venerdì 31 gennaio 2020

Pensiero fulmine.

          

            Sempre le medesime cose. Inutile insistere. Si può cercare di sfuggire almeno per un po’ alle abitudini, fingere di sentirsi magari su un altro piano, immaginarsi persino superiori, o di essere assolutamente capaci di un’analisi maggiormente accurata, o anche più veritiera, e che mostri i limiti di ciò che ci sta attorno. Ma alla fine è la monotonia delle giornate che riesce a piegarci, un succedersi continuo di elementi costanti e già ampiamente previsti, senza alcuna possibilità di sottrarsi per davvero a questa logica. Un ritmo costante delle ore di ogni giorno, un continuo ripetere di gesti, espressioni, pensieri, fino alla nausea, semmai entrasse anch’essa nel gioco. E poi però anche la sicurezza delle solite cose, la tranquillità dei pensieri ben noti, la capacità della coerenza: tutto regolato da un unico grande ragionamento: il filo continuo che lega le cose, i fatti, la realtà, ciò che nel bene e nel male ci riguarda più o meno tutti.    
            Sbatto la porta mentre esco di casa, non perché mi senta nervoso, quanto per essere sicuro che sia chiusa per bene una volta uscito da lì. C’è un pezzo di strada di fronte a me da affrontare, quindi devo semplicemente sostare alla fermata del bus, osservare due o tre volte l’orologio, guardarmi un po’ in giro ed attendere, che sia un solo minuto oppure dieci. All’arrivo del mezzo pubblico posizionarmi in modo da usare la mano di destra per aiutarmi a salire, cosicché la mano sinistra sia libera il prima possibile per obliterare il biglietto, e cercare immediatamente con il corpo uno spazio abbastanza libero in mezzo alla calca, per guadagnare una nicchia in cui sentirmi protetto, con le spalle alla vettura già in movimento, osservando dal vetro vicino un panorama cittadino privo di dettagli resi peraltro illeggibili dalle pubblicità.
            Potrei scendere dal mezzo pubblico ad una fermata qualsiasi, perdermi a piedi lungo un groviglio di strade che conosco anche poco, allontanarmi da tutto ed attendere che qualcuno venga forse a cercarmi, come se avessi perso completamente la mia memoria, non riconoscessi più la mia città e non sapessi come fare per tornarmene indietro. Potrei trovare forse un rifugio, una tana qualsiasi dove nascondermi da questo tempo martellante, da queste cose da fare, gli impegni da affrontare, le abitudini alle quali dar seguito. Potrei rannicchiarmi in un angolo ed osservare gli altri che passano davanti ad una semplice feritoia praticata in una spessa parete, difendermi dagli attacchi di coloro che forse odiano tutto, quelli indifferenti alle sofferenze di tutti. Potrei muovere a mia volta degli attacchi mirati, compiere delle incursioni precise per cercare di fiaccare le fila di ogni avversario, e poi rendere inoffensivi i nemici tramite degli astuti tranelli, iniziando subito dopo col prepararmi per una valida controffensiva, fingendo di avere diverse unità ai miei comandi, in modo da incutere paura già solo mostrando le mie potenzialità.
            Però le fermate scorrono una dietro quell’altra, e ad un tratto riconosco la mia, così scendo, devo scendere, proprio come ogni giorno. Il mio posto di lavoro rimane come ogni volta davanti a me, identico, e nella stessa maniera di sempre tra un attimo striscerò il mio cartellino dentro la macchina, poi entrerò nell’edificio, saluterò i miei colleghi, e sarò pronto per intraprendere un’altra giornata lavorativa. Però mi fermo, rifletto, mi passa un fulmine improvviso dentro la testa, poi mi giro su un fianco e con passo svelto mi allontano, senza neppure guardare chi possa aver dietro. Faranno a meno di me, almeno per oggi.


            Bruno Magnolfi
         

          

martedì 28 gennaio 2020

Strada divisoria.


          

