domenica 29 novembre 2020

Comportamento anomalo.

 

       

 

            Mi nascondo. Certe volte capita che qualcuno mi parli di un argomento che conosco bene, di qualcosa che forse ho già visto oppure che ho proprio vissuto, magari di un’esperienza che già da tempo sta dentro la mia memoria, per uno solo oppure per chissà quanti altri motivi, qualcosa che rammento benissimo e che però mi torna alla mente soltanto in quel preciso momento, e che ritrovo comunque con facilità tra tutte le cose che ho già dentro la testa, anche se rimango ad ascoltare e basta, senza dare neppure una briciola del mio parere, perché fingo ogni volta di non saperne niente, di non averne mai neppure sentito parlare. Mi chiedo perché mai dovrei spiegare ad altri qualcosa di me, del mio passato, del motivo per cui conosco tutti quei fatti o quei ragionamenti, e poi spendere obbligatoriamente un sacco di parole, muovere le mani, variare anche l’espressione della faccia e della bocca, spiegare i dati che a me risultano, le mie convinzioni, ed alla fine soltanto per dare la dimostrazione di qualcosa che comunque stava già dentro me stesso, e in un caso o nell’altro vi rimane adesso e vi rimarrà chissà per quanto tempo ancora, assieme a tutti gli altri innumerevoli elementi che sono sicuro compongono ogni individuo come me nella sua personalità e nel suo carattere, come tutte le esperienze capaci di produrre i loro effetti anche soltanto all’interno delle menti di ciascuno, e sicuramente persino nelle riflessioni che bene o male riesco a fare io in ogni ora del giorno attorno a tutta questa attualità, attorno a tutto ciò che siamo noi, e naturalmente anche riguardanti quello che sono io oggi, nel bene e nel male, in ogni caso. Tengo nascosti i miei pensieri, credo sia meglio per me e per tutti. Poi non ha senso confrontare delle sfaccettature che a volte possono anche collimare con le altre, ma in altri casi no; ed allora ecco che queste mi chiamano a dover fornire chiarimenti, spiegazioni, e così sentirmi interpellato subito per discutere, per interloquire, dare dimostrazione, quasi come fosse una gara, un tentativo di convincere qualcun altro attraverso la superiorità delle mie proprie ragioni. Non ci casco: ascolto e basta.

            Qualcuno dice che sono un tipo silenzioso, un solitario, ma questo è vero solamente in parte: io parlo, discuto, urlo, certe volte, e continuamente offro le mie disquisizioni all’autocritica che applico ad ogni mio ragionamento. Parlo da solo, questo è il punto, ma non per confortarmi o per trovare l’acquiescenza più utile con cui affrontare la quotidianità, bensì per far passare ogni argomento sotto al setaccio intransigente della disamina, dell’analisi, della critica più severa, tramite la quale riconoscere difetti e magagne, errori e spropositi, refusi e scorrettezze. Tento anche di usare, sempre e solo con me stesso, un linguaggio chiaro, esauriente, grammaticalmente corretto, mentre proseguo con concentrazione a parlare a voce alta ma come se leggessi un testo, come avessi davanti un intervento scritto, e contemporaneamente così cerco le parti che non vanno, quelle che danno dimostrazione chiara di un pensiero debole, poco convinto, qualche volta del tutto inesatto. Ed in questo modo produco continuamente dei nuovi pensieri, dei differenti punti di vista, degli altri ragionamenti che mi fanno sentire vivo, presente, capace di argomenti che con ogni probabilità a molti sfuggono, perché poco correnti nei discorsi che si fanno per strada o dentro ai caffè.

