domenica 28 febbraio 2021

Fuori di me.

 

Da un po’ di tempo non sono più me stesso, penso. Ho attraversato questi anni senza preoccuparmi quasi di nulla, ed adesso mi ritrovo a dover fare i conti con tutto ciò che spesso ho tralasciato. Non ero così, è chiaro, però quando mi sono reso conto che non interessavano nessuno le mie presunte doti, ho deciso di comportarmi in altro modo. Sono sempre stato da solo, forse perché cercare gli altri vuol dire anche accettare di mettersi spesso in discussione, e in ogni caso nessuno tra chi mi stava attorno ha mai chiesto di me, come se fosse già difficile ricordarsi la mia faccia ed il mio nome, o che comunque c’ero, oppure che in un modo o nell’altro, prima o dopo, c’ero stato. Insomma il trattamento nei miei confronti è sempre stato, direi, come di una sopraffina qualità della più leggera indifferenza, o se si vuole, di un grossolano fregarsene di me e di che cosa rappresentassi, in qualsiasi caso, comunque sia, in un modo assolutamente serio e ponderato. Ho riflettuto qualche volta intorno ai motivi scatenanti che possono aver generato una volta o l’altra tutto questo, però è stato molto più facile da un certo punto in poi voltare le spalle in fretta a tutti quelli che incontravo, in maniera tale da non soffrire neanche un briciolo di quel loro atteggiamento, almeno fino a quando non ho deciso del tutto di cambiare.

Non ci vuole molto a mettersi in mostra, ho iniziato a pensare ad un certo momento, così prendendo spunto, durante un giorno qualsiasi, da quello che notavo in tutti gli altri, ho semplicemente spalancato la finestra del mio appartamento al terzo piano, ed ho iniziato a gettare nella strada tutto quello di cui non avevo più necessità o che mi sembrava superfluo nelle mie stanze. Naturalmente prima mi ero barricato in casa chiudendo a chiave qualsiasi serratura, e a tutti quelli che dal marciapiede hanno iniziato a guardarmi e poi a gridarmi delle cose, non ho risposto affatto, proseguendo imperterrito a finestra spalancata con la mia semplice attività, nell’attesa certa che venissero chiamate, da un attimo all'altro mi immaginavo, le forze dell’ordine. Poi quando ho visto i lampeggianti ho fatto subito la faccia contrita e l’espressione di chi si pente realmente di essersi comportato in modo così poco cortese verso tutti. Ho aperto subito la porta di casa alle divise, e mi sono consegnato come fossi seriamente pentito di ciò che avevo fatto. Niente di particolare, nessuna delle guardie ha ravvisato nei miei comportamenti un vero attentato alle persone oppure ai loro beni, così tutto si è dissolto in fretta come una grande bolla di sapone. Anzi, qualcuno nella strada ha raccolto le mie cose e se l'è persino portate via.

Il vicinato così ha iniziato a parlare di me come di un tipo strano, un mezzo matto, da tenere sicuramente a distanza, e questo atteggiamento chiaro e scoperto ha subito provocato tra i miei pensieri delle reazioni assolutamente positive. Parlare da solo, ridere per strada senza motivo, gesticolare in maniera inconsueta, tutti atteggiamenti che mentre li adottavo mi hanno fatto immediatamente sentire libero di fare tutto quello che desideravo. Ho subito una trasformazione, penso adesso, ma se ci rifletto bene, molto di quello che sono oggi probabilmente era già dentro di me persino ieri. Un anziano vicino di casa mi ha chiesto poi con un debole sorriso sulla faccia, quale fosse lo scopo finale del mio gesto, cioè quello di scaraventare tutta quella roba dalla finestra del mio appartamento, ed io ho iniziato a ridere, senza rispondere, solo ridendo come per una storiella simpatica che avessi appena ascoltato. Alla fine sono salito per le scale e mi sono chiuso in casa. Che m'importa degli altri, ho pensato; cosa mi interessa delle opinioni di questo vicinato senza alcuna qualità. Voglio andare avanti con le mie cose senza più usare alcun riguardo per il prossimo, sia per chi in un modo o nell’altro mi conosce, magari anche soltanto di vista; sia per chi non si è mai interessato di un individuo anonimo come posso essere io. Basta, azzero tutto, non si troverà più traccia di me tra poco tempo.

 

Bruno Magnolfi

 


lunedì 22 febbraio 2021

Parente stretta.