            Un tizio dice qualcosa a voce alta, dall'altra parte della strada, mentre io me sto seduto al tavolino all’aperto di un bar con una birra ed un giornale da leggere. Lo guardo, quello resta fermo, sembra aver detto proprio a me, così lo studio per un attimo, poi torno subito al mio quotidiano, ignorandolo. Uno svitato, penso, un tipo che non sa proprio cos'altro fare delle sue giornate. "Ti tengo d'occhio", sento ancora urlare subito dopo; "so chi sei, e anche come ti chiami". Mi alzo, appoggio il giornale, entro dentro il locale per distoglierlo e farmi versare un'altra birra, ma quando torno fuori il tizio si è semplicemente spostato di qualche metro, ma ancora è lì, e come prima rivolto proprio verso di me. Adesso però non dice niente, mi guarda soltanto, ed il suo atteggiamento pare bastargli, almeno per il momento.
            Torno a sedermi e mi viene da sorridere per la situazione strana in cui mi trovo. Lui resta imperterrito a fissarmi. Poi prendo coraggio, appoggio le mie cose e mi tiro su in piedi per attraversare la strada ed affrontare il tizio, in modo da capire se magari mi abbia preso per qualcun altro, o semplicemente se non sia con la testa del tutto a posto. Ma appena metto un piede sull’asfalto stradale, e mi guardo attorno per evitare eventuali automobili, quello scappa d’improvviso, e arriva rapidamente fino al primo angolo, sparendo alla mia vista. Mi guardo attorno, “deve essere mezzo matto, quello lì”, dico ad una persona che sta camminando vicino a me lungo il marciapiede, senza provocare alcun commento, a parte una breve risatina.
            Mi siedo, riapro il giornale, accavallo le gambe mentre mi allungo leggermente sulla sedia. Ogni tanto abbasso le pagine per vedere se quello si fa ancora vivo, ma non sembra: “forse si è stufato”, penso. Invece poco dopo eccolo di nuovo lì, che riprende a guardarmi fisso nella stessa posizione di poc’anzi, ed adesso mi indica anche, con un braccio steso e con un dito della mano, come a mostrare che non ci sono dubbi, sono proprio io quello con cui se la sta prendendo. “Che cosa vuoi?”, chiedo a voce alta, mentre mi sto decisamente stufando di questa situazione. Poi lo indico a mia volta con un dito, esattamente come ha fatto lui fino ad un momento fa, in modo che non ci siano proprio dei dubbi: “sto parlando con te”, sembro urlargli, “tu che te ne stai a rompere l’anima a chi neppure ti conosce”.
            Cala il silenzio, ogni tanto le macchine percorrono la strada come sempre, ed io mi trovo ancora da solo presso i tavolini all’aperto di questo stupido bar, ed il tizio di fronte a me se ne sta ancora lì a guardarmi, come non avesse proprio altro da fare. Maledico la strada che sembra ci divida, perché se non fosse così, a questo punto lo avrei di già affrontato e avrei chiarito tutte le cose una volta per tutte. “Sei un codardo”, gli dico senza neppure alzare troppo la voce, e lui in risposta sembra prendere qualcosa da terra per tirarmelo, anche se poi non tira niente. Basta, entro dentro al bar quasi deserto, mi siedo al bancone e mi disinteresso del tutto di quel tizio, proprio come non fosse mai esistito. Dopo un attimo però qualcuno viene a sedersi accanto a me, e senza che io lo guardi direttamente, ma soltanto osservando i calzoni che indossa, mi rendo conto che è proprio il tizio del lato opposto della strada. Allora mi volto, lo guardo con decisione, e lui mi dice: “potresti pagarmi una birra adesso; sempre che ti vada”.


            Bruno Magnolfi

lunedì 27 gennaio 2020

Libertà solo apparente.


            

            "Ancora uno, per favore", dico alla ragazza che ci porta da bere, mentre assieme agli altri proseguiamo a giocare nella saletta fumosa sul retro del locale, concentrati sopra al panno verde oliva del nostro biliardo. "Non c'è niente di male, se provo un tiro a tre sponde", fo agli altri senza aspettarmi da loro alcuna risposta. Ad uno che guarda, seduto fuori dal cerchio di luce, gli scappa da ridere, come se avessi detto qualcosa di divertente, o chissà; poi mi abbasso con atteggiamento professionale, chiudo l'occhio sinistro e faccio oscillare la stecca appena un attimo prima di colpire pacatamente la bilia in una zona leggermente ad effetto. Tre punti. Nessuno trova niente da dire. Poi prendo un sorso dal mio bicchierino appoggiato sul tavolo accanto ad una parete, lascio che qualcuno segni i miei punti, e quindi mi prendo una pausa.
            Sostanzialmente sono stanco di trascorrere le serate in questo modo, ma ormai è un’abitudine a cui non riesco quasi più a rinunciare. Diverse volte ho pensato a cercarmi qualcosa di alternativo in cui impegnarmi, ma non è facile trovare un’attività che mi riempia la testa nella stessa esatta maniera. C’è il confronto con gli avversari, la ricerca continua del tiro magico, la battuta di spirito appena sussurrata, la voglia di mettere in mostra le proprie presunte capacità. Però alla fine sono sempre le stesse cose che si ripetono all’infinito. Appoggio la stecca sul bordo e dico agli altri che adesso purtroppo devo andarmene via, lascio il posto ad un altro, mi ero quasi dimenticato di un appuntamento importante.
            Pago le consumazioni, indosso la giacca e poi esco dal locale, prima che possa ripensarci, anche se non ho alcuna idea verso dove possa dirigermi. Torno a casa, decido alla fine, e siccome abito poco lontano e sono arrivato fin lì a piedi, nella stessa maniera affronto la strada a ritroso. Trovo subito un tizio che mi dice qualcosa, probabilmente mi conosce, rifletto, così gli rispondo in maniera scherzosa, ma quello mi spiega che le cose per me si stanno mettendo un po’ male, anche se non capisco per nulla di cosa lui stia parlando. Mi fermo, gli chiedo spiegazioni, e lui mi dice che a qualcuno non è affatto piaciuto il mio ritiro improvviso dalla sala di biliardo.
            “Ognuno è libero di decidere”, gli fo; “oppure c’è qualcosa che non ho compreso”. Lui mi osserva, poi tira fuori una mano dalla tasca del giubbotto, e quindi stende con calma le sue dita mentre le guarda, come fossero le ali di una farfalla appena uscita dal bozzolo. “Non è così facile”, dice; “quello che ci si aspetta da una persona come te non è questo”. Mi sembra che l’individuo di fronte a me sia stato appositamente inviato da qualcuno, però mi pare persino impossibile che ci sia un tale attaccamento a quel gioco. “E cosa dovrei fare”, gli chiedo senza muovere un solo muscolo. “Non so”, fa subito lui conservando la stessa espressione; “magari potresti tornare là dentro; o forse dare la possibilità di rivincita a qualcuno, nei prossimi giorni”.
            “Va bene”, fo io; “puoi dire tranquillamente a chi ti ha mandato che mi farò vedere domani nella stessa sala da biliardo, e così potrò giocare con chi sarà presente per un’ultima volta, visto che non intendo andare ancora avanti”. Lui fa un cenno di affermazione, mi saluta toccandosi la fronte e sorridendo, poi scompare dal marciapiede, così com’era apparso. Resto perplesso: “in questa città non è facile sentirsi del tutto liberi”, rifletto; “certe volte si deve rendere conto perfino delle cose che credevamo in assoluto meno importanti”.