Qualcuno mi evita, forse si è accorto che quando cammino sopra ai marciapiedi per i fatti miei scuoto la testa, muovo le mani, parlo con me stesso come se fossi una persona doppia, ma non mi interessa niente: sono fatto in questo modo, e credo che il mio modo di essere sia proprio un punto di arrivo piuttosto che un atteggiamento di cui sorridere o provare addirittura dell’indulgenza. Per questo cerco di evitare luoghi pubblici, tanto da far dire agli altri che sono un tipo ormai abituato a nascondersi da tutti. In parte è vero, inutile fingere che sia diverso: però non so neppure io che cosa abbia da perdere nel tenere esattamente questo personale comportamento.

           

            Bruno Magnolfi

lunedì 23 novembre 2020

Chiaro proposito.

 

 

"Vorrei solo che tutto fosse già finito", dico piano agli altri con un’espressione di serietà, ma solamente tanto per dire, mentre resto in piedi con loro accanto alla vetrata del caffè all’interno del quale quasi ogni giorno lascio volentieri scorrere almeno una parte del mio tempo. Fuori fervono i lavori per la risistemazione della piazza, e gli operai vanno avanti e indietro a livellare la terra e a posare i manufatti seguendo le misure giuste che da poco ha indicato loro il geometra dell’impresa, lasciando qua e là dei piccoli elementi indicativi e dei segnali color arancione. Ogni tanto giunge un autocarro con la terra o con il misto cementato da scaricare in loco, e quasi sempre alza un odioso polverone che va a depositarsi sulle foglie dei pochi alberi di magnolia che ci sono in giro, sulle panchine deserte rimaste al margine dei lavori, e in ogni angolo stradale e dei marciapiedi rimasti. Noi stiamo tutti con le mani sprofondate nelle tasche dentro al locale, scuotiamo la testa ogni tanto e decidiamo invariabilmente quello che sarebbe meglio secondo il nostro parere, anche se tutte le nostre opinioni rimangono tra le mura del caffè. 

Si tratta di capire quale sia il progetto principale a cui tutte le maestranze si stanno allineando, e come infine dovrà essere, in base a quello, il risultato finale di ristrutturazione della piazza. “Scommetterei che diventerà addirittura peggiore di quella bella piazza che conoscevamo da sempre”, dico ancora tanto per smuovere i pareri dei presenti ed infiammare gli animi, e qualcuno tra quelli che giocano al biliardo dietro di me scuote la testa tanto per dire che anche secondo lui non c’è proprio da attendersi niente di buono. In fondo quale argomento migliore di questo si potrebbe trovare in una cittadina dove non succede quasi mai un bel niente: sembra quasi ci sia il sindaco in persona a cementare i cordonati e a posare le lastre; si tratta soltanto di prendersela bonariamente con qualcuno, come è normale che sia, ed in qualsiasi caso il risultato finale non sarà mai di nostro gusto, e se anche lo fosse si potrebbe subito dire anche in quel caso che sicuramente sono stati spesi troppi soldi pubblici per una conclusione di quel genere.

Poi arriva d’un tratto un gruppetto di persone a visionare quei lavori, e mentre stiamo cercando di stabilire chi siano esattamente visto che ci rimangono di spalle, quelli senza grandi indugi entrano proprio nel nostro modesto caffè, mostrando all’improvviso la faccia del sindaco, dell’assessore ai lavori pubblici, del comandante dei vigili urbani e dell’impresario che porta avanti tutte le opere della piazza. Ammutoliamo tutti quanti di fronte a queste spettabili presenze, ed anche se a me verrebbe subito la voglia di chiedere qualcosa tanto per mettermi in mostra e far vedere a tutti che non sono certo un cittadino passivo, di fatto anche se ci penso con impegno non mi viene la domanda giusta da porre a qualcuno di questi signori, e così mi limito, come tutti gli altri, a farmi da parte e ad ascoltare quello che tali autorità dicono tra loro.   