 

           

            “Giungono poi giornate in cui mi prende l’angoscia”, dico a questa mia cugina che non vedo quasi mai, e che oggi invece è venuta da me per farmi una visita di cortesia. “Anche se non trovo un vero motivo scatenante per questa sensazione, comunque è così che mi vanno le cose, e non riesco a farci un bel niente. In questo quadrato di palazzi poi ognuno sembra vivere per conto proprio, e non c’è verso di riferirsi a qualcuno per farsi dare una mano, un consiglio, o almeno parlarne. Così ogni volta che accade prendo la mia utilitaria scassata e dopo un giro in periferia da sola arrivo fino alla bassa collina più vicina, dove non ci sono intorno delle abitazioni, e così posso fermarmi da qualche parte tra gli alberi e la radura. Scendo dall’auto ed inizio ad urlare, con quanta voce mi trovo nella gola, anche stendendo il busto e muovendo le braccia, sfogandomi al massimo. L’ultima volta, saranno dieci giorni fa, dopo un po’ arriva un signore, forse un raccoglitore di funghi o che so io, e da una certa distanza mi chiede qualcosa che le mie orecchie non comprendono affatto. Tutto bene, gli fo con un vago sorriso, sto soltanto provando la voce, dico anche per darmi un contegno. Lui grattandosi la testa si allontana, ma rimane a guardarmi da dietro i tronchi degli alberi”. Mia cugina adesso mi guarda quasi con la stessa aria di sospetto manifestata da quell'uomo, cioè come fossi una donna completamente matta e senza rimedio. "Poi sto meglio", le fo.

            Preparo il caffè: mi chiedo, mentre sistemo le tazzine su di un vassoietto, per quale motivo mi sia messa a raccontare una cosa del genere proprio a lei. Ha soltanto due anni meno di me, ma è sempre stata una persona perfettina a cui non pende mai un capello, tanto è il bisogno per lei che tutto fili assolutamente per il verso giusto. Non comprenderà mai il mio disagio, rifletto pur non concedendo troppa importanza alla cosa. “Secondo me dovresti parlarne con il tuo medico”, fa mia cugina che tratta immediatamente quell’argomento come un qualsiasi raffreddore o mal di schiena che possa essere. “Sicuramente potrebbe darti una cura, oppure un farmaco da assumere al bisogno, tale che possa comunque regolare ogni tua indisposizione”. Sorrido, lo so, è colpa mia, e torno a pensare chissà mai perché ne ho parlato proprio con lei, con la persona maggiormente sbagliata con cui potessi fare una cosa del genere; in ogni caso adesso inizio subito a discorrere di un diverso argomento, e cerco così di smontare d’importanza tutto quello che le ho spifferato fino a questo momento, penso di colpo. Ma lei annusa la storia, butta giù il suo caffè, e poi inizia subito a dire che adesso deve proprio andarsene, e che era soltanto di passaggio, giusto per un salutino.

Capisco che non voglia rimanere impigliata in mezzo ai miei guai, e piuttosto sarebbe disposta a far finta di non aver neppure sentito quello che le ho detto finora. Perciò inizia a montarmi il nervoso, e d’improvviso le dico: “guarda che questa cosa non la sa proprio nessuno, l’ho detta giusto a te perché sentivo la necessità di dirla a qualcuno della mia famiglia, e forse difatti mi sento già meglio per aver condiviso con qualcuno un segreto, ma proprio per questo motivo, trattare adesso questa cosa in maniera superficiale, o peggio con indifferenza, mi getta ancora di più nello sconforto totale”. Ci misuriamo a fondo per un attimo, guardandoci in faccia per brevi momenti, ma forse a me sta tremando una palpebra, e mia cugina senz’altro si è accorta della mia agitazione. Sicuramente a lei sta esplodendo la preoccupazione: “questa può dare di matta da un attimo all’altro”, pensa di sicuro; “devo uscire al più presto da questa stamberga disordinata, e non farmi rivedere qua dentro da sola per nessuna ragione”. Resta seduta, ma con le ginocchia vicine tra loro e i muscoli tesi, pronta ad alzarsi e ad andarsene al minimo spiraglio di possibilità che le offra.

Perciò le dico che sono depressa, anche se non è proprio vero. In questo momento voglio giocare a trattenerla il più a lungo possibile, voglio mostrarle il lato più vero di un forte dolore, e voglio che lei faccia la sua parte fino alla fine; sono persino disposta a mettermi ad urlare se serve, e chiederle ad occhi spalancati di tenermi le mani, oppure obbligarmi in qualche maniera a restare seduta, magari bloccandomi da dietro. Poi però provo pena per lei, così mi alzo e con tutta la calma possibile, vado fino alla porta del mio appartamento e la apro, anche perché mi è passata del tutto la voglia di sopportarla ancora tra i piedi, con la sua faccia pulita da donna perbene.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 17 febbraio 2021

Tagli sul corpo.