            Bruno Magnolfi

giovedì 23 gennaio 2020

Buio, intorno al rifugio.


              

            “Arrivo”, gli fo, dopo che lui ha già bussato diverse volte ai vetri della finestra che si affaccia sul retro della mia casa. Forse oggi non avevo neppure troppa voglia di uscire dalla mia cameretta, penso, ma è evidente che in questo momento ormai non ne posso proprio fare a meno. Il mio amico viene quasi tutti i pomeriggi a scuotermi dal torpore che spesso mi prende dopo la scuola, e comunque a me fa piacere che lui mi dia un po’ d’importanza. Generalmente apro la finestra ed esco direttamente da lì, scavalcando il davanzale, senza dare tante spiegazioni alla mia mamma che sta nell’altra stanza e crede proprio che rimanga tutto il giorno curvo sopra i libri.  
            Non facciamo niente di male in fondo, quasi sempre ci si va ad infilare nel nostro rifugio fatto di canne e sterpi subito fuori dal centro abitato accanto ad un fosso, e si sta lì, seduti per terra, a parlare sottovoce e a rannicchiarci ogni volta che avvertiamo nei dintorni qualche rumore. "Ho recuperato una cicca", fa lui, e tira subito fuori una sigaretta senza filtro che sappiamo lasciarci in bocca tutto l'amaro del tabacco, ma che è sempre meglio di niente. Abbiamo promesso da diverse settimane di dare una bella lezione ad un tizio grosso che a scuola ci rompe sempre le scatole, così mentre si fuma si parla quasi sempre di questo tipo e di quello che possiamo fargli uno di questi giorni. "Dobbiamo essere in diversi", fa adesso il mio amico; "e tutti con le bende sopra la faccia per evitare problemi nei giorni seguenti'. "Certo", lo incalzo io; "gli diamo appuntamento da queste parti con una scusa, e poi all'ultimo momento usciamo fuori con i bastoni e gli facciamo passare la voglia di fare tanto il grosso e il prepotente".
            “Non voglio più andare a scuola”, fa lui a un certo punto; “dopo questo lavoretto per esempio mi metterò ad organizzare delle soluzioni per far ragionare tutti quelli che rompono le scatole”. Lo guardo mentre inevitabilmente mi scappa già da ridere. “Pensi che possa diventare un mestiere fare cose del genere?”, gli fo. Lui mi guarda ed assume subito un’espressione seria. Prende un’altra boccata di fumo, fa qualche colpetto di tosse, poi dice: “non lo so, ma io non credo molto nel futuro. Penso che si debba vivere tutto nel presente. Fare le cose che ci girano dentro la testa in questo momento, senza aspettare un bel nulla di ciò che sarà, perché si cambia velocemente, e ci si ritrova ad aver gettato via solo un sacco di tempo”. “Su questo hai ragione”, gli dico.
            Poi qualcosa si muove intorno al nostro capanno, così ci mettiamo in ascolto cercando di vedere qualcosa tra le fessure delle canne legate insieme. Ci sono due tizi che risalgono il fosso vicino, forse cercano qualche tana di animale, o dei nidi di airone, chissà. Il mio amico alza le spalle, lui se ne frega di quello che succede qua attorno, penso; ormai è andato avanti, non è più interessato alle cose spicciole che fino a ieri ci davano preoccupazione e forse un po’ ci piacevano. “Ce la puoi fare”, gli fo tanto per dare una spinta ai suoi propositi. “Lo so”, fa lui senza neppure guardarmi. “Bisogna crescere in fretta”, mi fa; “dobbiamo guadagnarci un ruolo prima di tutto. Questo è quello che penso. Se continuiamo ad andarcene a scuola diventiamo tutti quasi identici, anche se alcuni di noi riescono a prendere di mira i prepotenti e quelli privi di testa”.
            Infine usciamo da lì, lentamente si torna indietro, e quando siamo sul retro di casa mia, vedo che la finestra della mia cameretta è ancora accostata, mi mamma non si è accorta di nulla. “Ciao”, gli faccio al mio amico, “dove te ne vai adesso?”. “Non lo so”, mi fa lui; “però mi sa tanto che torno al rifugio. Tanto devo iniziare a prenderci confidenza, anche se tra poco sarà quasi buio”.