E mentre siamo lì a fare contorno nel piccolo locale dove gli ultimi arrivati si prendono un caffè rigorosamente in piedi presso il bancone, il sindaco in persona si gira verso di me con espressione seria per chiedermi cosa io pensi dei lavori così come vengono portati avanti. “E’ tutto molto bello”, dico subito leggermente intimorito, mentre l’assessore e gli altri si voltano anche loro d’improvviso verso me. “Forse ci starebbe bene qualche albero in più”, azzardo senza neanche saper bene cosa dire. “Bravo”, fa subito il sindaco, “difatti appena saranno pronte le aiuole che stiamo realizzando, arriveranno i vivaisti a mettere a dimora degli alberelli che fra un anno o due saranno subito delle piante adulte e rigogliose”. Faccio un cenno affermativo con la testa, annuisco, mentre dal locale adesso escono tutti, e subito penso che anche io in questo momento posso proprio andarmene, visto che oramai è stato già tutto chiarito.

 

Bruno Magnolfi

venerdì 20 novembre 2020

Messaggio cifrato.

 

 

            ”Potrei smettere di fumare”, dico tanto per ridere al giovane detenuto che mi sta di fronte. Lui mi guarda, ma si capisce che non ha mai avuto il senso dell’umorismo, così non ci si può aspettare che apprezzi in un momento del genere come fosse uno scherzo questa ironia sul mio impegno a mantenere la parola data. Sorrido solo io allora, perché se ho di fronte ancora dieci anni da passare qua dentro, e lui tra un paio di mesi invece sarà fuori, potrebbe essere utile per me già da adesso la sua vicinanza, proprio per dare una mano anche a me ad uscire da qui, naturalmente in una maniera del tutto diversa da come se ne andrà lui, questo è del tutto evidente, ma proprio in considerazione di questa speranza non posso fare a meno di continuare a cercare di tenerlo il più possibile dalla mia parte. Seguiamo al pomeriggio un corso di informatica, insieme ad altri come noi, ma lo facciamo tanto per tenere impegnata la testa, ed anche perché è l’unica maniera per dimostrare a chi ci controlla che ci stiamo dando da fare per tenersi aggiornati, coltivare un futuro, cambiare la strada che ci ha trascinati qua dentro. Lui dice che si è affezionato a me, e forse anche a quello che rappresento, e non mi lascerà ancora marcire tra le sbarre per molto, perché ha nella testa un suo piano, qualcosa che aveva escogitato proprio per se stesso, se soltanto il processo a suo carico fosse andato peggio di quello che è stato. Si è beccato in tutto poco più di un anno, ma per un semplice colpo di fortuna, anche se ha rischiato di farsi dare vent’anni dal giudice.

            Dieci anni sono tantissimi, non riuscirei a resistere se non avessi almeno una possibilità di via d’uscita da questa situazione, e lui questo lo ha capito benissimo, ma mi tiene sulla corda senza spiegarmi quali siano i dettagli di quel suo piano di fuga. “Sei una carogna”, gli fo sottovoce, tanto per vedere che faccia può fare, e lui dice che uno di questi giorni mi spiegherà tutto, che devo soltanto avere pazienza. Può darsi che quanto è riuscito a mettere a punto sia soltanto una spudorata stupidaggine e basta, ma io nonostante tutto gli voglio credere, anche perché avere fiducia in qualcuno non costa niente, e ti fa stare subito meglio, più rilassato, quasi sereno. Lui dice che la cosa importante è saper coltivare le persone giuste, e farsi aiutare per inconsapevolezza da quelli più adatti. Non capisco quasi per niente cosa lui voglia dire con questi discorsi, però faccio un cenno affermativo con la testa: ho capito, vorrei dire con un certo ottimismo, magari però potresti indicarmi chi sono queste persone, a cosa servono, rifletto tra me.