Il primo taglietto ad una mano me lo procurai quando ero ancora un ragazzo, distrattamente, tanti anni fa, proprio mentre stavo giocando da solo in fondo alla strada di casa, con un coltellino dal manico di legno che avevo comperato su una bancarella al mercato. Due gocce di sangue color rosso vivo e poi via, senza altre conseguenze. In seguito però iniziai spesso a punzecchiarmi la pelle con qualsiasi cosa tagliente mi trovassi tra le mani. Il gusto perverso del dolore per me ha sempre avuto un richiamo attraente, tanto da portarmi a procurare dei piccoli tagli su tutto il mio corpo, dove meglio mi capitava. Oggi poi mi infliggo quasi regolarmente delle piccole ferite alle mani, alle braccia, certe volte anche alle gambe, e provo sempre un certo piacere nel provare lo stesso piccolo sottile dolore, vedere le medesime gocce di sangue, riconoscere che dentro la mia scorza non c'è mai il vuoto, ma qualcosa che pulsa, qualcosa che al minimo graffio tracima e si mostra. Per me è come manifestare di me stesso qualcosa che sta dentro e che non so cosa sia, ma sono sicuro che scalpita per mostrarsi alla vista tramite quelle fessure che io stesso mi imprimo.

Trovo che non ci sia niente di male nel comportarsi in questa maniera, e neppure nel dichiarare ad altri questa cosa per me naturale: in fondo ognuno ha le sue debolezze, ed anche dei gusti diversi; per me poi è diventato una specie di gioco quello di scalfirmi la pelle con qualche piccolo taglio, ciò che davvero pensano gli altri alla fine non mi interessa. Naturalmente anche le lame che uso devono sempre essere all'altezza della situazione, e soprattutto ben affilate, ma ho anche delle preferenze in proposito che rispettano giorni, orari e anche condizioni diverse. Poi però arriva un tizio, mi chiede con curiosità che cosa siano quei segni che porto, quelle piccole cicatrici inusuali sulle braccia, e sembra molto interessato alla maniera di procurarmele. Lui asserisce di essere un fotografo, un appassionato di cose particolari in relazione al corpo umano: vorrebbe farmi delle istantanee, magari nel suo studio; sostiene di potermi addirittura pagare se gli lascio effettuare un servizio completo. Ci scambiamo i numeri e ci diamo comunque un appuntamento.

Quando ci vediamo lui sembra molto contento di poter catturare con l’obiettivo le mie piccole cicatrici, in tutte le angolazioni che desidera. Si perde in ogni piccolo dettaglio, riprende qualsiasi minuta ferita io mostri, e poi mi fa anche sfoderare un mio fedele coltello, e forse cerca persino trovare un senso preciso a tutto quello che vede davanti alla macchina. Infine tira fuori dei soldi, mi dice che ci dobbiamo incontrare di nuovo, che devo firmare delle carte per concedergli la possibilità di pubblicare il materiale che ha registrato. Ci accordiamo subito, e poi decidiamo di fare altre foto per una rivista che ha richiesto un esauriente servizio completo su tutto quanto. Le cose vanno benissimo, ogni volta lui mi riempie le tasche di quattrini, e l'unica cosa che mi chiede di fare è quella di tenere sempre fresche le mie cicatrici, costringendo me stesso a ferirmi ogni volta. Tutta la faccenda va avanti per diverse settimane, lui è sempre pieno d'entusiasmo, e poi sostiene che le mie fotografie stiano andando benissimo, piacciono tantissimo ad un numero crescente di estimatori, così mi riempie ancora di soldi, senza neppure bisogno che io chieda nulla.

Poi però qualcosa si rompe. All'improvviso mi sembra sgradevole che ci sia tutto un gran pubblico a curiosare sui miei comportamenti; mi scopro stufo di procurarmi quelle ferite perché qualcun altro possa gioirne, mi sembra persino immorale che ci sia chi manifesti il gusto di apprezzare cose del genere sugli altri; così smetto. Smetto di farmi i taglietti, di tormentarmi la pelle, di far scaturire continuamente le gocce del mio sangue. Il fotografo si mostra disperato, arriva a propormi altri soldi, altri scatti, altre riviste su cui apparire. Ma per me ormai è finita, le cicatrici si stanno assorbendo, non ho più intenzione di farmi graffiare ancora dalla mia lama. Mi sento cambiato, non provo più alcun piacere in quella vecchia abitudine, all’improvviso non voglio più vedere il mio sangue e sentire il dolore dei tagli; la gente si trovi pure una cavia diversa da me.