            Bruno Magnolfi

        

martedì 21 gennaio 2020

Senso di colpa.


        

            "Mastico amaro, amico", spiego con calma. E subito dopo mi chiedo che senso abbia mai parlare con questo tizio che non sembra neppure starmi a sentire. "Ogni attimo che giunge può essere una brutta sorpresa, ma non ci si può fare niente", dico ancora. Poi butto giù un altro sorso della mia birra, mentre intorno al bancone dove resto seduto c'è gente che schiamazza e pare divertirsi. "È inevitabile", riprendo. "In ogni momento che segue quello che stai vivendo non sai cosa ti aspetti. Col tempo magari ci fai pure l'abitudine, e poi fingi di non farci neppure più caso. Però non puoi essere mai del tutto tranquillo, non puoi sospendere alcun momento di tutta quanta la tua esistenza. Fortunato chi non ci pensa nemmeno a cose del genere. Per me invece è diverso: vivo in un’angoscia costante, e non riesco a farci un bel niente".
            “Se per esempio immagino di godermela un po’, e magari mi metto in casa sdraiato davanti alla televisione, senza nient’altro da fare che seguire là sopra una cosa leggera, che non mi impegni troppo la mente, dopo poco le preoccupazioni scendono comunque improvvise sopra di me, fino a scalzarmi da quel mio posto, con dei pretesti del tipo: devi fare la spesa, devi ripulire la cucina, farti una doccia, andare a lavorare, pianificare la settimana, e così via. Un senso di colpa come un pugno allo stomaco inizia a lavorarmi con sempre più forza, fino a quando spengo tutto ed inizio a ripulire la mia abitazione o cose del genere”.
            L’altro beve con tutta calma la sua birra fresca, e forse pensa che io sia mezzo svitato, perché lui riesce costantemente a fregarsene di tutto quanto e a mandare avanti le sue cose senza nessuna preoccupazione. Difatti sorride quando finge di comprendere quel che sto cercando di spiegargli, ma io penso che tutto al contrario lui non può proprio capire un bel niente di quello che dico, perché non prova per nulla dentro di sé l’angoscia per il futuro ed il senso di colpa. Poi si solleva dal suo sgabello e mi dice che deve andarsene, così lascia dei soldi sul banco e poi mi pianta da solo a bere e a sopportare questo pomeriggio senza alcuna prospettiva. Penso che non ci sia niente di peggio, che quando come adesso ti impegni per spiegare la cosa a cui hai dedicato in assoluto più tempo per cercare di renderla almeno arginabile, e qualcun altro tratta i tuoi problemi con gran leggerezza, come se fossero dei semplici argomenti da birreria.
            Perciò penso di andarmene anche io, e sto già per alzarmi da questo posto, quando il tizio di prima torna indietro: “ci potrebbe essere una soluzione”, mi fa. “Dovresti trovare qualcosa di importante, tanto da riempire completamente il tuo tempo. Lo so, non è facile, però ce la puoi anche fare. Scrivere poesie, dipingere, ideare qualcosa, impegnarti di brutto in un argomento che ti distolga completamente dai tuoi brutti pensieri. Magari iniziare a descrivere con precisione su qualche quaderno tutto quello che hai cercato di spiegarmi fino adesso. In fondo potrebbe essere la maniera anche per dare una mano a qualcun altro, in seguito a questo. Far capire ad altre persone che si può anche uscire da una depressione come la tua, semplicemente mettendoci un certo impegno nell’affrontarla davvero: spiegarla, definirla, usare tutte le parole che puoi per far comprendere al meglio possibile che cosa possa mai essere”. Lo guardo: “ va bene”, gli fo.

            Bruno Magnolfi

giovedì 16 gennaio 2020

Colpo di mano.