Lui invece per il momento non aggiunge neppure un’altra parola, lascia le cose in sospeso, forse perché sa che qua dentro non ci si può mai fidare di niente e di nessuno, e così guarda sempre da un'altra parte quando lo osservi, come fosse già fuori da qui, e non avesse più i problemi che ho io e tutti gli altri. Non ci si può annotare un bel nulla tra queste mura, neppure un numero o un nome, neanche sotto la suola delle scarpe o in un angolo segreto, e se qualcuno per provocazione dice a voce alta anche soltanto una tra le tue parole chiave, si deve sempre restare completamente indifferenti, come non ci riguardassero per niente le cose che vengono sparate d'improvviso per vedere l’effetto che fanno durante l’ora d’aria. Mi spiegherà tutto al momento opportuno, mi ha lasciato immaginare in questi ultimi giorni, ed io ho speranza in quello che dice, lui è un tipo tosto, non mi tirerebbe mai una fregatura in questa maniera.

Lo guardo mentre digita qualcosa con la tastiera durante la nostra ora di lezione, e mi pare per un attimo che tutto improvvisamente sia superato, le cose appianate, le nostre vite restituite. Lui si ferma, aspetta un momento, infine mi guarda dritto negli occhi, come si fa con chi deve venire a conoscenza di qualcosa che è estremamente importante: “sei tu che devi disporre del tuo futuro”, mi dice. “Non importa dove ti trovi, è la tua mente che può permetterti di essere libero”. Poi scrive qualcosa che appare solo per un attimo sopra lo schermo, ma io  purtroppo non riesco a leggere bene, forse non sono capace di decifrare quei segni, magari non sono in grado nemmeno in questo momento di comprendere quel messaggio cifrato. Infine lui spegne il suo elaboratore.

 

Bruno Magnolfi

 

sabato 14 novembre 2020

Specchio dipinto.

 

                    

            Osservo ancora per un attimo sopra al cavalletto questo mio sofferto autoritratto, e mi sembra, proprio adesso che oramai appare praticamente terminato, non sia affatto capace di esprimere le caratteristiche che fin dall’inizio avrei voluto dare al dipinto mentre cercavo di realizzarlo. Ci sono delle carenze, delle lacune, degli errori di fondo, che ora noto con grande evidenza: la mia espressione sulla tela ad esempio non riesce a trasmettere quasi nulla del tormento che spesso provo nell’incapacità di somigliare ad un qualsiasi normale individuo, ad uno come tutti, una persona qualunque, calata nella realtà che ci sta attorno. E poi non sono stato capace di creare uno sfondo alla figura minimamente realistico ed equilibrato con la mia espressione, qualcosa che desse maggiore credibilità all’insieme, senza contrasti, con estrema linearità; ed infine i colori, troppo tenui, troppo delicati per essere all’altezza della fotografia di un’esistenza. Cosa importa, rifletto meglio, probabilmente verrà apprezzato anche in questo modo; anzi, probabilmente ci saranno persino degli estimatori che troveranno nell’insieme qualcosa di notevole di cui nemmeno io mi sono accorto.

            E poi che cosa significa anche solo trasmettere qualcosa che si sente, se non lasciare che sia il dipinto stesso a prendere la mano al pennello e dare da solo il proprio punto di vista alle cose, senza filtri personali, senza grandi interpretazioni psicologiche. Il fatto è che se anche mi osservo a lungo in uno specchio, non vedo affatto ciò che gli altri guardano di me quando mi incontrano. Sono sicuro di questo, perché rimane una differenza essenziale nelle cose: c’è una pellicola fuori dalla mia persona che non permette la perfetta osservazione di ogni mia espressione. Io so cosa ci può stare sotto la scorza, ma è difficile se non impossibile comunicarlo. Quindi è persino inutile il tentativo di infondere sopra la tela qualcosa che comunque sfuggirà sempre a chiunque, da qualsiasi angolazione voglia guardare in seguito il mio quadro ormai finito. Non c’è senso in tutto questo, non ci sarà mai alcuna prosecuzione.