 

Bruno Magnolfi



mercoledì 10 febbraio 2021

Lungo i fianchi delle colline.

            

 

Da qui alla fermata della corriera ci vogliono appena venti minuti camminando con un passo veloce, ma quando sono in ritardo questo tratto di strada mi ritrovo ad affrontarlo quasi interamente di corsa, nonostante sia tutto in leggera salita, anche se non mi piace per nulla entrare nel mezzo pubblico col fiato grosso e i muscoli delle gambe già indolenziti. Preferisco di gran lunga prendermela comoda, e farmi la strada con calma, anche se questo vuol dire alzarsi dal letto più presto al mattino, e chiudere alle spalle la porta della mia casa, ad un chilometro circa dalla fine dell’abitato, ancora col buio, molto prima che albeggi. Certe volte penso che il momento più bello di tutta la mia giornata sia proprio quando arrivo nella piazzetta esattamente all'ora giusta, senza essermi per nulla sforzato lungo il viottolo che da casa mia porta al paese, quando riesco così a salire con tutta calma quei piccoli gradini della corriera, ed anche a salutare l'autista mentre sta già fumando come sempre una delle sue prime sigarette del giorno, e dare un saluto cortese a quelle tre o quattro persone che stanno già dentro comodamente sedute in attesa della partenza.

La sera, quando infine rientro nello stesso cascinale che ho lasciato al mattino, dove con i miei genitori e la mia sorella minore abito da sempre, i momenti che ricordo con maggiore piacere di tutta la giornata lavorativa trascorsa, mentre proseguo a mangiare qualcosa seduto alla tavola della cucina, sono proprio quelli che ho provato sopra quel mezzo pubblico. “C’era il Pieri oggi a guidare”, dico a mia madre che mi guarda curiosa; oppure, “c’era parecchia gente sulla corriera, tutte le donne che  stamani stavano andando al mercato rionale del venerdì”; o anche, “mi ero quasi addormentato stamani sul mio sedile, a un certo punto”. Il paese dove abito è piccolo, non c’è quasi niente, di qualsiasi cosa possa avere bisogno la gente che abita qui, deve prendere per forza quella corriera e andarsene con pazienza fino in città. Io invece ci vado ogni mattina per lavorare: sono un commesso di un grosso negozio di ferramenta, e il mio padrone è un vecchio amico del babbo, uno che da ragazzo abitava anche lui nel nostro paese. Ma tra gli scaffali e il bancone non succede mai nulla di nuovo, e i tanti clienti che passano da lì alla fine sono sempre i medesimi, e pongono sempre le stesse domande. Non mi lamento, questo no, non ne avrei alcun motivo; soltanto dico che alla lunga questo è un lavoro indubbiamente noioso, ripetitivo, in cui comunque c’è da tenere a memoria una quantità innumerevole di articoli in vendita, e soprattutto la loro esatta collocazione sugli scaffali, oltre naturalmente a conoscere bene la quantità sterminata di problemi che tutti quegli oggetti hanno la capacità di risolvere, ognuno per proprio conto.

Il vecchio proprietario oramai dentro al negozio lo si vede soltanto per qualche ora al giorno, quando c’è l’afflusso maggiore di clientela; il resto lo portiamo avanti noi commessi, cercando di non sbagliare mai nulla con i nostri consigli ed in tutto quello che proponiamo alle persone quando ci viene chiesto un parere per risolvere un guaio. Mio padre ha voluto che andassi via dal paese, “qui non c’è niente da fare per te”, mi ha detto secco tanti anni fa mentre lui si occupava della stalla, accudendo gli animali nel campo dietro la casa. Ero un ragazzo, non ci sapevo fare con quelle cose che per lui tornavano così naturali, e quindi gli detti ragione, abbassai la testa e gli lasciai fare le scelte che reputava più giuste per me. Forse non pensava che sarei rimasto sempre e comunque fedele al paese, e che non avrei cercato di farmi troppe amicizie in città. Forse avrebbe voluto mandarmi via da questo posto, dalla campagna e da queste colline, per il mio bene sicuramente, anche se io fin da subito restai innamorato, proprio come lo sono anche adesso, del dondolamento insostituibile della corriera sul tratto di strada tutto curve che mi riporta dolcemente fin qui.  

 

Bruno Magnolfi

           


venerdì 5 febbraio 2021

Semplice umidità.