        

            Mi trovo in sala d’attesa, la terra di mezzo tra il prima ed il dopo. La signorina all’entrata del poliambulatorio mi ha detto che il medico ancora non c’è, però io posso sedermi qui, su una delle sedie di plastica e aspettare. Così ho fatto, e mi sono ritrovato in una completa solitudine, dentro una stanzetta bianca, direi disadorna, con due file di seggiole che si fronteggiano appoggiate alle pareti più lunghe, collegate tra loro in maniera stabile e perciò inamovibili. Immagino tutta la gente che passa da qua, in orari magari leggermente diversi, e normalmente staziona tra queste mura nell’attesa di una visita importante, di un parere prezioso, di una parola definitiva da parte della persona di scienza che dal suo studio medico a fianco certe volte toglie dei dubbi, e in altri casi può anche inserirli, sempre con un’opinione assolutamente obiettiva, sia sul paziente che sulla materia.  
            Persino la finestra ha dei vetri opachi, che non permettono di vedere di fuori, perciò ogni individuo che si trova in questo luogo è costretto a pensare solo e soltanto a quanto potrà succedergli o meno, appena verrà ammesso al cospetto del dottore di turno. Poi però entra una donna, improvvisamente, saluta sfuggente ed osserva dei fogli che tiene in mezzo alle mani, pare distratta, poi annusa in giro, come a cercare la pista più giusta; torna indietro e la signorina all’entrata, dal suo bugigattolo protetto dal vetro, le dice con voce un po’ alta e sbuffando, che l’ambulatorio che lei sta cercando resta semplicemente dalla parte opposta del corridoio, dove si trova comunque un’altra sala d’attesa, probabilmente identica a questa, penso io.
            Di nuovo da solo, rifletto che dovrò sicuramente attendere molto, anche se oramai mi sento nervoso: in fondo questo è proprio il posto giusto per prepararsi ad una condanna, oppure ad una parziale assoluzione, visto che già perdere un pomeriggio così, è qualcosa che in genere costa. Arriva un medico lungo il corridoio con il suo camice bianco ancora aperto, ma non è il mio, anche se io lo seguo attentamente con il mio sguardo, visto che non ho altro da fare: sta parlando al telefono, ma da vero professionista indossa l’auricolare e mette là ogni tanto solamente qualche vocale a voce bassissima, in maniera che intorno si comprenda il nulla assoluto della sua legittima conversazione. Poi sparisce dietro una porta e tutto torna tranquillo.
            Vorrei andare a chiedere, alla signorina che staziona dietro al suo sportello all’entrata e ad occhi bassi verifica qualcosa sopra uno schermo, se dovrò attendere molto, ma non vorrei in questa maniera mettermi subito in cattiva luce, perciò aspetto paziente che tutto si compia con i tempi consueti. Ma è a questo punto che accade qualcosa: arriva una dottoressa, e capisco subito da come guarda da questa parte che è quella che io sto aspettando, però non è sola, ma circondata da quattro o cinque persone che le parlano in affanno quasi contemporaneamente, e tutte insieme entrano nella sala d’attesa dove io mi sono rifugiato in quest’angolo. Immediatamente lei sparisce dentro al suo studio aprendo la porta e richiudendola di scatto alle sue spalle, non senza aver immesso assieme a lei anche un paio di persone che l’hanno accompagnata fin qui.
            Qualcosa pare sfuggirmi di mano, lascio trascorrere un paio di minuti e poi penso di alzarmi in piedi per bussare alla porta e chiedere spiegazioni, ma in quell’esatto momento arriva la signorina che stava all’entrata, e dice con tono professionale che c’è una lista di attesa con prenotazioni già prese per via telefonica; appende immediatamente la lista accanto alla porta in una cornice che non mi aveva proprio dato nell’occhio, e vedo subito che il mio nome è scritto per ultimo. Mi alzo, rido forte, come uno scemo, non sapendo cos’altro fare; poi me ne vado.

            Bruno Magnolfi   

martedì 14 gennaio 2020

Sogno sperato.


            