            Poi prendo la giacca, esco dallo studio, ho bisogno d’aria, forse di riflettere, oppure di incontrarmi con qualcuno che mi mostri il proprio punto di osservazione, il proprio angolo visuale, la sua maniera di essere persona, proprio quella che io non riesco adesso a ricalcare. Già, perché alla fine sono soltanto io ad essere carente di qualcosa, ad aver alimentato per un tempo infinito l’incapacità ormai congenita di stare al passo del momento, di questa concretezza che modifica il nostro passo ad ogni attimo, e ci fa sentire subito diversi appena cerchiamo di ignorarne anche i dettami meno importanti. Ci sono delle persone per strada che mi riconoscono, sanno bene chi io sia, perché frequentano il quartiere, il caffè dove mi reco, le mostre che vado a visitare qualche volta. Non mi interessano però i loro elogi, l’inchinarsi alla fama, all’artista, a colui che è capace nella loro fantasia di tradurre in segno dei semplici pensieri o degli istinti. Li lascio alle spalle, non per superbia, quanto perché non mi può aiutare in questo attimo lo sguardo edulcorato, l’espressione ampollosa, il gesto falso di un ammiratore incapace di articolare il verbo critico o la parola discorde. Perciò potrei ubriacarmi insieme ad altri dentro una bettola, cantando a squarciagola e ridendo senza limiti; potrei camminare in completa solitudine fino a farmi sanguinare i piedi; potrei immedesimarmi nell’artefice di uno spettacolo di strada, osservando i dettagli dei suoi comportamenti. Ma non riuscirei a risolvere il mio vero problema.

Torno allo studio, non mi rimane nessun’altra possibilità, perché è lì che sta ancora la mia mente, è sulla tela ancora fresca che si sono adagiate ormai le mie fattezze, ed il mio sguardo, la mia espressione, tutto: solo là sopra posso trovare finalmente ciò che cerco.

 

            Bruno Magnolfi

            

 

         

venerdì 13 novembre 2020

Non rompetemi l'anima.


 

"Sono uno scemo, lo so", dico a Tommi giù al circolino dove mi fermo qualche sera per farmi una birra. Lui mi sta servendo da dietro al bancone in un momento in cui non ci sono clienti, ed io gli spiego la storia. "Non rimango simpatico a nessuno sul lavoro. Ma questo solo perché me ne sto per i fatti miei, perché non mi piace stare con gli altri a ridere e farsi scherzi da deficienti. Così prendono la mia ampolla per il grasso (tutti ne abbiamo una per lubrificare gli utensili, e ci incidiamo sotto le proprie iniziali per non scambiarle), e con quella sporcano i calzoni di ricambio del tizio più grosso e aggressivo tra noi, facendogli trovare la mia ampolla sotto al suo armadietto che sta dentro gli spogliatoi. Il resto lo puoi immaginare, ed oggi naturalmente quello mi ha sfidato (“se sei un uomo”, mi ha detto) nel raggiungerlo domani all’officina in fondo per fine turno. Così domani devo farmi pestare per bene da un collega con cui non ho avuto proprio niente da spartire”.

“Va bene”, fa Tommi. “Però tu puoi fargli paura. Posso prestarti la mia scacciacani. E’ innocua, però lui non lo sa, e tu fai subito la figura di uno che non si fa certo mettere i piedi sopra la testa”. Ci penso un momento, butto giù un sorso di birra, poi dico: “perché no” tra di me, ma con voce piuttosto alta. Il mio amico sparisce sul retro dopo un attimo, e quando riappare ha una semplice busta con dentro l’arma giocattolo che osservo un momento senza neanche estrarla del tutto. Gli strizzo un occhio, pago la birra e poi me ne vado. Giù al lavoro intanto i ragazzi ridono senza guardarmi quando mi incontrano lungo il piazzale o nei capannoni, ma a me non interessa un bel niente e continuo a comportarmi come ho fatto da sempre. Qualcuno sarà subito contento quando l’orango mi avrà sbattuto per terra, però non ho proprio voglia di farmi fregare in questa maniera, penso cercando di caricarmi al massimo possibile.