 

          

            Osservo un angolo di strada davanti a me, un posto proprio di fronte alla mia finestra, dove una larga chiazza di umidità, sopra al muro d'una vecchia abitazione accanto al marciapiede, sembra seguire i contorni di una forma nota, familiare, come di qualcosa forse già visto, chissà poi quando può essere stato, e chissà anche in quale altra situazione. Accanto a questa immagine che appare, si apre un giardinetto dietro una recinzione arrugginita: uno spicchio di verde formato soprattutto da rami secchi e da un tappeto di foglie cadute a terra, completamente lasciato a sé, senza nessuna cura. Certe volte riempio il mio tempo immaginando qualcosa di falso davanti ai miei occhi, tanto da credere talvolta a delle cose irreali, inventate, del tutto impossibili. Il medico dice che non devo fantasticare troppo quando guardo qualcosa, perché la mia fantasia, secondo lui troppo spiccata, finisce sempre per portarmi fuori dai giusti binari, quando invece dovrei cercare di avere dei pensieri maggiormente realistici. Ho sempre pensato di avere la possibilità di disegnare tutto quello che vedo e mi colpisce, almeno in qualche occasione, piuttosto che descriverlo a voce alta ogni volta che il dottore torna per visitarmi e pormi le sue domande, ma non sono mai riuscito con la matita a riportare davvero sulla carta quanto mi ritrovo di fronte, forse anche perché non ho mai provato seriamente neppure a farlo. Gli dico qualcosa, dopo le sue lunghe, profonde insistenze, magari gesticolando addirittura con le mani per rendere meglio l’idea, ma infine non credo che lui comprenda perfettamente le mie descrizioni. Soprattutto secondo me non è capace di vedere le cose così come le vedo io, e di questo in fondo me ne dispiaccio, perché così dimostra di non riuscire ad essere mai davvero in sintonia con le mie affermazioni.

Quando il dottore se ne va io resto seduto mentre agito una mano per salutarlo, ed una volta rimasto da solo dopo poco tempo riprendo la mia minuziosa osservazione dalla finestra di quel giardinetto di fronte, soffermandomi su dei particolari che adesso mi pare di non aver mai neppure notato in precedenza. Ogni volta comunque trovo nell'immagine scura sul muro e nella chiazza di umidità persistente qualcosa di diverso. A me sembra persino sollevarsi direttamente dalle fondamenta, quella grossa macchia, scorticando in qualche piccola zona l'intonaco vecchio e cadente, e lasciando nella parte più bassa un sentore come di calcinacci sfarinati e senza più consistenza, quando invece nella zona più in alto la sua forma sembra mostrare una medusa gigante pronta a soffiare via l'acqua da dentro il suo ombrello, e sollevarsi in aria come se fosse immersa in un mare filtrato di sole, verde e trasparente, spingendosi con tutta la forza della sua voglia di essere, verso i piani più alti del caseggiato giallo e polveroso. Il medico ha detto che le cose che osservo sono soltanto quello che sono, e che non ci devo vedere nient’altro, ed io gli credo, questa è la sua medicina, anche se forse non è del tutto adeguata al mio caso.

Questo non gliel'ho mai detto comunque, e magari non l’ho fatto soltanto per una sorta di dispiacere che potrebbe provare nell’ascoltare da me qualcosa che contrasta direttamente con le sue idee fondanti. Mi limito quasi sempre ad annuire quando mi parla, e ad assicurargli che farò tutto ciò che lui mi dice di fare, tanto che osserverò, d'ora in poi, soltanto per quello che sono tutte le cose che mi restano davanti, anche se penso che forse mi potrà risultare quasi impossibile farlo davvero. La mia medusa purtroppo si innalza oltre il muro della casa di fronte e si incarna rapidamente in una bassa nuvola grigia di passaggio, mentre io resto imbambolato nel rendermi conto di quanto la realtà disveli le sue immagini così facilmente. "Può vederle anche lei", dico poi oggi al dottore. "Basta che osservi i contorni delle cose. Quella macchia d'umido ad esempio", ma lui si arrabbia, dice che sono testardo, che non voglio mai collaborare. “Non c’è niente sul muro, nient’altro che umido”, mi fa. Mi dispiace, non vorrei mai irritarlo, forse ho addirittura esagerato; però adesso non vedo l’ora che se ne vada da qui, proprio per restare da solo a guardare ancora da quella parte, e capire quale sarà lo scopo finale della medusa, mentre prosegue ad arrancare imperterrita verso le parti che le rimangono davvero più in alto.

 

Bruno Magnolfi