            “Si è spostato, tutto si è spostato lentamente, senza che neppure ce ne fossimo accorti. Avevo in mente certe cose qualche tempo fa, ed adesso sono cambiate, anche se non in maniera radicale, però almeno di un pochino alla volta, quasi che fosse sufficiente uno scricchiolio ogni giorno, per formare poi una crepa vistosa. Vi guardo e vedo persone che non conoscevo, anche se ci siamo frequentati per un sacco di tempo; lo stesso probabilmente dite voi di me e di tutti gli altri, è evidente. Non lo so neppure, stasera, di che cosa vi voglia parlare, sempre che abbiate il desiderio di concedermi ancora la vostra attenzione, però quello struggimento che prende quando ci accorgiamo che tutto ci sta scivolando di mano, adesso è proprio qui questa sera, insieme a noi, e non possiamo neppure fingere che sia qualcosa di un’altra natura”.
            Poi smetto, lascio il microfono, qualcuno mi applaude, come sempre succede quando uno di noi prende la parola per dire delle cose generiche, quasi scontate. Un appello alla ragione, un altro alla lungimiranza, nessun intervento divisivo, anzi, una ricerca costante del collante migliore per tenere assieme le volontà che sembra desiderino andarsene per conto proprio. Le idee di molti spesso galleggiano sul niente: delle impressioni, certe scelte fatte di pancia, quasi sempre senza ragionamenti. “Dobbiamo programmare qualcosa, prevedere in qualche maniera il futuro, essere capaci di mettere a fuoco dei pensieri che abbiano valore per tutti, non soltanto per qualcuno”.
            Nella sala del circolo nessuno ha più voglia di affrontare argomenti pesanti, di discutere su quale posizione tenere nei confronti di un fatto o di un altro. L’accordo tra noi rimane latente, forse non c’è, e non si aspetta altro che sciogliere anche questa riunione per riprendere ognuno il proprio parere, le medesime idee che aveva anche prima, a dimostrazione del fatto che siamo composti di una medesima pasta, e non ci lasciamo imbambolare da chi parla meglio o ci sa stare di più dietro al microfono. Le manciate di parole adoperate per spiegare qualcosa, alla fine sono sempre le stesse, ed anche se ci impegniamo parecchio per costruire delle frasi che funzionano meglio nel veicolare i nostri pensieri, alla fine tutto rimane circoscritto intorno a concetti ormai risaputi.   
            Mi lascio pagare un caffè al bancone del locale vicino, c’è sempre qualcuno che ti batte una mano sopra la spalla, e ti dice di pensarla alla stessa maniera, anche se tutto questo non ha alcuna importanza, e quella medesima persona sia disposta a dire la stessa cosa a moltissimi altri. Tutto peggiora, vorrei quasi rispondergli: ed anche questo caffè non è più buono come quello di un tempo. Poi alla fine esco, l’aria fresca di questo periodo sembra rigenerare anche le serate incompiute, ritrovo i miei passi sopra la pavimentazione stradale, le mie tasche dove lascio sprofondare le mani, il mio sguardo sempre vigile nel tenere sott’occhio quanto mi accade d’intorno. Non so quale senso sia possibile dare a tutto questo: forse è soltanto un continuo modellare la realtà in funzione della voglia che viene mostrata; forse era del tutto inevitabile che le cose prendessero prima o poi questa piega. Mi pongo delle domande a cui non contrappongo nessuna risposta, soltanto supposizioni.
            Probabilmente devo smettere persino di pensare: prendere una vacanza mentale, farmi un giro chissà dove, a caccia soltanto di svago, di sensazioni diverse, e quindi tornare, ma dopo un bel po’ di tempo, come fossi uno straniero che arriva da queste parti senza sapere niente di questo posto, e non conosce qui attorno proprio nessuno. Ecco, soltanto così potrei avere finalmente idee nuove, soluzioni, proposte: come se ripartire da capo fosse quasi un inizio, un avvio che forse non avrei mai immaginato, un sogno di quelli che ormai non riesco più neppure a sperare.

            Bruno Magnolfi


domenica 12 gennaio 2020

Voglia di niente.


         