Alla fine vado nello spogliatoio, mi sistemo per quello che posso fare, e poi lascio scivolare nella mia tasca il ferro di Tommi, riflettendo bene sul momento più adatto per spianarla alla faccia di tutti e fare in questo modo più impressione possibile. Nessuno dei ragazzi si immagina da uno come me una cosa del genere, ma in fondo non mi conoscono molto, e quindi posso farmi passare semplicemente per un tizio che non vuole rompimenti, ed in caso contrario è disposto anche a ripulire la strada prima di transitarla, perciò questa per tutti potrebbe essere, a mio modo di vedere, l’ultima volta che salta in mente a qualcuno di farmi uno scherzo del genere. In fondo mi sento tranquillo, se qualcuno si accorgesse che la mia arma comunque è soltanto una finzione, in ogni caso farei la bella figura di uno che si è impegnato a non far del male a nessun altro. Perciò, mani in tasca, sguardo alto e ben attento, camminata regolare, mi avvio verso l’officina come se nulla fosse, disposto ad aspettare almeno qualche momento prima di tirar fuori le mie carte.

Quando arrivo sembra ci siano già tutti, fermi e disposti a circolo, ed il toro infuriato che mi vorrebbe gonfiare sta in un angolo, voltando le spalle all’entrata, in senso di sprezzo e di sfida. A passi sempre più lenti raggiungo il centro dell’officina, le mani ancora sprofondate dentro le tasche, ed osservo l’orango come fosse il mio nemico di sempre, ma senza dare alla faccenda una grossa importanza; lui si volta, sorride, si avvicina, forse si aspetta che io inizi a parlare di qualcosa nel tentativo di ammansirlo o di venire a ragionevoli consigli, ma invece resto in silenzio, ed aspetto sia lui a dire la prima parola. “Sei un idiota”, fa subito tanto per provocare, ed io ancora in silenzio. “Ho voglia di spaccarti il naso”, ed intanto si avvicina. Quando ormai siamo a tre o quattro metri l’uno dall’altro tiro fuori con calma il mio ferro e gli fo luccicare negli occhi la canna dell’arma, trattenendo un’espressione calma e determinata. Lui resta di ghiaccio, scorre rapidamente quali possibilità gli possano rimanere, ma non ne trova. Allora, non volendo fare la figura del pauroso, fa ancora un passo verso di me, come a sentenziare che non avrò mai il coraggio di sparargli. Io tiro su la pistola e tiro un colpo in aria, rendendomi conto, dalla polvere che cade dal soffitto, che quella che ho in mano non è esattamente un giocattolo, e che per questo sto cambiando espressione. Tutti si dileguano in un attimo, ed anche l’orango se ne va quasi di corsa. “Vittoria”, dico a Tommi più tardi; “non sono uno scemo: da ora in avanti nessuno avrà più la voglia di rompermi l’anima”.

 

Bruno Magnolfi   

 


giovedì 5 novembre 2020

Faccia senza maschera.

 

        

 

            Mi nascondo, come sempre ho fatto in questi ultimi tempi, perché non voglio che qualcuno guardi ancora con disprezzo la mia faccia. Osservo le altre persone da una feritoia, studio il modo di fare che qualcuno tiene quando sta semplicemente camminando, o mentre parla alle persone che conosce, o nel momento in cui sta riflettendo su qualcosa magari di importante. Poi rientro nel buio di questa chiesetta sconsacrata, incastonata tra stradine antiche, con il suo portone scuro che ha ceduto facilmente quando l’ho forzato, e poi mi ha accolto da subito come fosse la mia vera casa, lasciandomi la possibilità dal buio di guardare la realtà nel chiaro della luce, attraverso queste profonde crepe e tutte le spaccature prodotte dal tempo nell’incidere ogni giorno il legno vecchio e già tutto rovinato, scrutando una realtà che persiste incessante a scorrere là fuori, dove ogni individuo continua a procedere in avanti nella ricerca estenuante di un suo piccolo equilibrio, di una metrica migliore per misurare il tempo, di una maniera per immedesimarsi nel presente che gli procuri più coraggio, e che alla fine sia soltanto sua.

