raggiungendolo soltanto per battergli una mano sopra la spalla. A volte diceva qualcosa, con la sua voce afona e roca, impossibile da dimenticare, ma non si riferiva mai a tutti noi (che eravamo una decina), oppure a due o tre, ma parlando soltanto con uno alla volta dei suoi musicisti, come se gli altri in quel momento neppure ci fossero. Quando uscirono i dischi, qualche tempo più tardi, si arrabbiarono in molti, ma lui andò avanti ugualmente per la sua strada, perché sapeva quel che faceva, e voleva farlo in quella precisa maniera.

 

            Bruno Magnolfi    


domenica 2 agosto 2020

Seriamente, stavolta.

       

 

            “Sto fermo, sto fermo, non preoccupatevi. Ma insomma, che cos’è questo silenzio? Sembra quasi un senso di vuoto, come qualcosa che all’improvviso (oppure poco per volta, non saprei) sia venuto a mancare; forse la capacità di riflettere ancora meglio ed in modo più preciso su quanto è accaduto fino ad oggi; o magari la coscienza, la consapevolezza di ciò che, al contrario, non è mai capitato. Non capisco, però devo andarmene da qui, non è più possibile, almeno per me, dover star fermo per ore e per giorni nell’attesa che succeda alcunché. Anzi, se adesso devo darne un giudizio, mi pare proprio qualcosa di assurdo quello che si sta verificando. Ecco, mi alzo da questa sedia, torno a calzare le scarpe, ad indossare la giacca, e poi me ne vado, spero così che sarete contenti di quanto siete stati capaci di mettere assieme: un bel niente, ecco cos’è stato”.

            Mi muovo nella stanza di ritrovo del circolo culturale, osservo le facce serie e accigliate degli altri, nessuno trova niente da ridire, neppure sul fatto che la mia provocazione serva per smuovere in qualche maniera le acque. Lo so che tutti vorrebbero qualcosa che non sanno trovare, però manca il metodo, l’impegno, l’entusiasmo per riuscire a mettere assieme qualcosa di positivo. Mi ferma quasi sulla porta uno dei vecchi associati tenendo con fermezza un libro tra le mani, mi guarda negli occhi misurando una pausa che a me pare infinita, poi chiede se per caso conosca l’autore del manuale che sta consultando. “No, non mi pare”, gli dico, e lui fa: “peccato, perché qua dentro ci sono degli spunti notevoli di cui potremo discutere insieme nell’ottica del rilancio delle attività nel nostro circolo”. Prendo il volume e leggo rapidamente qualche frase casuale nell’introduzione. “Non volevo dire che tutto è morto e sepolto e che non ha alcun futuro”, gli fo; “soltanto mi pare che ci stiamo adagiando su una situazione senza sbocchi, ecco tutto”.

            Lui riprende il suo libro e prosegue fino ad accomodarsi sopra una sedia, e a me non resta altro che attendere ancora, prima di andarmene via, considerato che un gesto del genere adesso sarebbe sicuramente mal visto da tutti. Così torno a sedermi, e sento che le scarpe sono tornate già a far male ai miei piedi, anche se in questo frangente naturalmente cerco di resistere il più a lungo possibile. Da quando il partito decise di non darci più appoggio, ormai più di tre anni fa, siamo diventati una specie di zattera alla deriva in un mare pieno di barche e di navi solide e capaci, ed anche se lo scollamento che volevamo evidenziare già dagli inizi rispetto alla politica culturale adottata fino ad allora, ci ha risucchiato subito parecchie energie, in seguito ogni iniziativa si è come spenta, quasi che il nostro legname non riuscisse più a stare assieme. Però abbiamo proseguito a vederci con regolarità, e a parlare tra noi di qualsiasi possibilità ci venisse a mente.

            “Va bene”, dico ad alta voce. “Iniziamo da adesso a segnarci grossolanamente i punti su cui vorremmo intraprendere delle iniziative. In seguito potremo affinare le idee e trovare delle soluzioni per le difficoltà di attuazione dei programmi”. Gli altri mi guardano senza ribattere, e una ragazza, con noi da non molto, tira subito fuori la carta su cui prendere appunti. Ci stringiamo attorno al grande tavolo che ha visto già molte battaglie, poi uno inizia col dire che ci sarebbe la possibilità di stringere delle alleanze con altre associazioni simili in tutto alla nostra. Nessuno trova qualcosa da ribattere a questo suggerimento, così si invitano tutti i presenti ad esprimersi in merito ad una possibilità di questo genere. Sembra addirittura che siamo d’accordo, così si prende in esame l’opportunità di scrivere una lettera circostanziata ad un paio di circoli che già conosciamo.

            “Ecco”, dico alla fine di tutto questo. “Non ci voleva poi molto per prendere qualche decisione”. Quindi mi alzo dalla sedia, gli appunti sono già stati vergati sopra la carta, una donna tra i vecchi associati si prende l’incarico di scrivere la lettera. Posso andarmene adesso, penso mentre sento ancora le scarpe tiranneggiare i miei piedi. Facciamo sul serio, stavolta.

 

            Bruno Magnolfi