            Quando sto qui tutto il resto diventa per me poco importante. Guardo dalla finestra la strada che scorre sotto ai miei occhi, ed io resto ferma, immobile accanto ai vetri, senza alcun motivo per spostarmi da dove mi trovo in questo momento. Qualche giorno addietro mi sono impegnata a leggere qualcosa per svagarmi, ma mentre stavo sulla mia poltroncina pensavo che qualcuno nello stesso momento avrebbe certamente avuto bisogno della mia attenzione. Così, come per intuito, mi sono alzata, sono tornata a guardare la strada dalla mia finestra, e da lontano improvvisamente ho visto lui, che camminava tranquillo, con il suo passo di sempre, forse per venire da me, o forse no. In fretta mi sono ravviata i capelli, forse avrei avuto anche necessità di cambiarmi d'abito ma non ce n'era il tempo, perciò mi sono limitata a guardarmi nello specchio ed ho deciso che andava tutto bene già così, non c'era assolutamente bisogno d'altro.
            Ho riflettuto su come farmi trovare, magari mostrando un semplice moto come di sorpresa, oppure mostrando una certa indifferenza, e magari fargli presente subito che avevo fretta, per spiegargli quindi che stavo giusto per uscire, anche se comunque qualche minuto di tempo per lui l'avrei trovato senza dubbio. Potevo dire che stavo aspettando appunto qualcun altro, e che tra pochi istanti avrebbe quindi dovuto andare via; poi però con il leggero accenno di una risata ho lasciato perdere tutte queste sciocchezze, ed ho pensato che la cosa migliore era aprirgli la porta con naturalezza, senza spiegare a lui un bel niente.
            Mi sono seduta, ho ripreso in mano il mio libro ed ho aspettato, cercando di leggere ancora qualche frase. Avvertivo il silenzio attorno a me, ed in tutto il condominio, per questo ho mosso i piedi, ho cercato io stessa di provocare qualche rumore, giusto per non sentirmi del tutto sola. Niente, sono trascorsi molti minuti, forse troppi, senza che non sia accaduto proprio niente. Sono tornata a guardare dalla finestra e lui non c'era più, sparito chissà dove. Ho pensato che anch'io adesso avrei dovuto uscire, senza cercarlo evidentemente, magari per tentare semplicemente di farmi trovare lungo la strada, ma come per un puro caso. Però, soltanto a pensarci, ho provato una profonda fatica, e così sono tornata a sedermi sopra la mia poltroncina.
            Che cosa importa tutto questo, ho riflettuto: mi piace starmene qui per conto mio, osservare gli altri che si affannano nel cercare chissà cosa, ed io che con completa indifferenza proseguo ad attendere che qualcosa realmente possa accadere, senza preoccuparmi d’altro, solo di questo. Certe volte ci sono dei rumori in questo condominio, si sente distintamente qualcuno che magari sta salendo queste scale, ed io mi aspetto da un momento all’altro che venga suonato proprio il mio campanello, che si chieda di me, per qualche motivo, che sia arrivato un conoscente a vedere come sto. Però non è detto che questo accada adesso oppure un po’ più tardi, in fondo non c’è niente di importante nel corso di una giornata simile, niente che valga la pena di preoccuparsi per qualcosa da fare, qualcosa da intraprendere, qualcosa che ci si debba aspettare veramente. Tutti gli altri in fondo sono là, lungo la strada, e basterebbe che a me venisse la voglia di allontanarmi dalla finestra e scendere giù per la scala condominiale, e potrei avere davanti a me tutte le conoscenze che desidero. Se soltanto lo volessi.

            Bruno Magnolfi


mercoledì 8 gennaio 2020

Bolla speculativa.


          

            “Sono fermo”, dico con le dita ancora sulla tastiera senza neppure guardare in faccia il mio amico. “Certe volte immagino di avere ancora delle possibilità, di potercela fare a rimettermi di nuovo in carreggiata, così mi illudo, prendo fiducia, faccio qualche telefonata, scambio della corrispondenza affidando alla posta elettronica delle strenue richieste di risposte positive, che puntualmente non danno alcun esito, andando a perdersi come nel vuoto”. Dentro lo schermo dell’elaboratore principale, i grafici mostrano in questo momento dei segni positivi relativi a quasi tutti i titoli presi in esame per le solite simulazioni, ma oramai tutte le possibilità per puntare ancora qualcosa sull’economia virtuale sembra proprio si siano fatte inconsistenti.
            “D’accordo, beviamoci sopra una birra”, dico alzandomi indolenzito dallo sgabello anatomico dove ho trascorso persino troppe ore anche per oggi, senza che tutto il mio impegno sia servito minimamente a qualcosa. “Arriviamo fino all’angolo della strada, dal solito vinaio”, dico cercando di sorridere; “in fondo qualche spicciolo nelle tasche ancora mi è rimasto, almeno per qualche bevuta”. Il mio amico mi segue annuendo, io sono perfettamente cosciente di dover restituire pure a lui dei fondi che mi aveva elargito quando le cose sembravano andare a gonfie vele, anche se sembra probabile, considerata la situazione, che da me non vedrà indietro più niente, soprattutto perché non mi trovo più adesso in condizioni di poterlo risarcire.
            Il mio amico ogni tanto parla della sua famiglia, di qualche sciocco problema di salute che ha avuto, della casa dove abita e del suo lavoro, ed io lo ascolto volentieri per qualche momento, anche se mi rendo sempre più conto ogni volta che i miei argomenti sono molto meno variegati, e dipendono sempre e soltanto dai titoli di borsa. Sono perfettamente consapevole di aver vissuto negli ultimi anni dentro ad una specie di bolla speculativa che non mi ha permesso di pensare praticamente a nient’altro, ed adesso purtroppo recuperare quanto mi sento di avere perduto, non è più proprio possibile. Ci sediamo, ci portano da bere, mi mordo la lingua in due o tre occasioni per non riprendere a parlare della borsa e degli andamenti dei mercati, e mi rendo conto ancora di più che ogni argomento che ascolto mi pare secondario rispetto a quanto mi gira tuttora dentro la testa.
            Poi lui va a toccare i vecchi tempi, sa che in questo modo può forse riuscire a farmi sorridere, quando tutto questo sfacelo dei mercati elettronici non c'era, ed era ancora lontano da sopraggiungere, e di nuovo quello che vedo disegnato dalle sue parole mi appare però un mondo distante da me, forse stupido, ininfluente, senza spessore. Mi sento irrecuperabile, non tanto per i debiti che ho accumulato praticamente con tutte le persone che conosco cercando di rimettermi in sesto, quanto perché la mia mente si è ormai distorta, e non continua a pensare ad altro che ai grafici e ai numeri percentuali. Poi brindiamo a qualcosa che ha appena finito di dire, il mio amico, e lui, guardando l’orologio, dice che adesso però deve andarsene, ha già fatto tardi per qualcosa a cui tiene. Lo saluto, resto seduto a guardarlo mentre va via, so bene che non lo rivedrò più per un pezzo, perché lui si terrà alla larga da me: sono inquinato, riempito fino all’orlo di titoli spazzatura che non mi permettono più di galleggiare, e di tornare a dei rapporti normali con gli altri. Trovo spaventosa la solitudine, ma anche per questo voglio rimettermi in fretta davanti alle mie macchine: soltanto lì alla fine sto bene, mi sento ancora in rapporto con qualcuno, anche se la comunicazione che riesco a portare avanti con gli operatori sparsi chissà dove, è composta soltanto da indici.