            C’è una ferita sul mio viso, un taglio profondo che mi è stato regalato da un coltello ormai tanti anni fa, quando ero giovane e cercavo chissà cosa in mezzo a tutti, senza mai abbassare lo sguardo quando c’era da dire qualche parola forte. Poi si cambia, ma restano i segni dentro e fuori. Un avanzo di galera, si direbbe, con un passato burrascoso sempre al limite. Cosa importa, penso; tutto ciò che possediamo è adesso, qui, tanto vicino da toccarlo, il resto non ha proprio alcun valore. Nessuno mi ha più dato la possibilità di lavorare, se non in quell’oscuro mondo della piccola criminalità, che ha sempre cercato di risucchiarmi fin da subito, senza concedermi mai l’occasione di rimanerne fuori. Adesso mi sento soltanto vecchio e pure stanco: non voglio più far parte delle notizie buone per un trafiletto sul giornale di quartiere: ho chiuso, mi ritiro qua dentro, nessuno verrà mai a cercarmi tra queste panche polverose ed il tetto già mezzo cadente.

            Penso: non c’è più tempo per far altro; i grandi progetti giovanili, la voglia di costruire un personaggio attorno a me, di farmi valere in qualche campo, di raggiungere almeno una normalità da spendere come tutti gli altri; tutto svanito, un segno indelebile sopra la faccia che parla da solo al posto mio, e poi via, nessuna diversa possibilità per essere un po’ come sono tanti, forse semplici, ordinari, qualsiasi, però concreti, capaci di costruire qualcosa che possa chiamarsi una famiglia, un futuro, una sicura positività. Osservo la strada attraverso le crepe del legno sul portone: potrei provare perfino invidia per coloro che spandono tranquillità mentre passano qua attorno; ma non è questo che mi interessa veramente. Mi basta che tutti si dimentichino di me e della mia espressione deturpata. Non ho più neppure un vero sentimento d’odio nei confronti di colui che ha ridotto il mio viso in questo modo; in fondo quando si frequenta un brutto ambiente, il minimo che possa accadere è che si resti segnati da qualche bravata casuale. No, non è stata una persona a fare il danno: è stato un periodo, un ambiente, uno sbagliare strada da parte mia, qualcosa che mi ha segnato nel profondo, fino a portarmi adesso a cercare un chiuso che non permetta più a nessuno di chiedermi ancora cosa sia successo alla mia faccia, oppure ad osservarmi a fondo proprio come si fa con un mascalzone che può soltanto essersi meritato quello che riesce oggi a mostrare quasi con orgoglio, senza neanche la capacità di provarne la vergogna che invece dovrebbe.

 

            Bruno Magnolfi

                

lunedì 2 novembre 2020

Non deve succedere ancora.


 

            “Lasciatemi stare”, urlo affacciandomi dal davanzale a tutti quelli che stamani si sono riuniti nel cortile sotto alla mia finestra. Sono soltanto i miei vicini di casa, quelli che abitano ai piani superiori, o anche nelle costruzioni accanto alla mia, perché adesso sono proprio stufo di loro, ed è come se non li riconoscessi, non li avessi mai visti, fossero quasi degli estranei qualsiasi, perché io ora voglio soltanto starmene da solo nelle mie preziose due stanze, senza che a qualcuno, chissà poi perché, venga la voglia di disturbarmi. Per questo mi sono chiuso a chiave dentro la mia casa, e non voglio neppure sentire più nessuno, proprio perché loro hanno sempre voglia di parlare, di spiegare, precisare, di fare delle domande, di guardarmi ogni volta con l’aria di chi si fida poco di colui che si ritrovano spesso di fronte, e rimangono sempre in attesa che quello faccia soltanto qualcosa di male per far venire le forze dell’ordine a portarselo via. Con loro siamo tutti dei grandi amici, almeno fino a quando non si supera la soglia; dopo sei subito uno diverso, un disadattato, un matto, emarginato da chiunque, non meriti neanche di abitare in un condominio assieme a tutti gli altri, e quindi ti devono portare via le guardie, lo devono fare con la forza, il più presto possibile per favore, ed in questo modo salvaguardare la tranquillità del quartiere.