            Bruno Magnolfi

lunedì 6 gennaio 2020

Astrazione momentanea.


         

            Ho visto la mia immagine riflessa nella vetrina, mentre passavo davanti ad un luminoso negozio di calzature. Mi sono soffermata, ho guardato ogni particolare più evidente, ed ho pensato con leggerezza che la persona che avevo di fronte in fondo mi era quasi un’estranea. Così ho proseguito a camminare con la mente svagata e l’impressione di essere praticamente invisibile agli altri, almeno nella forma che mi è sempre stata propria. Ho riflettuto che non ci vuole poi molto ad essere astratti, è sufficiente sentirsi fuori dalla normalità di ogni giorno, assumere un’espressione diversa da quella di sempre, e poi mescolarsi tra la gente, sprofondare rapidamente tra mille maschere, come una piccola entità immersa in un liquido composto da moltissimi elementi.
            Ho svoltato velocemente per certe strade che generalmente non frequento, ed anche se ho notato un paio di persone che vagamente conosco per averle viste già qualche volta in giro, nessuno però ha fissato il proprio sguardo esattamente su di me, proprio come se non fossi stata presente su quel marciapiede. Dopo poco sono tornata a specchiarmi in un’altra vetrina, ed ho maggiormente riscontrato, con una prevalente certezza, che la persona di fronte ai miei occhi era proprio un’altra, rispetto a quella cui sono da sempre abituata. Mi è venuto da sorridere, naturalmente, ed ho cercato di pensare verso quale luogo dirigermi, estranea a tutto come mi ritrovavo in quel determinato momento, anche se non mi è saltato dentro la mente nessun luogo.
            Così sono entrata dentro ad un caffè piuttosto elegante, mi sono seduta ad un tavolino, e dal cameriere mi sono fatta servire qualcosa, tanto per trascorrere almeno un po’ di tempo. Che cosa mi interessa, ho pensato, in questo continuo cercare di essere costantemente e soltanto quella che sono; cioè: per quale motivo non deve essere possibile per me modificare opinione, abitudini, comportamenti, modi di essere e di mostrarsi. In fondo la coerenza non è più un grande valore, ormai appare ampiamente superato, e restare invariati lasciando soltanto gli anni e l’età a fare la differenza, è qualcosa che ha il sapore solamente della noia e delle incapacità propositive. Voglio essere un’altra, mi sono detta subito; così in un attimo, osservando fuori dai vetri, mi sono impersonata in una donna che stava chiedendo a qualcuno delle informazioni lungo quella strada, perciò mi sono alzata, ho pagato al cameriere quanto dovuto, e poi, uscendo dal locale, ho iniziato subito a seguire ad una distanza piuttosto ravvicinata quella persona, cercando di carpirne l’indole, gli atteggiamenti, la maniera di camminare, come fossero prodromi delle proprie idee.
            Ho cercato di fermarla, ad un certo punto: l’ho accostata ad un semaforo pedonale, mentre era ferma, nell’attesa del permesso tecnologico per attraversare quella strada trafficata, ed invece di chiederle qualcosa, ho detto ad alta voce, a lei e a chi c’era intorno a noi, che ero stufa di camminare nel completo anonimato, di essere oramai soltanto un numero, una manciata di secondi sufficienti soltanto a percorrere l’incrocio, un’impostazione logica dentro ad un microprocessore che non teneva conto di chi siamo, delle nostre esigenze, dei nostri bisogni più concreti. Lei si è voltata di colpo verso di me, mi ha guardato come mostrando con un sorriso una certa evidente solidarietà, e poi ha detto soltanto che anche per lei era un’assurdità incarnare una persona di questo tempo; che non si sentiva adeguata a questi canoni, che non avrebbe mai voluto essere così, anche se non trovava nessuna possibilità di sbocco. Le ho sorriso, appena per un attimo. Poi è scattato il colore verde del passaggio pedonale, ed ambedue ci siamo indirizzate ognuna per la propria strada.     

            Bruno Magnolfi