            “Non faccio niente di male”, gli fo alla combriccola strillando ancora dalla finestra mentre tengo un martello dentro la mano, in maniera che capiscano bene che potrei anche essere peggiore di come sono sempre stato con tutti, e passare a vie di fatto con qualcuno di loro. Mi guardano adesso, intuiscono naturalmente che non sto affatto scherzando, però stanno qua sotto e non se ne vanno, rimangono tutti qui con la faccia seria a guardarmi, aspettando magari che qualcosa di grave succeda, che io faccia qualcosa di stupido, qualcosa che meriti di farmi portare via dalle guardie. Non sono brave persone queste qua, sono tutti contro di me, forse ridono per la mia voglia di starmene in pace, per il mio bisogno sacrosanto di non essere esattamente come loro. “Sono arrabbiato”, gli fo; “siete voi che mi fate arrabbiare, che mi ponete sempre delle domande a cui non riesco a rispondere, e poi magari ridete, parlate lungo le scale tra di voi e vi divertite nel prendermi in giro, quando dite che sono uno strano, uno che non è come tutti”. Mi chiedo che cosa mai vogliano questi da me, perché stiano sempre a parlare di quello che faccio oppure che non faccio, quando potrebbero benissimo preoccuparsi di altro.

            Poi arriva mia zia, l’hanno chiamata loro di certo, le avranno detto che mi è presa una crisi, che stamani non sono tranquillo come durante i giorni passati, che mi sono messo ad urlare contro di loro, che ho spalancato la mia finestra ed ho detto a tutti di andarsene via, e di smetterla di fissarmi come fossi un animale feroce. Lei dice qualcosa, poi sale le scale, sento i suoi passi mentre viene su, e poi fra un attimo so che aprirà la porta di casa con la sua chiave, e mi dirà con la sua voce melensa e senza avvicinarsi che oggi sono stato cattivo, che non avrei proprio dovuto fare tutto quel chiasso, perché la gente ora si è spaventata, e poi se continua così loro chiameranno le guardie, che vorranno sapere perché avevo un martello, e così mi porteranno via, per rinchiudermi, per mostrarmi quale sia la vera maniera di stare tranquilli. Devo fare qualcosa penso, devo inventare il modo più rapido per mostrare a tutti quanti che stavolta è diverso, che non mi va più di stare tranquillo a comando, magari soltanto perché è arrivata la zia.

            Velocemente metto la catenella alla porta, sento la voce della mia zia che scandisce il mio nome dal pianerottolo, ma io raggiungo di nuovo la finestra, dico a tutti con voce alta che nessuno può venire da me, e che decido io cosa sia meglio per quanto mi riguarda, e che non deve pensarci mai nessun altro. “Andatevene, insomma”, gli fo; “altrimenti dirò in giro che siete tutti un branco di sfaccendati; gente che non sa come trascorrere il tempo, che fa le stesse cose di sempre ogni giorno, e cerca di divertirsi alle spalle di uno tranquillo, uno che non vi chiede certo di dargli fastidio, e che ogni giorno vi sopporta con grande pazienza. Ma forse anche questo, purtroppo per voi, non potrà andare avanti proprio per sempre”.

 

            Bruno Magnolfi